È la
raccolta di pressoché tutta l'opera narrativa di Bassani, curata dallo stesso
autore, pubblicata dapprima nel 1974 quindi, dopo un'ulteriore revisione, nel
1984. La prima sezione dell'opera è composta da cinque racconti, ciascuno con
una precedente vicenda redazionale ed editoriale piuttosto complessa.
Con il titolo Cinque storie ferraresi. La seconda sezione, Gli occhiali d'oro,
apparve su «Paragone-Letteratura» nel febbraio del 1958. La terza, Il giardino
dei Finzi-Contini. La quarta, Dietro la porta. La quinta, L'airone, comparve in
«Paragone-Letteratura fra il 1966 e il 1967 quindi in un volume einaudiano del
'68. Il sesto e ultimo libro, L'odore del fieno, è ancora una raccolta di testi
narrativi, memoriali e autobiografici.
I romanzi e le raccolte di racconti che compongono il Romanzo vengono a
costituire dei veri e propri "libri" di un'opera organica, frutto di una
rielaborazione e non di un mero assemblaggio.
Ferrara è protagonista e sfondo insieme, costante motivo topografico-ambientale
e soprattutto spirituale e simbolico dell'opera dove ricompaiono da libro a
libro personaggi che diventano quasi mitici, figure rappresentati e, nel bene e
nel male, della vita di provincia tra il ventennio fascista e il secondo
dopoguerra.
Con Gli occhiali d'oro appare decisamente l'io narrante e la vena autobiografica
si fa più evidente, fungendo da ulteriore elemento unificante del polittico.
L'airone segna una certa novità, rispetto ai libri precedenti, ma in realtà non
svolge se non il ruolo di mettere in cruda evidenza il pessimismo tragico di
Bassani.
Dentro le mura si apre col racconto Lida Mantovani: la protagonista è una
giovane ferrarese, messa incinta e abbandonata da un ragazzo ebreo di ceto
superiore, David. In seguito, un onesto artigiano, legatore di libri, Oreste
Benetti («piccolo uomo dai capelli grigi che aveva un po' del soldato e un po'
del prete»), prende a corteggiarla: la sposerà, dopo la morte della madre,
assicurandole una vita tranquilla e naturalmente triste. Nella Passeggiata prima
di cena Gemma Brondi, di famiglia umile («contadini di città»), va in sposa al
medico ebreo Elia Corcos, un signore «e perciò diverso, fondamentalmente
estraneo». Nasceranno due figli, ma Gemma non riuscirà mai a entrare in contatto
con la famiglia del marito, fatta eccezione per il suocero, «il povero signor
Salomone», umano e sensibile. In questo racconto il ruolo della città, Ferrara,
fin dall'esordio si fa decisamente più rilevante. Una lapide in via Mazzini ha
per protagonista un curioso revenant, Geo Josz: creduto morto in campo di
concentramento tedesco, improvvisamente, bello grasso, torna a Ferrara, dove già
il suo nome compariva nella lapide commemorativa dei martiri ebrei. Josz
riprende possesso di parte e poi di tutto il suo palazzo, che era divenuto sede
dell'A.N.P.I., e, di nuovo magro e asciutto, riprende un ruolo e una posizione
onorevole, ma la sua presenza in qualche modo disturba e inquieta la comunità
cittadina. Il sopravvissuto compie delle azioni improvvise e bizzarre, come
prendere a schiaffi in pubblico un vecchio conte ex spia dell'O.V.R.A.;
dimagrisce sempre più fino a diventare uno spettro, onnipresente e sfuggito da
tutti «come un appestato». Scompare, alla fine, misteriosamente come era giunto:
figura inassimilabile alla nuova dimensione del dopoguerra, alla Ferrara che
«stava risorgendo dalle sue rovine uguale identica a come era una volta». Geo
Josz è un enigma per la società borghese che, intenta a ricucire le proprie
ferite, si adagia nella mediocrità, rinunciando a interrogarsi più a fondo.
Negli Ultimi anni di Clelia Trotti un ebreo ferrarese, Bruno Lattes, che è
andato negli Stati Uniti nel '43 ed ora è tornato nella sua città in visita,
rievoca gli incontri, pericolosi e furtivi, nel '39, con la anziana Clelia
Trotti, mitica figura del socialismo di Turati e della Kuliscioff, ospite dei
coniugi Codecà che la sorvegliano per conto dell'O.V.R.A. I dialoghi fra il
giovane e la ex pasionaria sono talora prolissi, ma condotti con finezza
psicologica.
In Una notte del '43 il farmacista Pino Barilari, colpito da paralisi, è
condannato a rimanere alla finestra del suo appartamento su corso Roma, come in
un palco teatrale: da qui assiste, in una notte del '43, alla fucilazione di
undici cittadini da parte dei fascisti, per rappresaglia; al processo però non
testimonia, si limita a dire «Dormivo». In realtà il Barilari, quella notte,
aveva visto anche altro: la propria bellissima moglie Anna che ritornava da un
convegno adulterino. Il trauma della duplice visione, i corpi martoriati simili
«a tanti fagotti di stracci» e la donna affannata e troppo bella, lo ammutolirà
per sempre.
Gli occhiali d'oro affronta una delicata analisi del tema della diversità, I'
"inversione" sessuale e il conseguente isolamento.
Athos Fadigati, proveniente da Venezia, ha conseguito una solida carriera a
Ferrara come otorinolaringoiatra, con uno studio magnificamente arredato, meta
delle famiglie più in vista della città. Il Fadigati, piuttosto pingue ed
elegante, con i suoi occhiali d'oro scintillanti, è omosessuale: ben presto la
comunità provinciale lo viene a sapere, ma accetta la novità, in virtù
dell'estrema discrezione e signorilità del personaggio.
L'io narrante del racconto, nel 1936, è un giovanotto che frequenta l'Università
di Bologna e ogni mattina, insieme con i suoi colleghi, prende il treno locale
che da Ferrara li porta appunto a Bologna. Anche Fadigati sale su quel treno, e
in breve si trasferisce dalla seconda alla terza classe, rompendo il ghiaccio
con i giovani e infine diventando loro amico. Fra i ragazzi c'è Eraldo Deliliers,
spavaldo, atletico, bellissimo, un po' bullo e un po' maudit: egli è l'unico che
prende gusto nel ferire Fadigati con allusioni assai pesanti al suo «vizio»,
nell'umiliarlo in tutti i modi. E narratore registra però nel dottore una sorta
di acre piacere, di acuto godimento nell'essere maltrattato dal bel giovane,
tanto che una «luce assurda ma inequivocabile di una interna felicità» gli
brilla negli occhi. La vicenda si sposta a Riccione, dove il colpo di scena è
dato dalla nuova, «scandalosa» amicizia tra Fadigati e Deliliers, ospiti
entrambi in una camera del Grand Hòtel. Il ragazzo, che lo provocava così
brutalmente, ha deciso di farsi mantenere dal dottore invaghito di lui. Lo
scalpore è grande, l'offesa al decoro intollerabile: particolarmente la signora
Lavezzoli, amica di famiglia dei genitori del narratore, incarna la figura della
provinciale offesa e ipocrita, peraltro fascistissima e all'occasione
antisemita. La villeggiatura di Fadigati si fa così sempre più atroce e
umiliante, sia per le frecciate che gli vengono dalla Lavezzoli, sia per i
tradimenti e gli abbandoni dell'inquieto e brutale Deliliers. Infine questi se
ne va, derubandolo quasi di tutto: ma l'infelice dottore non vuole assolutamente
denunciare il furto. Il ritorno dalle vacanze a Ferrara coincide con l'inizio
della campagna antisemita, foriera delle prossime leggi razziali. Il narratore
confessa il disgusto sempre crescente per la società ipocrita e spietata dei
cattolici, dei goìm, e rivede Fadigati, ma non accoglie il suo consiglio di non
rispondere all'odio con l'odio. Il mistero di Fadigati è ancora davanti a lui,
il mistero di chi trova nell'umiliazione un premio assurdo, ferocemente
gaudioso. Tuttavia anche il dottore è alle strette: circondato dall'ostilità
generale prende a odiare se stesso, non si perdona il ridicolo in cui è
volontariamente caduto; concluderà così la sua vita suicidandosi nelle acque del
Po.
Il giardino dei Finzi-Contini è l'opera narrativa più celebre di Bassani. Anche
qui si parte da un luogo della città, corso Ercole I d'Este, in fondo al quale
c'è la casa dei Finzi-Contini, immersa nel verde di un hortus conclusus
emblematico dell'isolamento scelto dall'orgogliosa famiglia ferrarese,
costituita dal professor Ermanno e la moglie Olga, con due figli, Alberto e
Micòl (un terzo figlio, Guido, è morto bambino). Il narratore (anche questo
romanzo è in prima persona) è «attratto dalla diversità» dei Finzi-Contini: in
un pomeriggio estivo del '29 stringe amicizia con Micòl. Circa dieci anni più
tardi, in seguito alle leggi razziali, alcuni giovani ebrei ferraresi sono
accolti nel campo da tennis della villa Finzi-Contini, in quanto espulsi dal
prestigíoso circolo cittadino: fra loro c'è il narratore, che prende a
frequentare casa Finzi-Contini, benvoluto dal professor Ermanno e sempre più
attratto dalla vivace e affascinante Mícòl. Durante un temporale i due ragazzi
si rifugiano nella rimessa, dove la carrozza di famiglia li accoglie nel suo
interno lussuoso: qui potrebbe accadere qualcosa di determinante per il loro
rapporto, ma il protagonista non trova il coraggio di baciare la ragazza. In
seguito, ormai vanamente innamorato di Micòl, stringerà amicizia sempre più
stretta con il fratello di lei Alberto, un giovane languido e raffinato,
profondamente legato a un quarto personaggio, Giampi Malnate, un giovanotto
solido, robusto e comunista. La «schiettezza virile» di Malnate è certamente
irritante, e il protagonista entra spesso in polemica con lui; tuttavia esercita
un'attrazione erotica notevole su Micòl e probabilmente anche su Alberto. Il
professor Ermanno mette a disposizione del narratore la grande biblioteca, per
permettergli di completare la tesi di laurea: la frequentazione di casa
Finzi-Contini si fa assidua, ma una sera di Pasqua il tentativo, ormai fuori
tempo, di baciare Micòl fallisce; il rapporto fra i due non tornerà più come
prima; ogni speranza d'amore corrisposto viene meno. Accolto nella stanza di
lei, egli tenta anche un amplesso inutile e disperato, rendendosi però conto di
averla perduta per sempre. Lei si giustifica, dichiarando che l'amore è
violenza, sopraffazione, desiderio di sbranarsi reciprocamente, e questo è
impossibile fra loro due, così simili, così legati da vincoli intellettuali e da
una comune debolezza nel vagheggiare il passato e rinunciare al presente. Nel
campo da tennis, mentre la Storia precipita verso l'abisso della guerra, il
quartetto formato dal narratore, Micòl, Alberto e Giampi Malnate continua a
giocare, in un rituale ossessivo minacciato dagli eventi esterni che incalzano.
Alle insistenze inutili e impotenti del protagonista, Micòl oppone un rifiuto
sempre più netto, fino a esortarlo a non tornare per almeno venti giorni in
villa: una vera e propria cacciata dal giardino edenico (e tuttavia mortuario)
dei Finzi-Contini. Il giovane prende allora a frequentare separatamente Malnate,
con il quale si confida, scoprendo poi che è divenuto l'amante di Micòl.
L'epilogo è doloroso: Alberto muore di tumore, gli altri Finzi-Contini finiscono
deportati in Germania, Malnate parte per il fronte russo e non fa più ritorno.
Così si conclude questo romanzo di atti mancati, di rinunce, di delusioni
cocenti e di giovinezze perdute, senza un filo di speranza. D'altronde la
metafora del giardino perfettamente isolato e aristocratico, nido di bella
gioventù, aveva già in sé il presentimento, il seme della morte e della
sconfitta. Figura grondante tragica malinconia è soprattutto la vitale e
predestinata Micòl, immagine spietatamente elegiaca del pessimismo bassaniano.
Dietro la porta è nuovamente in prima persona: il protagonista è un ragazzo che
frequenta la prima liceo fra il '29 e il '30 a Ferrara. Due suoi compagni di
scuola dominano la vicenda: il più bravo della classe, Carlo Cattolica,
«perfetto in tutto», oggetto di odio, invidia e ammirazione soprattutto per «la
sua chiarezza mentale, il lucido funzionamento del suo cervello», e l'umile e
piuttosto abietto Luciano Pulga, di famiglia povera, sottomesso e però in
qualche modo ripugnante. Con il primo l'amicizia sembra costituzionalmente
impossibile; il secondo, invece, si insinua nella vita del protagonista e nella
sua famiglia di agiata borghesia, diventando intimo amico nonostante la volontà,
peraltro debole, del narratore di rifiutare questa vischiosa intimità. Pulga
parla di sé, della propria famiglia dove il padre picchia la madre che gode a
farsi picchiare, delle sue masturbazioni, giungendo a mostrare il membro
all'amico ed esigendo che questi faccia altrettanto. E il narratore è come
impotente di fronte a tale contaminazione progressiva, finché Cattolica non si
fa avanti e propone al protagonista la propria amicizia, invitandolo a fare i
compiti da lui. C'è di mezzo Pulga, che Cattolica dichiara di disprezzare
profondamente, ma la barriera sembra caduta e Cattolica fa di tutto per
abbatterla definitivamente: cerca di mettere il narratore contro il suo ignobile
amico, che va in giro sparlando di lui. Gli propone di far cadere Pulga in una
trappola: lo inviterà a casa sua; egli sarà nascosto dietro la porta e ascolterà
il falso amico vomitare malignità su di lui, aprendo così finalmente gli occhi.
Il piano viene messo in atto: il protagonista ascolta dalla voce di Pulga ogni
sorta di cattiverie sul proprio conto, in un crescendo di sadismo adolescenziale
che infetta e distrugge l'amicizia. Pulga giunge a parlar male anche della madre
del narratore e lo accusa di essere un omosessuale, morbosamente infatuato del
sesso dell'amico. A questa offesa estrema il protagonista si scuote ma, invece
di affrontare Pulga, scivola via dall'appartamento di Cattolica e fugge a casa.
Non chiede neppure spiegazioni il giorno dopo a scuola, né un mese e mezzo più
tardi, a Cesenatico. Conclude amaramente: «se Luciano Pulga era in grado di
accettare il confronto della verità, io no. Duro a capire, inchiodato per
nascita a un destino di separazione e di livore, la porta dietro la quale ancora
una volta mi nascondevo inutile che pensassi di spalancarla. Non ci sarei
riuscito, niente da fare. Né adesso, né mai». Queste ultime parole suonano forse
troppo esplicite e ridondanti, ma siglano sen Torless di Robert Musil) in cui la
adolescenza viene descritta come una stagione costantemente minacciata e invasa
da morbosità e sadismo.
L'airone racconta, con crudele minimalismo, una giornata di caccia di Edgardo
Limentani, registrando - accanto ai dettagli oggettivi - il salire lento e
inesorabile del disgusto, dell'orrore sordo per l'esistenza, fino a un esito che
sarà probabilmente tragico. Siamo nell'inverno del 1947, nelle nebbie della
Bassa; il risveglio di Edgardo è all'insegna del fastidio per ogni cosa,
particolarmente per il proprio volto riflesso nello specchio: tutto sembra
incredibilmente noioso e assurdo. Un saluto alla moglie Nives, un dialogo fatto
di banalità, l'uscita nel freddo dell'alba, l'incontro con il portinaio, la
partenza in automobile. Poi l'arrivo al paese di Codigoro e l'accoglienza
dell'ex fascista Bellagamba, proprietario di un albergo squallido, dove Edgardo
si reca al gabinetto, senza riuscire a vuotare il ventre. Al bar, per la
colazione, Edgardo telefona al cugino Ulderico: risponde una vecchia donna di
casa, poi arriva al telefono un bambino, uno dei chiassosi nipoti con cui
Edgardo ha un breve scambio di battute banali; dopo di che riaggancia
improvvisamente, desideroso di fuggire, di essere solo. Giunge in macchina
presso la palude dove incontra Gavino, l'uomo che lo condurrà a caccia, un
giovanotto dall'aria brusca e soldatesca. Comincia la battuta di caccia: Edgardo
non spara mai, mentre Gavino non fallisce il bersaglio, facendo strage di
uccelli. A Edgardo pare tutto irreale, lontano, astratto, mentre il compagno,
emblema di una solida vitalità ottusa ma efficace, funzionale, compie
perfettamente il suo dovere di esistere e agire. Un airone ferito, grande
uccello agonizzante, muore lentamente perdendo sangue sull'acqua della palude
accanto ai cacciatori; Edgardo «lo guardava pieno di ansia, immedesimandosi
totalmente». L'uccello viene a rappresentare così un "doppio" del protagonista,
un simulacro di morte, allegoria di tutte le agonie del mondo, simbolo di una
morte perenne, testarda e ineludibile. Edgardo torna a Codigoro e si disfa di
tutti gli uccelli morti; pranza nel locale del Bellagamba, ingozzandosi di cibo
e di vino e sentendo aumentare dentro di sé «lo schifo». Inutile mangiare, bere;
la tranquillità e la salute di «tutti gli altri» sono irraggiungibili: «La sua
pasta si vede era diversa, inguaribilmente diversa, da quella della gente
normale che una volta mangiato e bevuto non bada che a digerire». Nel gabinetto,
contemplando il proprio misero membro, Edgardo avverte sempre più acre il senso
dell'assurdità. In camera tenta di dormire; alla fine fa un sogno realistico e
sottilmente angosciante, in cui incontra una puttana e con lei accerta la
propria irrimediabile, tetra impotenza. Poi una nuova telefonata al cugino
Ulderico: risponde la moglie, Cesarina, che lo invita premurosamente a casa.
Edgardo giunge fino alla soglia dell'abitazione del cugino, ma poi rinuncia alla
visita e riprende a bighellonare per il paese. Arriva davanti alla vetrina di
una bottega d'imbalsamatore. In mezzo a tutte le bestie morte, immobili,
perfette, scorge riflesso sulla vetrina il proprio viso. E allora capisce che
soltanto il pensiero della propria morte può donargli felicità. I morti,
invidiabili, «puliti, duri, bellissimi, erano ormai diventati come le pietre
preziose e i metalli nobili. Immutabili e quindi eterni». Così la salvezza
dall'insignificanza della vita è tutta nella morte, e questa nuova
consapevolezza provoca in Edgardo addirittura ilarità e leggerezza. Ritornato a
casa, trova i suoi parenti a tavola: la moglie, la madre, la figlioletta Rory.
Si reca in camera a preparare il proprio suicidio, meticolosamente, con la
doppietta Browning. È felice; dopo cena va a trovare la madre nella sua stanza,
la trova «bella, bellissima, perfetta». I due si scambiano giocosi complimenti,
conversano un po', si danno la buona notte e sul saluto della madre si chiude il
romanzo. Edgardo si suiciderà?
Ritenuto da alcuni il suo capolavoro, L'airone si differenzia da tutte le
precedenti prove di Bassani, per la testarda, analitica descrittività che
accompagna il racconto della giornata di Edgardo, quasi che l'insistenza sulle
azioni più elementari e gli oggetti più banali accentui l'insensatezza
dell'esistere. Gli ambienti più umili e degradati vengono scandagliati con una
oggettività apparentemente da "scuola dello sguardo", in realtà carica di
angoscia profonda. Un esempio ricorrente, i gabinetti: «Il cesso si trovava di
là dalla vasca, accanto alla finestra. Si accostò. Esaminò la ciambella, il cui
legno biondastro conservava vecchie tracce di vernice bianca. La rialzò col
piede. Sbarazzatosi quindi della giacca e del berretto, che appese alla maniglia
della finestra, sbottonò i pantaloni e le due paia di mutande, li abbassò, e
sedette a contatto diretto della maiolica maiolica gelata». La sfera più bassa,
destinata tradizionalmente in letteratura allo stile comico, si colora qui di un
sentimento di squallore tragico e assoluto; la vita è una trappola in cui il
protagonista e l'airone, entrambi agonizzanti, si dibattono disperatamente e
inesorabilmente.
L'odore del fieno è una raccolta di prose narrative. II primo racconto, Due
fiabe, è in realtà un dittico ferrarese, che vede in scena dapprima la trentenne
Egle Levi-Mínzi, che sposa un ucraino dopo aver rifiutato numerosi pretendenti e
mette al mondo un figlio bellissimo; quindi il curioso signor Buda, che approda
all'albergo Tripoli «di infima categoria, equivoco la sua parte» e sogna (ma
forse no) di finire sotto il treno all'alba.
In Altre notizie su Bruno Lattea il protagonista, ebreo, «nervoso,
magroscheletrico, sbiadito di pelle», insegue, durante una vacanza in Istria,
l'amata Adriana, «abbronzata, pacifica, potente [...] la vamp americana e
ariana», ricevendone naturalmente soltanto indifferenza.
Nei frammenti di Ravenna l'autore rievoca gite e villeggiature adolescenziali e
giovanili nella città eponima.
Les neiges d'antan è ancora un dittico, dedicato a due personaggi ferraresi:
Marco Giori, brillante, slanciato, elegante, ambizioso, che tuttavia, invece di
emigrare a Parigi o a Londra, rimane a Ferrara e diventa, come il padre, sciatto
nel vestire, grigio, con la pelle del collo grassa come il cuoio; Mario Spisani,
detto Pelandra, "puttaniere" e cocainomane, che improvvisamente trova una
coscienza, si sposa e mette al mondo dei figli, marito esemplare fino a quando
non decide di scomparire nel nulla, dopo essere uscito di casa a comperare delle
sigarette.
Tre apologhi è un trittico di spezzoni autobiografici: il primo descrive un
viaggio in automobile con la moglie, di ritorno a Roma da Ferrara; il secondo
narra di un viaggio e del soggiorno a Napoli nell'immediato dopoguerra, quando
l'autore scriveva per un giornale romano pezzi di colore sulla città partenopea;
il terzo è una fantasticheria su una fotografia che «ritrae un certo signor T.
mentre, credo in una stanza della Questura, sta difendendosi dall'accusa di
essersi millantato in pubblico Medaglia d'Oro». L'ultimo testo, Laggiù, in fondo
al corridoio, è una serie di annotazioni dello scrittore sulla gestazione dei
suoi primi racconti, Lida Mantovani, La passeggiata prima di cena, Una lapide in
via Mazzini, Gli ultimi anni di Clelia Trotti, concludendo su Gli occhiali
d'oro, primo romanzo, anche se breve, in cui nell'ambientazione ferrarese
compariva il personaggio autobiografico, l' "io" che trovava giusta collocazione
nel "teatrino provinciale" prediletto da Bassani. Queste pagine sono preziose
per le indicazioni sul "come lavora" l'autore, affascinato ad esempio - e non
sembrerebbe - dalle strutture geometriche del racconto; importante poi il
ribadire, da parte di Bassani, la propria origine di poeta, la propria nascita
lirica, che molta critica ha spesso sottolineato per le conseguenze sulla sua
narrativa.
Dalla narrativa di Bassani sono stati tratti tre film: La lunga notte del '43
(1960, da Una notte del '43), regia di Florestano Vancini, sceneggiatura di
Ennio De Concini e Pier Paolo Pasolini, interpreti principali Belinda Lee,
Gabriele Ferzetti, Enrico Maria Salerno; Il giardino dei Finzi-Contini (1970),
regia di Vittorio De Sica, sceneggiatura di Bassani (che però tolse il suo
nome), Ugo Pirro e Vittorio Bonicelli, interpreti Dominique Sanda, Lino
Capolicchio, Helmut Berger, Fabio Testi, Romolo Valli; Gli occhiali d'oro
(1987), regia di Giuliano Montaldo, interpreti principali Philippe Noiret,
Rupert Everett, Valeria Golino.
Bassani ottenne il premio Strega, nel 1956, per Cinque storie ferraresi; il
Viareggio, nel '62, per Il giardino dei Finii-Contini; il Campiello, nel '69,
per L'airone. Per l'opera complessiva, sempre nel '69, ebbe il premio
internazionale Nelly Sachs.
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