Nato nel 1882 a Perugia, Giuseppe Prezzolini
svolse nei primi due decenni del Novecento una
straordinaria opera di suscitatore di energie
intellettuali e di organizzatore culturale,
passando attraverso una varietà di atteggiamenti
con una disinvoltura che può risultare
discutibile. Come Papinì, d'altra parte, cui per
tutta la vita fu legato da profonda amicizia.
Fondò nel 1903 il «Leonardo» e nei 1908 «La Voce»,
che ispirata all'inizio a concretezza
pragmatistica diventò poi «rivista dell'idealismo
militante»} e non disdegnò gli entusiasmi
nazionalistici. Partecipò alla prima guerra
mondiale; ammirò Mussolini e nel contempo approvò
l'azione culturale di Pìero Gobettì. Geloso
dell'indipendenza e della "superiorità"
dell'intellettuale, non si compromise col regime
fascista e dal 1925 lavorò per alcuni anni presso
un istituto culturale della Società delle Nazioni.
Dal 1929 al 1950 visse in America e insegnò
letteratura italiana presso la Columbia
University. Pubblicò tra il '37 e il '39 i primi
due volumi dì un Repertorio bibliografico della
storia e della critica della letteratura italiana
dal 1933 al 1942. Ritornato in Italia, con
frequenti interventi giornalistici ha continuato a
svolgere il suo ruolo di intellettuale "non
integrato" e imprevedibile, con un orientamento
politico decisamente di destra. E' morto,
centenario, a Lugano nel 1982. Fra le molte opere,
oltre a quelle giovanili (La coltura italiana, in
collaborazione con Papini, 1906; Benedetto Croce,
1909), ricordiamo le interessanti memorie
(L'italiano inutile, 1953; Diario, 1978-80),
un'antologia della «Voce» (1974), e un testo di
riflessioni filosofico-religiose, Dio è un rischio
(1969).
Parecchi degli obiettivi proposti anche
nell'articolo La nostra promessa (sempre dì
Prezzolìnì), pubblicato come edìtoriale de «La
Voce» (n. 2, 1908): «Di lavorare abbiamo voglia.
Già ci proponiamo di tener dietro a certi
movimenti sociali che si complicano di ideologie,
come il modernismo e il sindacalismo; di
informare, senza troppa smania di novità, di quel
che di meglio si fa all'estero; di proporre
riforme e miglioramenti alle università italiane;
di segnalare le opere di letteratura e di
commentare la viltà della vita contemporanea». A
parte, comunque, ci sembra più proficuo
sottolineare che, pur indicando concreti settori
di intervento, Prezzolini manifesta - in modo ora
più ora meno evidente - un atteggiamento di
discutibile moralismo, sembra quasi costantemente
guardare dall'alto la situazione italiana e pensa
di operarne demiurgicamente un radicale mutamento.
Il tutto sa più di critica di costume che di
politica culturale. L'illusione che una rivista
potesse bastare per trasformare la vita politica
italiana, senza chiedersi a quali forze concrete
legarsi, quali alleanze realizzare, è la spia
della fiducia tutta illuministica che Prezzolini
aveva nell'azione culturale. È un problema,
d'altra parte, che si porrà altre volte nella
storia italiana.
Fornisce spunti di approfondimento questo giudizio
critico di A. Asor Rosa.
Nella prospettiva della «Voce» la deprecazione
politica si trasfondeva in intransigentismo morale
e in puro rafforzamento della corporazione
intellettuale. È quindi giusto ed intelligente
osservare che « La Voce» rappresenta un esempio
unico e irripetibile di «cultura nazionale» (Mangoni).
Ma bisognerà precisare che si tratta di
un'esperienza di «cultura nazionale»
inconfondibilmente segnata dai tratti della
tradizione liberale più autentica. Cioè: la
diagnosi della degenerazione italiana e la
tensione di rinnovamento spingono indubbiamente ad
uscire dall'ambito del sistema liberale classico.
L'antigiolittismo e l'antidemocratismo lo provano
con abbondanza. Ma l'idea che la rinascita potesse
essere affidata ad un fascio di forze
intellettuali poteva scaturire soltanto da quella
società, che per tanti altri versi si voleva
condannare. Essa insisteva, infatti, sul carattere
altamente individualizzato (fino ad apparire
titanico ed eroico) del contributo di ciascuno;
metteva fra parentesi l'esistenza delle grandi
masse sociali (proletarie e piccolo-borghesi),
autonome e con le loro organizzazioni; risolveva
il problema della politica in quello della
educazione delle ristrette élites. In questo,
ridimensionandola, riusciva in pratica a svolgere
la sua funzione: ma senza possibilità alcuna di
controllare (anche solo intellettualmente) gli
esiti finali (politici ideologici) della sua
campagna di rinnovamento.
L'interpretazione più autentica della «Voce» è
dunque oggi quella di considerarla l'espressione
di una frazione consistente del ceto intellettuale
liberale in crisi, che ivi realizza il suo ultimo,
anzi supremo tentativo di contare socialmente
qualcosa, senza pensare decisamente alla necessità
di cambiare il sistema: e, più che come organo di
direzione e di orientamento di quella crisi, come
sua più eloquente e veritiera manifestazione: per
i propositi ambiziosi che mise in campo, per la
tensione profonda che l'animò, per l'assenza di
sbocco verso la quale camminava. Perciò si può
anche concedere che sia giusta quell'affermazione,
cui Prezzolini è tanto affezionato e di cui
attribuisce la paternità a Malaparte, che dalla
«Voce» esca un filone di cultura fascista e,
accanto a questo, un filone di cultura
antifascista: ma solo nel senso che essa segna il
confine dell'esperienza di produzione e di
organizzazione culturale di un sistema, quello
liberale, appunto - mostra cioè che cosa questo
sistema poteva fare e non fare in campo culturale,
questo e non più; dopo di che le strade, a partire
da lì, si biforcano e si volgono verso ipotesi di
sistemi diversi, nessuno dei quali potrà più
coincidere, nè in termini politici, nè in termini
culturali, con quello liberale.
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