Luigi
De Bellis

 


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Attilio Bertolucci



LA CAMERA DA LETTO


All'opera l'autore lavorò fin dal 1954. Dopo la prima edizione nella collana maggiore di «Poesia». Ora il poema è in Opere, a cura di Paolo Lagazzi e commento di Gabriella Palli Barone, dove compaiono anche gli Argumenta scritti dall'autore per la lettura televisiva del testo.

La prima sezione del libro primo, «Romanzo famigliare [al modo antico]», si apre con un canto (Fantasticando sulla migrazione dei maremmani) dal sapore epico e insieme trascolorante; l'incipit è un perfetto endecasillabo («Dalle maremme con cavalli, giorno»), con enjambenaent («giorno / e notte»); le immagini sono talora di un impressionismo fantasmatico («in un fermo pallore d'alba estiva», ancora un endecasillabo), talora di una classicità quasi mitologica, anche con iterazioni formulari («li accompagnavano nuvole»; «i cavalli erano svelti come nuvole»).

Un gruppo di maremmani si insedia in un luogo dell'Appennino parmense: sono i progenitori lontani dei Bertolucci; scendendo lungo l'albero genealogico si arriva al nonno di Attilio, Giovanni Rossetti, cui è intitolato il canto II, che principia: «Molle, molle pianura del Po, lascia / le tue donne» ecc. (si noti ancora l'enjambement e quel molle assai manzoniano. Il Rossetti sposa Regina Pasini, della provincia bresciana: «Si ha così l'innesto della borghesia professionistica bresciana nel tronco dei grandi terrierí emiliani» (Bertolucci, Argumenta). Il canto III (Un giovane di montagna scende in pianura) è dedicato al padre di Attilio, Bernardo, di cui si schizzano episodi d'infanzia e giovinezza, fino all'incontro con Maria Rossetti, che sarà la sua sposa. Il canto IV (Il segreto) vede appunto maturarsi in Bernardo il proposito di unirsi con Maria, mentre nel canto V (Elsa) già si tinge di lutto la nuova famigliola, che ha perso i primi nati, Giovanni e Giulia, e ora concentra le proprie speranze in Elsa. Ma la bellissima bimba morirà a sei anni, e l'elegia sale vibrante, con accenti leopardiani e classico-funerari, sino all'allocuzione finale «Tu, sorella maggiore...». La narrazione prosegue con l'evocazione dello sciopero agrario del 1908 (se ne ricorderà Bernardo Bertolucci, figlio di Attilio, nel film-affresco Novecento) e di un pellegrinaggio a un santuario (Sciopero, Pellegrini), mentre con il canto VIII (La candela e il bambino) vediamo il piccolo Ugo, quarto figlio, e Maria incinta del quinto, che sarà Attilio. Il protagonista, piccolo, è accanto a sua madre nel canto IX (Fola e passeggiata), in una scena che, nello stordimento delle magnolie e del sole di giugno, assume una tonalità quasi sacrale: un'ape vola sopra il bambino senza pungerlo, ed è «come nel IV libro delle Georgiche, simbolo del dono della poesia», annota Gabriella Palli Barone. Nel canto X (Come nasce l'ansia) Attilio ha cinque anni e conosce per la prima volta l'angoscia, a causa di un ritardo dei genitori interpretato come un abbandono: episodio che, per la sua sottile analisi psicologica della precoce sensibilità infantile, non può non far pensare a celebri pagine proustiane. Il canto seguente (Il bambino che va a scuola, a sei anni) segna una tappa importante nella vita di Attilio, « un mutamento profondo nel corso dell'esistenza del bambino» (annota l'autore negli Argumenta), soprattutto per l'esperienza del distacco dalla madre. Si chiude significativamente qui la prima parte del libro primo.

La seconda, «O città sospirata...», si apre con Attilio ospite del Convitto Maria Luigia di Parma (In collegio, canto XII) e si chiude con il ricordo della rappresentazione teatrale scolastica, in cui il bambino è mascherato da piccolo giapponese, sotto gli occhi della mamma. È la prima epifania della «luce del palcoscenico, la finzione più vera / del vero»: il teatro e la fantasia come fuga dalla realtà, o meglio, suo inveramento.
Il canto XIII (La «réverie») è dedicato alle vacanze e al ritorno nella casa estiva di Baccanelli. Nel canto seguente (Viaggio alla terra dei sigari) seguiamo Attilio guidato dal fratello maggiore Ugo in un picaresco-salgariano percorso nella campagna, risalendo un fiume, con l'imitazione degli adulti che fumano lunghi sigari che non sono altro che infiorescenze pendenti dagli alberi.
Il canto XV (Nonno e nipote) è ancora narrazione di una lunga e straordinaria vacanza, con il nonno malato, senza speranza, a Salsomaggiore, «città irreale» luminescente e insieme carica del presagio di morte; l'episodio del teatro dei burattini ribatte sul motivo della finzione autentica («Qui comincia l'arte, qui la finzione / si fa tempo più vero»). Irrompe, nel canto XVI (In città) il tema urbano, così baudelairiano per Bertolucci. giacché la città è subito l'apparizione del «paradiso-interno del sesso» (Argumenta), in una forma malinconicamente "perversa": un commesso omosessuale desidera la giovinezza di Attilio, che coglie l'aspetto doloroso e disperato della cosa («Così / t'accoglie la città e ti sporca / del suo amore e dolore», e siamo nel 1921).
Compare sulla scena la Storia con la sua violenza, nel canto seguente (Un giorno di marzo): Attilio, che frequenta il ginnasio, assiste all'uccisione di un diciottenne da parte di una squadra fascista, e la morte del giovane fa nuovamente salire il registro verso il tono elegiaco, ma con macchie più vividamente tragiche: « lo portarono a casa / a metà del mattino, / morto / come un vitello macellato / e così caldo, tenero, spruzzato.» (si noti la rastremazione dei versi, quasi scorciati dallo sgomento).
Il trasferimento nella città è definitivo nel canto XVIII (Dall'autunno all'inverno), mentre nel seguente (A tredici anni) si realizza una sorta di iniziazione sessuale dell'adolescente Attilio, che compie l'atto autocrotíco in compagnia di un amico, entrambi immersi nella campagna ai limiti della cinta urbana, quasi protetti dall'universo vegetale che fornisce l'emblema allusivo dell'eiaculazione: « I vegetali, se feriti, versano / un latte quasi tiepido, / di un bianco dolce e fosco» ecc.
Ancora sottilmente morbosa la materia del canto XX (Il venditore di ostriche): Attilio si reca dall'ostricaro per rifornire segretamente la madre, golosa, di quel cibo («disgustoso, molliccio elemento / organico, simile allo sperma») che allude ancora al sesso e al proibito (Maria non dovrebbe mangiarne perché soffre di pressione alta).
Di nuovo l'estate e la campagna nel canto XXI (Il ritorno), che si conclude però con un'immagine rabbrividente della madre alla finestra (c'è una preziosa memoria baudelairiana nella sua «veste rosa e verde»), già minata da un male che lentamente la ucciderà.
Il protagonista del canto XXII è Il cugino Nanni, giovane malato di tubercolosi, con cui Attilio trascorre un'estate al mare, in Versilia: qui l'inizíazione sarà completa, con la visita a una casa di piacere a Viareggio, in obbedienza alle «Leggi di Venere», il tutto alluso indirettamente con un pudore nevrotico e proustiano.
Nel canto seguente (O salmista) è di scena il padrino don Attilio, precettore e maestro di poesia del protagonista, grande amante del Tasso (lascerà al giovane in eredità una copia della Liberata con la postilla «Torquato mio, non mi abbandonare» è colto qui nel suo lento spegnersi, una languida morte autunnale cui si conforma il paesaggio: «mentre ottobre si disfa / dolcemente / in questa plaga mediana fra Po / e Appennino in cui si apre Parma come un fiore, / una rosa gialla primamente guastata da nebbie e da vespe».

L'ultima parte del libro primo («Oziosa giovinezza») si inaugura con il canto XXIV (L'educazione dei giovani): Attilio frequenta il liceo, ha un carissimo amico, Pietro Bianchi, con il quale si interessa alle espressioni artistiche più nuove e vitali, come il cinema, e frequenta ormai abitualmente le case chiuse (da cui il titolo, delicatamente ironico, del canto); in Vagabondaggio fruttuoso (canto XXV) vediamo il giovane Attilio in veste di fláneur immergersi sempre di più nel «vizio consolatorio della poesia», praticando irresponsabile un fecondo girovagare en plein air.
Nel canto seguente (La prova della pelliccia) abbiamo un «grande e incantevole a solo di Maria» (Palli Baroni): la madre di Attilio si reca in città, dalla campagna, a provare una pelliccia nell'atelier descritto con movimentata efficacia; purtuttavia pesa sempre su di lei il presagio grave della morte.
Il canto XXVII (Le sorelle) segna l'inizio dell'amore, a Forte dei Marmi, per Ninetta, che Attilio sposerà: la giovane appare in costume da bagno, mentre indugia a chiudersi la cuffia sotto la gola, un'epifania dolcissima dove, sempre proustianamente, si miscela la descrizione del quotidiano alla inevitabile istanza trasfigurante e luminosa; il canto si conclude con una "cabaletta" metastasiana, un brindisi ironico e sublime a un tempo sulla bibita alla moda.
In Partenza di lei per un'altra città abbiamo il primo doloroso e, insieme, gaudioso distacco da Ninetta, che si reca a Bologna per l'Università; nel canto seguente, il XXIX (Una strana visita) Attilio si è ammalato di pleurite, «per sopravvivere, / alla partenza di lei, all'esistenza di lei / in una città lontana»; superato il terrore iniziale che si trattasse di tubercolosi, restano lo sfinimento febbricitante della convalescenza e un'eredità tenace, il disturbo extrasistolico che accompagnerà il poeta per tutta la vita. Relegato in casa, Attilio riceve la visita di un ingegner V, colto e gran parlatore, che morirà di li a poco.

Il libro secondo si articola in tre parti.
La prima, «La pazienza dei giorni», si apre col canto XXX (Il capanno), dove il mare della Versilia, risuonante di musiche jazz, è teatro dell'unione fra Attilio e Ninetta, in un capanno verde, dove Attilio lascia «finalmente cadere la spoglia della sua, per volontà sua, troppo durata a lungo adolescenza»
Il canto seguente (Le scarpette di chevreau) vede Ninetta e Attilio, esentato dal servizio militare, rifugiarsi nel loro amore dalla minaccia prossima della guerra; l'amore e la poesia li difendono (Ninetta prepara una tesi su Catullo), e antidoto è anche la moda, l'anglofilìa dei burberries, dei cappelli lock e le scarpette su misura in cbevreau marrone.
Nel canto XXXII (Un incontro imprevisto) la nonna Regina, prima di morire, fa in tempo a conoscere Ninetta; Attilio poi, girovagando per Parma, si imbatte casualmente nella madre a passeggio con un'amica e invita entrambe all'elegante Pasticceria Pagani: egli è ormai un uomo, non più adolescente.
Il servizio amoroso è il titolo del canto XXXIII, dove campeggiano le due donne di Attilio: Ninetta, laureata e supplente in una scuola di suore, e Maria, la madre, vitale e mortale a un tempo, perché minata dalla malattia.
E a lei è intitolato il canto seguente (Maria), che apre sulla notizia luttuosa della sua morte «all'antivigilia / di Natale»; questo canto funebre, denso di memorie virgiliane e immaginazioni delicatamente luttuose («la cara, la diletta persona / è già sull'altra riva e non ci sente»; «Dopo il profumo dei fiori guastati dalla pioggia»), è definito dallo stesso autore «il vero, profondo spartiacque del libro» (Argomenta).
Il canto XXXV, dal titolo Viole peste, vede scorrere la vita amorosa di Attilio e Ninetta, con il cagnolino cocker spaniel Flush.
Il canto seguente (Nella casa di Pea) è ambientato ancora in Versilia, dove i due innamorati cercano di fuggire dalla Storia e dal fascismo (siamo nel '39), sul mare dove già dimorò Arnold Bócklin: «Biscotti e cravatte inglesi, libri francesi e dischi di jazz li sono ancora possibili» (Argomenta).
Il canto XXXVII, dal titolo malioso Dove i tigli fiorirono nel mese sonnambulo (e i tigli, come i bíancospini in Proust, sono ricorrenti nella Camera), vede Ninetta incinta; infatti il canto seguente, Metamorfosi del corpo di N., è dedicato al mistero della maternità nel corpo femminile, correlato alla trasformazione della natura, alla malattia e insieme alla dinamicità della speranza in un mondo offeso: («primavere di rose e magnolie corruttibili / ma dolci, dolci ad annusare sino a procurare emicranie» (dove la primavera è insieme rinnovamento e marcescenza).
Nel canto XXXIX (Lo spaniel custode) il figlio, Bernardo, è nato e il cagnolino Flush diviene il suo angelo custode.
Farfalle esitanti e presagi è il titolo del canto XL: la guerra è in atto e Attilio è richiamato alle armi, presso l'Ufficio prigionieri di guerra del Comando militare di Piacenza; le farfalle del titolo sono emblemi di inquietudine, assimilate a quelle extrasistoli, tachicardie, aritmie che faranno concludere rapidamente la «breve, comica / cattività piacentina» di Attilio.

La seconda parte del libro secondo, «Nell'alta valle del Bràtica», narra della fuga della famigliola a Casarola e delle peripezie per sfuggire ai rastrellamenti tedeschi; comprende quattro canti, dal XLI al XLIV (Dall'altro versante, Fumi lontani, La fuga a monte Navert, Questo così sereno così pio mattino), dove l'incubo della Storia bussa alla porta con violenza sempre più ineludibile, dove la morte, gli incendi, le esecuzioni sommarie mettono in gioco anche l'irresponsabilità congenita e il pur mite egoismo del protagonista, due anziani zii del quale vengono freddati con un colpo alla fronte e poi arsi nelle loro case.
La terza parte, «La partenza», comprende il canto XLV, Il taglio dei riccioli e l'ultimo, breve, a mo' di epilogo, anch'esso intitolato La partenza. Nel Taglio dei riccioli siamo già al 1950; Attilio e Ninetta hanno due bambini, Bernardo e Giuseppe (saranno entrambi registi cinematografici); i riccioli recisi sono quelli del piccolo Giuseppe, che «accetta il ruolo assegnato a lui dal destino / di fratello minore, doloroso privilegio», del resto proprio anche del padre Attilio. La partenza finale è quella dei genitori per Roma: qui La camera si conclude.

Il romanzo in versi, definito «quella cosa lunghissima» in una lettera a Vittorio Sereni, già nel 1954 aveva conosciuto i primi vagiti; nell'estate dell'anno seguente anche il titolo definitivo, La camera da letto, era scelto; nel marzo del '58 uscì su «Paragone» il primo capitolo dell'opera; negli anni Sessanta il poeta continuò a lavorare al poema, definito «quell'impresa un po' folle» in un'altra lettera a Sereni del '70; l'elaborazione si protrasse negli anni Ottanta, fino alla pubblicazione dei due libri, a distanza fra loro di quattro anni (1984 e 1988). Un impegno ben più che trentennale, dunque, da parte di un poeta che aveva sentito presto il desiderio di farsi narratore: in un'intervista Bertolucci dichiarò che la lettura della Woolf e di Joyce, nel 1928, lo aveva spinto a «sognare di poter scrivere, oltre che poesie, romanzi». Nel '33 egli aveva abbozzato lo schema di un romanzo, dal titolo La sabbia nei sandali, in dodici capitoli: restò un progetto irrealizzato. Il rimpianto di non essere romanziere è un motivo presente nella Camera «ne sono un narratore nato / con qualche rimpianto di non esserlo», XLV, 17-18), dove in realtà la narrazione è impastata di irrealtà, di fantasia, di stupefazione trasfigurante che si illumina proprio nelle registrazioni della quotidianità più "prosastica". In questo senso la capacità di sublimare l'umiltà del quotidiano fino alla mitopoiesi moderna è un dato derivato da Proust, senz'altro l'auctor per eccellenza bertolucciano: si veda la particolare attitudine impressionistica nelle descrizioni; si veda soprattutto l'attenzione, fra snobismo e tenerezza, per gli abiti e per la moda (nel volume di saggi Aritmie si legga l'intervento dal titolo Marcel, berretti e mantelli), oltre che il particolare rapporto con la madre e con la nonna, le cui analogie con la Recherche sono evidenziate dal poeta stesso. Anche un certo estetismo dannunziano influisce sull'autore, il cui verso inquieto e aritmico (si va da misure lunghissime a versi bisillabici, mentre i canti della prima parte del libro primo sono ancora legati al pattern sostanzialmente endecasillabico proprio della Capanna indiana) deve comunque qualcosa a Whitman e a Pound. Bertolucci, alieno da scavi psicologici troppo problematici, è invece assai attento ai dati corporei, fisici, soprattutto alle patologie, come quelle cardiache, assunte a emblema di un modo di far poesia (si veda il celebre scritto Poetica dell'extrasistole in Aritmie), o come l'emicrania di Ninetta, o la lenta malattia mortale della madre; le febbricole del giovane Attilio o le sue tachicardie possono lecitamente evocare la ben più grave asma di Marcel Proust. In realtà nel poeta della Camera, nonostante le indubbie nevrosi, ipocondrie («patofobie» come egli le chiama) e ipersensibilità, c'è una salute di fondo, che si esprime in un gioioso ringraziamento alla vita in tutti i suoi aspetti dinamici e metamorfici (anche la Laus vitae dannunziana è un testo amato da Bertolucci). Le parole-chiave, con cui l'autore definisce la propria condizione psicologica, sono allora «irresponsabilità» ed «egoismo», ove dell'«egoismo» si intenda una forma dolce e non certo proterva.
La camera da letto ha ricevuto numerosi premi letterari, fra cui il Viareggio nell'89. Nel 1991 i registi Stefano Consiglio e Francesco Del Bosco hanno ripreso il poeta mentre leggeva integralmente il suo poema; il lungo filmato fu proiettato alla XLIX Mostra del cinema di Venezia, nel '92.

 

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