Clemente Rebora nacque a Milano nel 1885. Dalla
famiglia ebbe un'educazione ispirata a una
rigorosa moralità laica e ai valori del
risorgimento. Avviati gli studi di medicina a
Pavìa, li interruppe per seguire i corsi
dell'Accademia scientifico-letteraria di Milano
(dove ebbe compagni fra gli altri il futuro
filologo Angelo Monteverdi e il filosofo Antonio
Banfi). Si laureò in Lettere nel 1910 con una tesi
su Romagnosi e quindi insegnò negli Istituti
tecnici. Nel 1913 pubblicò per le edizioni della
«Voce» i Frammenti lirici, l'opera sua più
importante. Partecipò quindi alla grande guerra
subendo un traurria cranico in seguito allo
scoppio di una granata e un profondo choc che gli
procurò il congedo per infermità mentale. Nel
dopoguerra insegnò presso istituti privati e nel
1922 pubblicò i Canti anonimi. Il 1929 e il 1930
sono gli anni della crisi e della conversione al
cattolicesimo: Rebora brucia libri e carte
personali ed entra nel collegio rosminiano di
Domodossola. Presi i voti nel 1936, visse in vari
istituti dell'ordine. Dopo il rifiuto della
propria attività letteraria precedente, solo nel
secondo dopoguerra acconsenti alla riedizione dei
propri versi giovanili. Del biennio 1955-1957 é il
suo ritorno alla poesia, con opere dichiaratamente
religiose. Mori nel 1957, dopo una dolorosa
infermità.
Rebora, Campana, Sbarbaro, Boine, Jahier,
Slataper, Onofri sono i principali poeti che, a
vario titolo, danno luogo a quella linea "vociana"
(per «La Voce») che parte notevole ha nella storia
della lirica primo-novecentesca italiana.
Clemente Rebora nell'ambito dei poeti vociàni
rappresenta l'espressione più alta e forse più
tipica di quella tendenza espressionistica che,
assieme a una forte coscienza morale e a una
concezione della poesia come tesa manifestazione
di un impegno esistenziale, caratterizza appunto
una parte consistente del movimento. Tipica di
Rebora, poi, è una spiccata tendenza ad abbattere
i confini tra io e realtà e ad assumere i dati del
mondo esterno come immediati equivalenti dei moti
esistenziali dell'io.
Oggettivazione dell'io e metamorfosi
esistenziale.
Nell'avvampato sfasciume è un testo esemplare
della lirica di Clemente Rebora, per tematiche e
per linguaggio. Il significato di questi versi a
tutta prima può apparire fittamente oscuro. Ad
intenderli però può forse venire utile un passo di
una lettera di Rebora (del 1911) ricordato dal
Mengaldo: «Vorrei giovare ed elevare tutto e
tutti, smarrirmi come persona per rivivere nel
meglio e nel desiderio di ciascuno; esser un dio
che non si vede perché è negli occhi medesimi di
chi contempla, essere un'energia che non si
avverte perché è nel divenire stesso d'ogni cosa
che esiste, perché si ricrea in ogni attimo». Il
Mengaldo - e sulla sua scorta anche il Gioanola -
cita questo passo per illustrare una generale
tendenza della poesia reboriana, l'oggettivazione,
l'annullamento quasi, dell'io nella realtà
esterna: raramente Rebora indugia ad analizzare e
rappresentare la propria condizione interiore nei
modi consueti della poesia lirica. Egli viceversa
abbatte i confini tra io interno e realtà esterna,
rappresenta l'uno e l'altra quasi fossero
immediatamente fusi e indistinguibili (in altri
termini: proietta l'io nella realtà esterna o dà
alla realtà esterna valore di testimonianza
immediata del proprio io).
È, a ben vedere, ciò che accade in questa lirica,
in cui il «sacrificio muto» del poeta che si
annulla, sprofondandosi nella malebolgica realtà
della città moderna, è la premessa di un moto di
rinnovamento interiore, di liberazione
esistenziale, che investe il soggetto stesso (il
poeta evade dall'«impeciato borro») ma si
ripercuote su tutta la realtà, che pare subire una
sorta di metamorfosi. Nella seconda parte del
componimento oggetti e persone sembrano, infatti,
anch'essi liberarsi dalla condizione infernale e
riacquistare senso e vitalità. Il poeta si è fatto
(nei termini del testo reboriano citato) dio o
energia profonda e ha investito la realtà
rinnovandola e ricreandola. Si noti tuttavia che
questo moto di rigenerazione di cose e persone può
e probabilmente deve essere inteso solo
metaforicamente, come cioè una manifestazione
oggettivata di un rapido alternarsi di stati
d'animo del poeta, dalla cupa disperazione ad
un'ansia di liberazione che non dispera più di
potersi realizzare (è il poeta insomma che
diversamente interpreta la realtà a seconda del
suo stato interiore).
Il Gioanola ha scritto che «Rebora è colui che più
di tutti ha trasfuso in poesia esistenzialità e
moralità, disperazione e speranza, rifiuto
dell'esistente e ansia d'assoluto, fino a
costruire il più autentico monumento di poetica
espressionistica della nostra letteratura
primonovecentesca». Queste parole - a parte il
giudizio di valore - illustrano anche il
componimento citato. Si osserverà ancora che,
prendendolo alla lettera, il processo descritto
può essere letto come una metafora della vicenda
del Cristo (che si sacrifica per salvare
l'umanità). Rebora, che più tardi si convertirà al
cattolicesimo e diverrà sacerdote rosminiano,
quando scrive questi versi è ancora assai lontano
dal concepire la conversione. È probabile, quindi,
che essi vadano intesi in senso più esistenziale
che non propriamente e strettamente religioso, pur
tenendo conto che fra le molteplici suggestioni
culturali e filosofiche influenti su Rebora (ad
esempio la tradizione del razionalismo e
dell'illuminismo e positivismo lombardi), può
trovar posto anche il modello cristiano.
Gli stilemi espressionistici.
Da un punto di vista linguistico-stilistico il
componimento è un esempio di linguaggio
espressionistico pienamente realizzato: le
allusioni e le citazioni dantesche (dalla zona
malebolgica dell'Inferno o dalle petrose: croia,
borro, dèmone, atterga), l'uso di arcaismi e di
termini rari e disusati o usati in modo non
proprio (borro impeciato, risbaldiscono, inalveo,
cavallanti, ecc.), le coniazioni come sbirbònano,
i dialettalismi, la fitta trama di assonanze,
spesso aspre (petrose), rime e rime interne, l'uso
anormale e analogico di participi (avvampato
sfasciume, passo caduto, fusa scintilla) e
aggettivi (losco sfasciume), le sinestesie o
parasinestesie (verdi richiami, fusa scintilla).
|