Il dopoguerra: bisogno di impegno nel reale
Un'altra guerra e la caduta del fascismo sono i
grandi eventi storici che fanno da sfondo a un
nuovo profondo rivolgimento culturale e
letterario. In questo caso, come vedremo, il nesso
con la realtà socio-politica è direttamente
determinante anche nell'elaborazione della nuova
poetica. In Italia nell'immediato secondo
dopoguerra, dopo l'esperienza della Resistenza, si
fa vivissimo negli intellettuali (soprattutto
delle più giovani generazioni) il bisogno di
impegno concreto nella realtà sociale e politica
del paese. L'antifascismo represso, prima, e poi
l'adesione concreta o ideale al moto di rivolta
popolare e l'entusiasmo per la riconquistata
libertà, ma anche i problemi posti dalla nuova
condizione storica determinano in molti scrittori,
in larga misura schierati con i partiti della
sinistra, la volontà e anzi l'esigenza di
considerare la letteratura come una manifestazione
e uno strumento del proprio impegno (agiscono in
questo senso anche modelli culturali stranieri,
come quello offerto da J.-P. Sartre). Esemplari
alcuni interventi in questo senso di Vittorini (e
più problematicamente di Pavese), che possono
essere considerati autentici documenti se non di
poetica, almeno del clima in cui la poetica
neorealistica si andava sviluppando.
Ma anche assai significativa di tale clima visto
dalla parte di uno scrittore è la testimonianza
retrospettiva (del 1964) di Calvino: «L'esplosione
letteraria di quegli anni fu, prima che un fatto
d'arte, un fatto fisiologico, esistenziale,
collettivo. Avevamo vissuto la guerra, e noi più
giovani - che avevamo fatto appena in tempo a fare
il partigiano - non ce ne sentivamo schiacciati,
vinti, "bruciati", ma vincitori, spinti dalla
carica propulsiva della battaglia appena conclusa,
depositari esclusivi della sua eredità. [...]
L'essere usciti da un'esperienza - guerra, guerra
civile - che non aveva risparmiato nessuno,
stabiliva un'immediatezza di comunicazione tra lo
scrittore e il suo pubblico: si era faccia a
faccia, alla pari, carichi di storie da
raccontare, ognuno aveva avuto la sua, ognuno
aveva vissuto vite irregolari drammatiche
avventurose, ci si strappava la parola di bocca.
La rinata libertà di parlare fu per la gente al
principio smania di raccontare: nei treni che
riprendevano a funzionare, gremiti di persone e
pacchi di farina e bidoni d'olio, ogni passeggero
raccontava agli sconosciuti le vicissitudini che
gli erano occorse, e così ogni avventore ai tavoli
delle "mense del popolo", ogni donna nelle code
dei negozi; il grigiore delle vite quotidiane
sembrava cosa d'altre epoche; ci muovevamo in un
multicolore universo di storie».
In questo clima profondamente mutato si spiegano
anche i giudizi assai severi che ora si formulano
nei confronti del decadentismo e dell'ermetismo:
in generale si ripudia la tendenza ad evadere in
altre dimensioni (astratte, fantastiche,
metafisiche, ecc.) e in particolare si rinfaccia
all'ermetismo quella sua programmata astensione
dal confronto politico-culturale col fascismo, che
ora viene sentita come un'ambiguità colpevole.
Tanto più che - in coerenza magari con le ragioni
più "metafisiche" del loro impegno - la gran parte
degli ermetici si era astenuta anche dal
partecipare alla Resistenza, mantenendo anche in
questo caso un atteggiamento di distacco e
isolamento, che pare ora perdere una parte delle
ragioni ideali che prima gli erano state
attribuite. Gli stessi ermetici, poi, cesseranno
di costituire un gruppo omogeneo e imboccheranno
strade diverse, accogliendo anch'essi in parte le
istanze di una poesia civilmente impegnata (è il
caso di Quasimodo, ad esempio).
Questo diffuso e prepotente bisogno di impegno
concreto nel reale - oltre a radursi in racconti e
romanzi ispirati alla Resistenza e alla vivace
rappresentazione della realtà dà luogo, sul piano
della riflessione culturale, ad importantissimi
dibattiti che hanno per tema via via il ruolo e i
doveri degli intellettuali nella società, il
passato rapporto degli intellettuali col fascismo
e quello attuale col partito comunista, il
rapporto tra creatività artistica e impegno
politico, tra ideologia e letteratura e via
dicendo. Le riviste costituiscono ancora una volta
il luogo deputato di questi dibattiti: e « Il
Politecnico» di Elio Vittorini si colloca subito
in prima linea. In questi stessi anni si diffonde
la conoscenza del pensiero gramsciano, che
esercita un influsso considerevole
sull'elaborazione letteraria del secondo
dopoguerra, attraverso la sua riflessione sul
ruolo degli intellettuali nella storia italiana,
la sua proposta di una letteratura
nazional-popolare in cui la tradizionale
separatezza tra intellettuali e popolo finalmente
si annulli, il suo ideale di intellettuale
organico, ecc. (cfr. 25.5).
Alla scoperta dell'Italia reale
Sul piano della produzione letteraria e della
poetica il clima rievocato da Calvino e queste
sollecitazioni culturali si traducono in quella
che viene definita la stagione del neorealismo
(alcuni dei suoi frutti migliori, avvertiamo
subito, sono nella produzione cinematografica di
registi come Rossellini, De Sica, Visconti, ecc.).
Più che di una corrente unitaria per il
neorealismo si deve parlare probabilmente di un
«libero incontro di alcune individualità ben
distinte all'interno di un clima storico comune,
dotato di una forte carica di entusiasmo e di
sollecitazione fantastica» (Asor Rosa). E questa è
anche l'opinione di Calvino, e di molti altri: «Il
"neorealismo" non fu una scuola. Fu un insieme di
voci, in gran parte periferiche, una molteplice
scoperta delle diverse Italie, anche - o
specialmente - delle Italie fino allora più
inedite per la letteratura». Tuttora valida
appare, entro certi limiti, la definizione che ne
diede a caldo uno dei critici che guardarono con
più simpatia al movimento: «Il neorealismo in
Italia è sorto [...] come espressione di una
profonda frattura storica, quella crisi che fra il
'40 e il '45 con la guerra e la lotta
antifascista, investì, sconvolse fino alle radici
e cambiò il volto all'intera società italiana. Il
neorealismo si nutrì, quindi, innanzi tutto di un
nuovo modo di guardare il mondo, di una morale e
di una ideologia nuove che erano proprie della
rivoluzione antifascista. In esse vi era la
consapevolezza del fallimento della vecchia classe
dirigente e del posto che, per la prima volta
nella nostra storia, si erano conquistate sulla
scena della società civile le masse popolari. Vi
era l'esigenza della scoperta dell'Italia reale,
nella sua arretratezza, nella sua miseria, nelle
sue assurde contraddizioni e insieme una fiducia
schietta e rivoluzionaria nelle nostre possibilità
di rinnovamento e nel progresso dell'intera
umanità. [... Il neorealismo] si presentò così
come arte impegnata contro l'arte che tendeva ad
eludere i problemi reali del nostro Paese;
contrappose polemicamente nuovi contenuti
(partigiani, operai, scioperi, bombardamenti,
fucilazioni, occupazioni di terre, baraccati,
sciuscià, segnorine) all'arte della pura forma e
della morbida memoria [...]; cercò un mutamento
radicale delle forme espressive che sottolineasse
la rottura con l'arte precedente e potesse
esprimere più adeguatamente i nuovi sentimenti; si
pose il problema di una tradizione di arte
autenticamente realistica e rivoluzionaria a cui
riferirsi, scavalcando le esperienze decadenti
dell'arte moderna» (Salinari).
Poetica e ideologia
Ma proprio per questi stessi motivi - a parte ogni
giudizio sugli esiti artistici, in molti casi
mediocri la poetica del neorealismo, da un punto
di vista tecnico e formale, appare assai povera e
priva sostanzialmente di elementi innovatori: il
suo significato e la sua ragion d'essere sono
essenzialmente culturali e ideologici, nel senso
di una ridefinizione dei compiti etici e politici
della letteratura. Su questa base si spiegano
molti dei rifiuti e delle scelte culturali degli
scrittori. Ad esempio pare significativo, da parte
di molti intellettuali, il rifiuto in blocco del
decadentismo e delle sue poetiche e tecniche
particolari (per non parlare delle poetiche delle
avanguardie) in quanto arte della borghesia in
decadenza morale e politica; un «perniciosissimo
cordone sanitario intorno a tutte quelle tendenze
decadenti e avanguardisti che, che non potevano
farsi rientrare nello schema del "realismo"» lo
definisce l'Asor Rosa. Ma significativa, nella
celebre polemica sull'indirizzo politico-culturale
del «Politecnico» che vide partecipare fra gli
altri Alicata e Togliatti da un lato (ai quali si
può attribuire il precedente punto di vista) e
Vittorini dall'altro, appare anche l'accettazione
da parte di quest'ultimo dell'arte del
decadentismo in quanto rappresenta 1'«autocritica
della borghesia», perché «rivela vergogna e
disperazione d'esser borghesi» e perché le si può
quindi attribuire la qualifica di «arte
rivoluzionaria» (e non nel senso specificamente
letterario, tecnico-formale del termine). Attorno
a questi temi e questi dibattiti si gioca anche la
sopravvivenza del concetto di autonomia della
letteratura, che era stato - ci pare - tra i più
significativi apporti della stagione del
decadentismo e che le prese di posizione più
dogmatiche, più conformi allo zdanovismo e alla
teoria del realismo socialista mettevano in
discussione e pretendevano nella sostanza di
negare (il cosiddetto "realismo socialista",
ispirato alle teorie di A.A. Zdanov, in sintesi è
la rappresentazione in termini positivi e
politicamente costruttivi della realtà delle masse
popolari impegnate o nella rivoluzione o nella
costruzione della società socialista). Nonostante
l'acutezza del giudizio di Vittorini e la sua
grande importanza nel contesto storico
particolare, in quanto difesa dell'autonomia della
ricerca intellettuale e rifiuto di ogni ingerenza
diretta della politica di partito nella produzione
artistica, esso egualmente rivela come la
pregiudiziale ideologica nel parlare di
letteratura anche in uno dei più aperti
intellettuali del tempo fosse forte.
Non bisogna quindi stupirsi se, nel clima
culturale del secondo dopoguerra, con le sue
aspirazioni e le sue tensioni, la poetica e la
pratica del neorealismo risentono anche
pesantemente di un condizionamento ideologico e
politico, che nella produzione deteriore del
movimento, per ambiguità e scarsa lucidità
intellettuale, finisce con lo sfociare nel
fenomeno del populismo (una rappresentazione
idealizzata e sovente acritica del mondo popolare
come mondo depositario di tutti i valori positivi,
che per malinteso ideologismo o per fini di
propaganda contravveniva proprio a quella esigenza
di analisi della realtà che muoveva gli spiriti
più vigili del movimento).
Modelli, temi, forme espressive
Queste istanze nel loro complesso indirizzano gli
scrittori e i teorici a riallacciare i legami con
una tradizione narrativa realistica viva anche
negli anni Venti e Trenta ma trascurata o
sottovalutata (da Svevo a Borgese, da Moravia al
minore Bernari) e più ancora a privilegiare una
letteratura, un'arte e una poetica che hanno le
loro radici nel realismo ottocentesco,
predecadente, o in modelli stranieri (ad esempio
la letteratura americana diffusa e propagandata
già in epoca fascista da Vittorini, da Pavese,
dalla Pivano e da altri). Ma è necessario subito
precisare che rispetto alla poetica del
naturalismo e del verismo viene ora a mancare ogni
presupposto scientista. Si tende a privilegiare e
a teorizzare il «rispecchiamento» (Lukàcs) della
realtà, in pratica risolvendolo e riducendolo in
una rappresentazione documentaria della realtà
storico-sociale, o volgendolo ad una
rappresentazione a seconda dei casi epica o (con
diverso grado di compromissione nei confronti
della letteratura decadente) epico-lirica,
mitico-lirica, talora di denunzia, talaltra
celebrativa. Il bisogno di una «celebrazione», di
un epos della Resistenza, magari attraverso un
impianto memorialistico, è del resto una delle
ragioni che muovono molti scrittori che a quel
moto parteciparono o che lo condivisero
idealmente. E il moto resistenziale è uno dei
soggetti più frequentati dai narratori (cfr.
Profilo, 30.1). Le forme espressive e i generi
privilegiati sono il documento, la cronaca, la
testimonianza personale, la memorialistica; lo
stesso romanzo d'invenzione assume sovente queste
forme. Si fa anche strada, sulla scorta
dell'esigenza di una letteratura realisticamente
documentaria e di una letteratura
nazional-popolare, la tendenza a utilizzare un
linguaggio semplice, disadorno, antiletterario
(rifiuto ulteriore della retorica di regime, e di
tutti i modelli letterariamente sofisticati
d'anteguerra, dalla ridondante e copiosa prosa
dannunziana, al calligrafismo rondesco, alle
rarefazioni simboliste ed ermetiche), sovente
ispirato alle parlate reali e in particolare al
dialetto che per la prima volta fa la sua comparsa
sistematicamente nella prosa narrativa di tipo
realistico. Lo stesso ideale gramsciano di una
letteratura nazional-popolare, ad esempio,
indirizza ad una concezione della letteratura
apertamente comunicativa e comprensibile per tutti
gli strati della popolazione, che diventa presso
molti critici una sorta di imperativo categorico:
«Ci sono certo oggi molti giovani scrittori (e
alcuni di gran rilievo) che cercano di trasferire
nelle loro pagine le sofferenze e le speranze
delle grandi masse popolari italiane, ma che
continuano a parlare una lingua astratta,
culturalistica. Per queste e per altre simili
strade non si arriverà, secondo noi, né oggi né
mai, a costruire una letteratura nazionale e
popolare. Il contatto col popolo, in arte, si
stabilisce in primo luogo con la lingua: che è il
veicolo, in arte, della verità, o della
contraffazione, della falsificazione della verità»
(Alicata). Il rischio, spesso tradotto in atto, di
questa inclinazione al nazional-popolare era, come
ha mostrato l'Asor Rosa, oltre che di subordinare
l'arte alle esigenze di partito, quello di «dare
ampio spazio ai naturali umori provinciali dei
letterati italiani». E in effetti il neorealismo -
se si escludono alcuni grandi scrittori che
possono essere compresi solo marginalmente
nell'ambito del fenomeno, tra cui ad esempio
Pavese - fu in definitiva anche un moto di
riprovincializzazione della narrativa italiana.
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