IL NOVECENTO ITALIANO : CARLO BO

 

Luigi De Bellis

 
 
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Carlo Bo, nato a Sestri Levante nel 1911, morto a Genova nel 2001, docente di letteratura francese, critico e saggista, collaboratore di riviste e quotidiani, è stato per molti anni rettore dell'Università di Urbino. Tra le sue numerose opere segnaliamo: Otto studi (1939), Bilancio del surrealismo (1944), Mallarmé (1945), L'eredità di Leopardi e altri saggi (1964), La religione di Serra (1967).

Letteratura come vita. 

La letteratura per Bo coincide con la vita. Ciò significa un rifiuto di una letteratura intesa come «mestiere» che si eserciti «nelle pause della vita», nel dominio del «tempo minore», senza attenzione profonda (con atteggiamento «dimissionario») alla «nostra coscienza di uomini». Viceversa letteratura deve essere «la strada più completa, per la conoscenza di noi stessi, per la vita della nostra coscienza». Subito questa ricerca interiore rivela il suo carattere di ricerca metafisica e trascendente: letteratura e vita sono entrambi «strumenti di ricerca e quindi di verità», mezzi non solo per «sapere qualcosa di noi», ma per condurre «con dignità, con coscienza» l'attesa (un concetto chiave dell'ermetismo) di «una notizia che ci superi e ci soddisfi», dietro la quale espressione non è difficile intuire l'idea di «manifestazione del divino». Tuttavia si noti che spiegare troppo un testo come questo, togliergli il suo carattere allusivo e talora polisenso, significa in parte snaturarlo, forse impoverirlo.
La tesi fondamentale dello scritto di Bo si approfondisce e si arricchisce di nuove sfumature: l'unica realtà per un letterato autentico è «l'ansia del proprio testo verso la verità»; in relazione a questa ricerca (che è anche definita «caccia») il testo trova la sua «necessità assoluta», si sottrae al dominio del «tempo minore» (la storia, il quotidiano) per entrare o aspirare ad entrare nel dominio del «Tempo» (il tempo dello spirito?, l'eterno?, un tempo comunque anch'esso assoluto, non storico). La letteratura si realizza totalmente, assolutamente in questa ricerca della verità, in questa attesa del divino, di una «notizia» dai territori della trascendenza: evidente quindi che Bo neghi ad essa ogni scopo pratico, perfino - ma questo è concetto assai più sottile - quello di «preghiera» e di «perfezionamento». L'attesa - si direbbe - è attesa di un evento che comunque non dipende da noi. Nel passo successivo assistiamo a un addensarsi di corollari alla tesi principale: il linguaggio si fa ancora più allusivo e a tratti oscuro. La letteratura non deve trattare di «questo mostro che ci soffoca di più giorno per giorno», di «questa enorme fiera di vanità in cui per diverso grado cadiamo tutti con le debolezze, le colpe, i peccati e soprattutto con la nostra spaventosa disponibilità alle omissioni», ma deve alludere alla «solenne promessa», al «segno di salvezza», a quella «vita» che per un cristiano è materia di fede. Ciò significa mettere in contrapposizione essenzialmente tempo ed eterno, storia e assoluto, natura e sovrannaturale, "fisica" e metafisica, materia e spirito. Perlomeno dubbio è che dietro al « mostro» e alla « fiera di vanità» (e dietro a successive espressioni come «rappresentazione così deformata e avvilita di realtà») si debba intravedere un'allusione al fascismo. Comunque non è affatto necessario supporlo. Il fascismo sembra più essere considerato una contingente, non determinante manifestazione della storia che rappresenta comunque una negatività. E la risposta, la reazione ad esso è comunque esclusivamente di natura spirituale. Il rifiuto generico della storia (come «tempo minore»), della «realtà comune» è ribadito subito dopo, quando anche si dice che la letteratura deve tendere «all'incarnazione di un simbolo», espressione certo polisensa ma comunque allusiva anche della natura tecnica (simbolistica) della letteratura ermetica. Il problema della chiarezza/oscurità di una simile letteratura non conta, a giudizio di Bo, trasceso com'è dall'ansia di verità: la chiarezza rischia di essere «un'oscurità travestita», se il testo non conduce a quella verità, se parla di cose insignificanti (ogni fenomeno situabile nella storia?). L'oscurità di una letteratura così concepita, in altri termini, è direttamente proporzionale al mistero che vuol sondare, e in questo mistero ha la sua genesi. Il concetto (ma l'espressione «Non conosce... comunicabilità») è ribadito nell'ultimo frammento, che espone sinteticamente la natura della letteratura ermetica come «caccia alla verità» che deve svolgersi «in un golfo di attesa metafisica».

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2000 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it