Guido Gozzano
nacque a Torino nei 1883. Di famiglia borghese benestante (ma in
progressivo declino), dopo gli studi liceali si iscrisse alla
facoltà di Giurisprudenza senza però portare a termine gli studi.
Preferì seguire i corsi di Lettere e le lezioni di Arturo Graf in
particolare e frequentare i circoli letterari della città (ebbe
amici Vallini e Calcaterra, fra gli altri). Memorabili sono, nella
sua breve esistenza, i soggiorni estivi ad Aglié - dove
verosimilmente colloca la Villa Amarena della Signorina Felicita - e
la relazione con Amalia Guglielminetti, poetessa che incarna il
modello di donna colta e sofisticata (una delle donne «rifatte sui
romanzi»), Nel 1912-1913 compì un viaggio in India di cui scrisse
un resoconto per «La Stampa» (gli articoli vennero più tardi
raccolti nel volume Verso la cuna del mondo,
1917). Minato dalla tubercolosi, morì a Torino nel 1916. Fra le sue
raccolte poetiche da segnalare: La via del
rifugio (1907) e soprattutto I colloqui
(1911), che rimangono il suo capolavoro. Lavorò anche ad un
poemetto, Le farfalle, e scrisse
racconti e fiabe.
Sulla poesia e sullo stile di Gozzano riproduciamo una pagina,
sintetica ma illuminante, di Pier Vincenzo Mengaldo.
La sindrome psicologica (e sociologica) di Gozzano è stata
splendidamente descritta - prima che da Sanguineti - da Cecchi come
estetismo, a specifica tinta dannunziana, frustrato e rientrato;
sindrome ben reale nella sua base medio-borghese, ma, è bene
aggiungere, notevolmente coltivata ad arte dall'interessato, come in
quell'autoritratto negativo in posa che è il Totò Merùmeni (del
quale non va sopravvalutato il carattere autobiografico), per cui
ciò che negli altri crepuscolari, a cominciare da Corazzini, può
essere sincerità ingenua o tutt'al più vezzo, in lui si complica
immediatamente di artificio e letteratura. E in realtà si resta
tuttora stupiti, e ammirati, di fronte alla capacità gozzaniana di
trasformare in autentica e fresca poesia una materia che è in sé
interamente «falsa», intellettualistica: con la definizione di
Bonfiglioli, «il soggetto lirico... è solo una vita, possibile fra
tante, priva di necessità. Il suo protagonismo è un'illusione, una
commedia, la sua personalità è un ruolo, una maschera: puro
comportamento, finzione consapevole. Così la poesia stessa...». È
notevole il perfetto parallelismo fra la situazione psicologica
appena accennata e l'operazione letteraria compiuta da Un ironico
"falso letterario". Da qui scaturisce il procedimento e
quasi la dimensione o l'atmosfera del "falso letterario"
che domina il componimento con svariate sfumature. Si consideri come
l'ambiente canavesano viene sempre percepito come paesaggio di
maniera (il castello secentista!), e si interseca con i motivi
gozzaniani della "stampa", dello "smalto", cioè
di rappresentazioni d'arte - e per estensione letterarie,
artificiali - dell'ambiente e del paesaggio. Si consideri poi come
nel finale la passeggiata notturna («al cancello sostai del
camposanto / come s'usa nei libri dei poeti», vv. 361-362) e
l'addio («distacco d'altri tempi», v. 424; «M'apparisti così
come in un cantico / del Prati», vv. 429-430) si colorino di
espliciti e ironici riferimenti letterari, sino a pronunciare il
nome del Prati! E si consideri anche Felicita, personaggio
moralmente sano, trasparente, "autentico", ma che si
immagina anche uscita da un quadro fiammingo (v. 78). Si potrebbero
aggiungere certe cadenze (manifestamente) favolistiche, l'uso di un
lessico e di infiniti stilemi letterariamente connotati
(melodrammatici, di un languido romanticismo sentimentale, ecc.) e i
fondamentali motivi, diffusi lungo tutto lo sviluppo del testo,
della trasfigurazione della realtà in sogno, della collocazione di
ogni oggetto ed evento fuori da uno spazio e da un tempo reale.
Una "vacanza" dalla vita. L'ambiente borghese
provinciale, in cui si colloca l'idillio, e la stessa Felicita sono
insomma proposti come "autentici" e contrapposti alla
"falsità", all'artificialità del mondo cittadino
lontano, nel suo milieu colto e sofisticato (ad es. vv. 181-204), ma
al tempo stesso possono essere fruiti dall'avvocato solo tramite una
molteplicità di schermi e schemi letterari, solo sub specie
litterarum. La "vacanza" dell'avvocato si configura allora
come una fuga dalla realtà e dalla storia, una "vacanza"
dalla vita, senza possibili approdi al di fuori del fittizio della
letteratura.
Gozzano, che consistette in breve - con le parole illuminanti di Montale
- nell'«attraversare D'Annunzio
per approdare a un territorio suo» (e s'intenda non solo il
D'Annunzio paradisiaco, ma anche l'alcionio). Ora la vena del poeta,
non solo nelle sue riuscite maggiori (come L'amica di nonna
Speranza, Le due strade, La Signorina Felicita, Invernale), ma
sempre, è quella di uno schietto narratore in versi, un po' sulla
linea, da questo lato, di tanta poesia «veristica» minore del
tardo '800. [...] È da domandarsi se proprio questa narratività
non abbia richiesto per compenso e contenimento, un po' come è
avvenuto anche a Moretti, l'adozione di una forma «classica»: sia
nella metrica, dove dominano incontrastati gli schemi chiusi (e che
iterazione e circolarità possano diventare in lui un veicolo di
sviluppo narrativo dimostra ad esempio la tecnica di Invernale,
probabilmente il suo testo più alto), sia più in generale nello
stile, contrassegnato da una pronuncia ferma e perspicua, quasi
eloquente, anche quando i materiali usati siano bassi e andanti.
È a queste caratteristiche psicologiche e formali che vanno
legate le due formule più tipiche con cui Gozzano viene definito:
l'una, già emblematicamente presente nel titolo del saggio di
Pancrazi (Gozzano «senza» i crepuscolari), che lo separa dai suoi
compagni di strada in virtù di una capacità di distacco ironico
dalla propria materia e dalla propria stessa biografia, cui
precisamente corrisponde l'eleganza perentoria del dettato; l'altra
che vede in lui «l'ultimo dei classici» e il poeta ancora volto
verso l'Ottocento, accettabile solo se si precisi, con Baldacci, che
«Gozzano non fu semplicemente un epigono, ma soprattutto un
consapevole "liquidatore"» e che egli chiude una
tradizione in quanto appunto la attraversa criticamente. Fatto sta
che, a differenza di altri crepuscolari che cercarono un adeguamento
del linguaggio ai contenuti dimessi, Gozzano «fondò la sua poesia
sull'urto, o "choc", di una materia psicologicamente
povera, frusta, apparentemente adatta ai soli toni minori, con una
sostanza verbale ricca, gioiosa, estremamente compiaciuta di sé»
(Montale); e quanto alla lingua in se stessa fu - ancora con le
parole di Montale - « il primo che abbia dato scintille facendo
cozzare l'aulico col prosaico», traduzione più pertinente della
formula astutamente riduttiva con cui Gozzano stesso caratterizzò
il suo stile: « lo stile d'uno scolaro / corretto un po' da una
serva» (non l'inverso, si badi). Questa popolarità costitutiva dà
luogo a due risultati fondamentali, strettamente complementari nella
loro opposizione. Cioè la riduzione del linguaggio aulico per
contatto col prosaico, secondo la formula illustrata dalla celebre
rima camicie: Nietzsche o dalla ambientazione delle dannunziane
«Stagioni camuse e senza braccia» «fra mucchi di letame e di
vinaccia»; ma inversamente l'elevamento di tono del lessico
quotidiano per immissione entro contesti stilistici alti e
doviziosi: è il caso della «introduzione di vocaboli borghesi come
civettare o crestaia in un registro sonoro solennemente impostato
come "tu civettavi con sottili schermi" o "l'arguta
grazia delle tue crestaie"» (Contini), oppure dell'uso
dell'umile colore di stoviglia nella preziosa descrizione delle
«iridi» (che doppia il più comune «occhi») della Signorina
Felicita, per giungere a un verso come «mime crestaie fanti
cortigiane», così eloquentemente scandito su quattro tempi forti e
sulla successione parnassiana di nomi-oggetto puri. Analogo il
trattamento che subiscono i deliziosi inserti di linguaggio della
conversazione mondana o borghese, irretiti nelle maglie strette del
martelliano a rime incrociate nelle Due strade o estraniati, quasi
«citati» nella sillabazione dell'Amica di nonna Speranza («Capenna...
Capenna... Capenna...», «Sicuro... sicuro... sicuro...» ). Se
insomma Gozzano fu maestro nel controcanto prosaico e nella
conseguente banalizzazione del linguaggio aulico, non lo fu meno
nell'indicare la via di una sistematica rimotivazione tonale, e
quasi specializzazione poetica, del lessico quotidiano, strategia
che i poeti del Novecento, a cominciare proprio da Montale,
hanno appreso soprattutto da lui.
Guido Cozzano fu - secondo un giudizio di Montale che è
divenuto celebre - «il primo dei poeti del Novecento che riuscisse
(com'era necessario e come probabilmente lo fu anche dopo di lui) ad
attraversare D'Annunzio per approdare a un territorio suo, così
come, su scala maggiore, Baudelaire aveva attraversato Hugo per
gettare le basi di una nuova poesia». Grazie alla capacità -
istintiva, secondo Montale - di ridurre D'Annunzio, il suo lirismo,
il suo estetismo, a una misura prosastica e borghese, ironizzandolo
e smitizzandolo, Gozzano fu il «consapevole "liquidatore» (Baldacci)
di tutta la poesia ottocentesca, compresa quella che, con Pascoli e
D'Annunzio appunto, prende il nome di decadente. Con Corazzini ed
altri poeti detti "crepuscolari", Gozzano opera insomma
un'altra abbastanza profonda cesura nella storia della poesia e
della letteratura italiana. La modalità ironica e un complesso
atteggiamento di amore e odio, di fascino e rifiuto o repulsione nei
confronti dei miti del decadentismo dannunziano, così come nei
confronti della mediocrità borghese, sono poi i fattori che
distinguono Cozzano dagli altri crepuscolari (Corazzini, ad esempio,
e Moretti) quando prende a soggetto le celebri «piccole cose di
pessimo gusto».
LA SIGNORINA FELICITA
Una novella patetica in versi. La Signorina Felicita ovvero la
Felicità è una novella in versi che prende a soggetto la
"vacanza" in un innominato paesino del canavese di un
avvocato raffinato, colto e letterato, cui accade di definirsi un
«esteta gelido» (v. 321) e che è uno scoperto alter ego di
Gozzano. Qui egli incontra Felicita, donna nubile non più
giovanissima, non bella e tanto più semplice e povera di lui, da
apparire agli occhi di chiunque (anche della stessa Felicita, v.
272) un oggetto non desiderabile per lui. Ma l'avvocato-letterato
cittadino è saturo del mondo delle donne «rifatte sui romanzi»
(v. 258) e dei poeti magniloquenti che «tra clangor di buccine
s'esaltano» (v. 202); pertanto in qualche misura indulge a
vagheggiare nel paesino di provincia, nella secentesca villa
Amarena, ridotta a misura prosaica dalla «cortina / di granoturco»
(vv. 21-22), e in Felicita, dalla «faccia buona e casalinga» (v.
75), dagli occhi «d'un azzurro di stoviglia» (v. 84),
un'alternativa autentica al proprio mondo e alla propria abituale
esistenza. Di qui nasce la storia, oggettivamente crudele e patetica
- ma di una crudeltà e di un pathos riscattati da un senso di
profonda pietà e complicati dall'ironia -, del corteggiamento di
Felicita, delle deboli ripulse di lei, del suo «sgomento
indefinito» (v. 266), dell'inutile promessa carpita nel momento
dell'abbandono (vv. 403-404)...
Consapevolezza della finzione. Ma se è vero che l'avvocato è
saturo di quel mondo che ha momentaneamente lasciato, è anche vero
che non lo è abbastanza per tagliare definitivamente i ponti con
esso, sul piano della realtà di fatto. Tutto il vagheggiamento di
Felicita, della sua autenticità e della sua semplicità d'altri
tempi («semplicità che l'anima consola, / semplicità dove tu vivi
sola / con tuo padre la tua semplice vita», vv. 46-48) avviene in
effetti nella dimensione di un sogno ad occhi aperti (condotto in
presenza della ragione, verrebbe da dire), di un compiaciuto
fantasticare, della cui impossibilità e irrealtà il protagonista
è perfettamente conscio. Si badi: l'avvocato non è lacerato
dall'incertezza se lasciare o meno quel mondo "falso" e
tuffarsi in questo "vero"; egli non è, in questo senso,
un personaggio drammatico. Sa perfettamente qual è il suo mondo (e
il suo destino) e sa che in ogni caso non potrebbe realmente
adattarsi a vivere con Felicita a Villa Amarena. Sa di fingere con
se stesso, sa che il suo sogno è una finzione. E concluderà
infatti nel segno della consapevolezza commentando l'immagine di
«buono / sentimentale giovine romantico...» con le parole «quello
che fingo d'essere e non sono! ». Questa consapevolezza che una
finzione (con Felicita e con se stesso) è in atto determina e
condiziona l'intero trattamento della materia narrativa e
linguistica, come vedremo.
La malattia. L'avvocato è poi malato. Malato in duplice senso. In
primo luogo soffre d'una malattia fisica (la tisi?) che,
soprattutto, getta un'aura malinconico-crepuscolare su tutta la
vicenda e in particolare sull'ambiguo legame con Felicita (lei
promette, lui sa che non tornerà perché gli resta poco da vivere -
ma così vede le cose Felicita e così ama figurarsele l'avvocato
che però, in fondo, sa che non tornerà anche per altri motivi). In
secondo luogo la malattia dell'avvocato è una malattia morale che
ha più vaste e complesse risonanze. È la malattia morale di chi
vuole e disvuole, ma in fondo non sa desiderare realmente nulla, di
chi non sa vivere autenticamente, né in fondo lo vuole davvero,
compiaciuto com'è della propria ambigua condizione, di chi guarda a
ogni sentimento e a ogni ideale - alla vita stessa - con garbato
cinismo. Estetismo razionalmente rifiutato, ma vagheggiato nel
profondo, insomma. |