Gaetano Salvemini ha una sua fisionomia
particolare nel panorama politico-culturale del
Novecento. Nato a Molfetta nel 1873, all'interesse
per gli studi storici (Magnati e popolani in
Firenze dal 1280 ai 1295, 1899; La rivoluzione
francese, 1905) unì sempre quello per i problemi
politici immediati, che discusse con concretezza
di analisi (erede, in questo, della lezione dì
Carlo Cattaneo) e assenza di dogmatismi ideologici
e partitici. Militante del Partito socialista dal
1893 al 1911, ne denunziò il disinteresse per la
questione meridionale e la politica "corporativa"
che finiva col privilegiare le aristocrazie
operaie del Nord; polemico nei riguardi degli
atteggiamenti dei «giovini» delle riviste
fiorentine, con «l'Unità» (da lui fondata nel
1911) si oppose al nazionalismo e alla conquista
della Libia; oppositore di Giolitti, ne denunziò
certe pratiche trasformistiche nel famoso pamphlet
Il ministro della mala vita (1909). Nelle sue
posizioni il discorso politico é sempre ancorato a
una risentita coscienza morale (e in questo senso
non si comprendono Gobetti e tanto antifascismo -
i Rosselli, «Giustizia e Libertà», il Partito
d'Azione e, perché no?, Ferruccio Parri e Ugo La
Malfa - senza l'esempio di SalvemIni).
Dopo l'avvento dei fascismo fondò con Nello e
Carlo Rosselli il foglio clandestino «Non
mollare»; e fu tra i pochissimi docenti
universitari (insegnava storia all'Università di
Firenze) a scegliere l'esilio. Di questa
esperienza- in Francia, in Inghilterra, in
America, paesi nei quali con corsi universitari e
conferenze fece conoscere la realtà dei fascismo
(assai note le « lezioni» di Harward, reperibili
ora in G. Salvemini, Scritti sul fascismo, vol. I,
Feltrinelli, Milano 1961) - diede un suggestivo
rendiconto nelle Memorie di un fuoruscito (1960,
postumo), Ritornato in Italia dopo il 1945,
continuò a vari livelli (famosi i suoi interventi
su «II Mondo») la sua battaglia ispirata ad una
visione laica della vita e della politica, ad una
lotta contro i dogmatismi e le fumosità
ideologiche, a posizioni di riformismo
democratico. Morì a Sorrento nel 1957.
Su Salvemini ha scritto il giurista e storico
delle dottrine sociali e politiche Norberto Bobbio:
Salvemini non solo non fu un dottrinario ma si
attribuì puntigliosamente per tutta la vita la
parte di colui che è venuto a combattere le fumose
astrazioni dei politici da tavolino, la passione
dell'intellettuale piccolo-borghese di fare bei
discorsi teorici che non cavano un ragno dal buco,
la vocazione tutta italica, propria di una cultura
sradicata dalla realtà, provinciale,
spiritualistica, retorica, di accontentarsi di
castelli in aria e di lasciare in pratica le cose
come sono. Diceva di essere cieco nato per la
filosofia che chiamava la «fabbrica del buio».
Quando l'interlocutore tirava fuori un nome di un
filosofo o di una dottrina filosofica si traeva
indietro con sospetto come il gatto di fronte al
boccone avvelenato. Diffidava dei programmi. In
uno scritto giovanile a proposito del v Congresso
del partito socialista (Bologna), prese una
posizione netta e personale di fronte alla
distinzione tra programma massimo e minimo
sostenendo che non esistevano due programmi ma
esisteva soltanto un metodo ricostruttivo, «il
quale suggerisce, a seconda delle circostanze,
riforme immediate, le quali variano
continuamente», e ottenute le prime ne suggerisce
altre. Concludeva: «Il nostro programma non
esiste, diviene. Il nostro programma è la realtà
stessa che si svolge e si trasforma proiettandosi
nel nostro cervello; il quale, essendo parte della
realtà, accelererà colla forza della coscienza il
processo reale». (...)
Ma ad onta del dileggio della filosofia e dei
filosofi, Salvemini ebbe una sua filosofia tutt'altro
che superficiale della storia. Divideva i filosofi
in due schiere: le aquile della teologia
idealistica e i passerotti dell'empirismo. Si
metteva volentieri tra questi ultimi. Con ciò
voleva dire che non presumeva come gli idealisti,
di sapere che tutto quel che era accaduto dovesse
accadere e che tutto quel che accadrà è già
nascosto nel grembo di quel che è accaduto. Nella
storia c'era ragione e follia, amore e furore,
pietà e crudeltà, gli ingiusti sui carri di
trionfo e i giusti in ginocchio. Chi era tanto in
alto da poter giudicare ma chi tanto in basso da
accettare il giudizio del provvidenzialismo
ottimistico? Non si stancava di ripetere che era
pessimista perché la storia gli aveva dimostrato
che i pessimisti hanno quasi sempre ragione. Ma il
pessimismo non lo induceva a starsene con le mani
in mano attendendo il fato: era un invito non
all'inerzia ma più semplicemente all'umiltà. In
alcune pagine postume, vero e proprio testamento
spirituale, disse che, dopo essersi a lungo
perduto nel labirinto dei massimi problemi, era
arrivato alla conclusione che non solo non ci
capiva nulla ma doveva rinunziare alla speranza di
capirci mai nulla. Dunque il suo empirismo non era
un atto di indifferenza ma una rinunzia
consapevole. E se poi si voleva proprio conoscere
come fosse uscito d'imbarazzo, si sapesse che si
era comportato come la vecchierella di Pascal che
ignorava se Dio esistesse ma si regolava come se
ci fosse. Giustamente, chi ha pubblicato queste
pagine [G. Vivarelli, «Il Ponte», XXIV (1968), pp.
44-50] ha parlato di «intemerata fede nella
tolleranza, posta da Salvemini come regola
fondamentale di ogni convivenza umana»; e ripete
una sua frase, che in questi anni avremmo dovuto
imparare a memoria: «Chi è convinto di possedere
il segreto infallibile per rendere felici gli
uomini, è sempre pronto ad ammazzarli».
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