Debuttò il 10 febbraio 1967 con la Compagnia dei Giovani, per la quale era stata
scritta; regia di Giorgio De Lullo e scene di Pier Luigi Pizzi; costumi di Alain
Reynaud; interpreti Rossella Falk, Romolo Valli, Elsa Albani, Carlo Giuffré,
Umberto Orsini. Venne ripresa, il 12 novembre 1983, dalla Compagnia italiana di
prosa diretta dall'autore (Pistoia, Teatro Manzoni), con la regia e le scene di
Aldo Terlizzi; costumi di Valentino; interpreti Florinda Bolkan, Michele
Placido, Remo Girone, Fiorenza Marchegiani, Fabrizio Bentivoglio.
Chiave di lettura è la didascalia posta sotto le dramatis personae: «Il
palcoscenico è uno spazio nel tempo. Le azioni devono svolgersi in un presente
continuo, mai apparire rievocate o suggerite. I personaggi sono sempre in scena
e anche quando non partecipano devono sottolineare la loro presenza ed essere di
ingombro». Tutto avviene, dunque, in una totale simultaneità, in un concatenarsi
di "quadri" che affiancano situazione a situazione, l'una riversata nell'altra,
con gli stessi personaggi (cinque), che sono ora qui ora lì, ora qui e ad un
tempo lì e, momento per momento, l'uno sa quel che l'altro dice e fa, ascoltando
o interloquendo. Presenza fissa sulla scena è una tavola apparecchiata, luogo di
partenza o ricaduta di tutte le situazioni; gli spazi a lato - spazi temporali,
come precisa la didascalia, ricondotti al presente - simulano, di volta in
volta, ambienti interni o esterni, costantemente inclusivi di ciò che accade o
non accade intorno alla tavola.
L'opera è un prodotto tipico degli anni Sessanta, quando far vita di gruppo, di
clan, era usanza diffusa, gestita con orgoglio borghese. Queste consorterie -
annotava Patroni Griffi in un articolo del 1968 - sono «composte da amici della
stessa generazione, che hanno avuto insieme le stesse esperienze e hanno fatto
le stesse cose, che si conoscono profondamente. Si vogliono bene e magari anche
si disprezzano, nutrono infiniti reciproci rancori, ma si sono necessari.
Vivendosi sempre addosso, è naturale che nascano all'interno di questi gruppi
complicazioni affettive, sentimentali, psicologiche. Un groviglio inestricabile,
ma di cui non si riesce più a fare a meno e se qualcuno tradisce, se per esempio
una donna non si accontenta di essere la moglie di suo marito, ma si innamora
anche di un estraneo, se addirittura progetta di andarsene con lui... allora lo
sgomento e l'infelicità degli altri è tale che l'unica soluzione consiste nel
far finta di niente, nell'assorbire l'estraneo nel gruppo: pur di non rompere
l'apparente equilibrio». La spiegazione dell'autore riassume il senso della
commedia, che non ha un vero svolgimento. Il gruppo è qui formato da quattro
personaggi: Nina la protagonista, una donna dalla bellezza «sobria, dall'aria
composta», ma dalle reazioni imprevedibili; suo marito Michele, uno scrittore
con una mentalità tollerante, ma solo perché è pigro negli affetti; Max, un
attore dal linguaggio brutale che considera le donne degli oggetti («sono delle
cose che ti passano sotto gli occhi e quando te ne serve una l'afferri»);
Giovanna, una donna non più giovane, assennata, che spera ancora di avere un
figlio e della cui presenza è impossibile liberarsi. Max è l'amante di Nina, ma
non per questo è meno amico di Michele, con il quale ha interminabili
discussioni di politica, di letteratura, di teatro; Michele è l'amante
infastidito di Giovanna, peraltro devotissimo a Nina. Ognuno sa dell'altro e
nessuno può rinunciare all'altro. Ma le due relazioni adulterine sono ormai
abitudinarie guanto un mènage coniugale. Per ridare sapore alla propria, Max
escogita un mezzo perverso: assolda Ric, un "ragazzo da marciapiede", con cui
trascina Nina in giochi erotici a tre. Senonché Ric - strano miscuglio di
cinismo, di "naturalità" e di ambizioni letterarie - si innamora davvero di
Nina. Il suo grido disperato («Ti prego, amami Nina, amami Nina...» ) chiude il
primo tempo, lacerando i fittizi equilibri di Nina e del gruppo; la didascalia
specifica: «si mette a girare intorno a Nina, davanti a Michele, Giovanna, Max,
come un pazzo».
La donna si sente investita dall'impeto di una passione irresistibile da
qualcosa di sconosciuto a lei e al suo mondo: sta per cedere e annuncia la
decisione di andarsene, sicché il clan entra in crisi, ciascuno dei tre
"abbandonati" perde la ragione della propria esistenza. Il posto a tavola di
Nina rimane vuoto, e Michele osserva con amarezza: «Nina ci ha lasciati, ed è
inutile sforzarsi di animare le serate - la nostra cena è una cosa morta. Non
abbiamo più nulla da dirci». Ma Giovanna e Max non si arrendono: con argomenti
diversi essi riescono ad attirare Ric nella rete del gruppo. Nina è innamorata,
e tuttavia senza Michele e gli altri è infelice; e lui - il "puttaniere" che
cita le «cose divine sull'amore» del Simposio di Platone, lasciandole cadere tra
le miserie del convivio borghese - non vuole la sua infelicità. È disposto,
perciò, a restituirla al marito, il quale non accetta "restituzioni" e
preferisce invitare l' "estraneo" a cena, insieme a Nina. Ric siederà infine,
anche lui, alla tavola apparecchiata. Il clan si rassicura, si ricompone con un
affiliato in più. «Rimango aggrappata a questa tavola...», dichiara Giovanna,
imperterrita e soddisfatta. E Michele precisa: «...infatti non è una tavola, è
una zattera», riprendendo poi una delle solite discussioni con Max. II
tradimento di Nina è soltanto un "caso" che si risolve, con ipocrita leggerezza,
nel flusso della chiacchiera conviviale il titolo della pièce - tratto dal
linguaggio colloquiale, quasi gergale - suggerisce la casualità di qualsisasi
evento: Metti, una sera a cena, cioè "supponi che càpiti durante una cena...".
L'autore, insieme con Dario Argento, adattò il testo per un film omonimo, che
diresse e realizzò personalmente nel 1968; interpreti Florinda Bolkan,
Jean-Louis Trintignant, Lino Capolicchio, Tony Musante, Annie Girardot, Adriana
Asti, Milly, Nora Ricci, Mariano Igillo; musiche di Ennio Morricone.
Metti; una sera a cena è un "dramma di conversazione" che si rifà a Pirandello,
forzandone il gioco astratto della casistica psicologica e delle partizioni
sceniche. Secondo Paolo Bosisio, con quest'opera «è nata una nuova commedia
"borghese": una commedia cioè che, sulla base di una lettura critica di
comportamenti e atteggiamenti tipici di una parte della borghesia del tempo,
costruisca un modello drammaturgico completamente nuovo, nelle strutture come
nel trattamento dialogico».
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