Scritto nel 1912, il libro fu pubblicato a Firenze nel gennaio del 1913 presso
la Libreria della Voce («Quaderni della Voce», XVIII-XIX). Ebbe un successo
immediato: tuttavia l'autore, nel corso delle numerose edizioni da lui curate,
apportò al testo originario sostanziose correzioni soprattutto a partire dal
1919-20, data della sua conversione alla fede cattolica. L'edizione Vallecchi
del 1932 (che doveva far parte del corpus completo delle opere papiniane) offre
un testo "purgato" di quanto poteva apparire troppo violentemente antireligioso.
Questo testo fu la base delle successive edizioni. Le edizioni più recenti
tornano invece al testo del 1913. In un appunto manoscritto Papini segnalava,
con innegabile ironia verso se stesso, le possibili definizioni del libro: «Vera
storia di un cervello - Tragedia con un solo personaggio - Sinfonia interna in
quattro tempi - Inutile sfogo di un impotente - Documento scientifico per lo
studio della mania di grandezza - Ripulitura di un'anima che vuol rinascere».
L'autobiografia del Papini trentenne, aperta sotto il segno di un'esperienza
fuori dalla norma - «Io non sono mai stato bambino. Non ho avuto fanciullezza »
- è composta di cinquanta capitoli dal titolo ora breve e ironicamente efficace
(«Fare!», «Lui», «Sono un imbecille!»), ora retorico e ampolloso («Il ritorno
alla terra», «Dichiarazione di stile», «Alle nuove generazioni»). L'autore li
dispone nei "movimenti" di una partitura musicale: andante è l'infanzia
fiorentina, solitaria e scontrosa, rallegrata dal piacere della lettura;
appassionato è il tempo dell'adolescenza e dell'amicizia nutrita di discussione
e schermaglie logiche; tempestoso è l'apostolato, a vent'anni, con il primo
giornale iconoclasta, «Il Leonardo»; solenne è l'impegno politico, nazionalista
e imperialista che si trasforma in delirio di onnipotenza, nel sogno
dell'uomo-Dio; lentissimo è il successivo, inevitabile, ritorno alla realtà e
alla desolata confessione della propria mediocrità (qui la voce dell'autore
sembra quella di «un uomo finito» che vede davanti a sé la morte e il nulla);
allegretto è il tempo dei trent'anni, dell'energia e della consapevolezza, delle
radici ritrovate (la campagna toscana, la storia, i grandi classici della
letteratura). L'autore non esita a scegliere il ruolo del polemista indomabile
(«L'ho già detto; non sono finito. Il titolo di questo libro è sbagliato: poco
male! Qui dentro c'è un uomo ch'è disposto a vender cara la sua pelle e che vuol
finire più tardi che sia possibile») e si rivolge agonisticamente alle nuove
generazioni, perché ha ancora molto da dire.
Il libro è dunque il Bildungsroman di una delle figure più appariscenti nel
mondo intellettuale italiano della prima metà del secolo e, nello stesso tempo,
è il ritratto di una generazione: letture, sogni, ideali, miti e maestri..., ma
anche abitudini, modo di vestire e di parlare. Su questo piano per così dire
narrativo e storicizzante Un uomo finito è una lettura godibilissima, ricca di
notizie divertenti, dove la personalità lucida e irriverente di Papini - il suo
lato cinico, distruttore - si combina con una sensibilità lirica che un
linguaggio pulito, veloce, mai banale, salva dalla stucchevolezza. Tuttavia due
ostacoli impediscono il godimento sereno di questo testo: la fissazione
esclusiva sul proprio io, solo in parte spiegabile con l'ovvio narcisismo degli
anni adolescenziali, e la predilezione per uno stile apocalittico che disdegna i
dettagli per volare sempre un po' sopra le righe del racconto. Vediamo dunque il
quindicenne infreddolito leggere a lume di candela l'Inno a Satana di Carducci,
scrivere un'enciclopedia della scienza universale che si fermerà alla lettera
Ad, entrare di sotterfugio e col batticuore nel salone della Biblioteca
Nazionale. La memoria del padre, modesto artigiano, silenzioso e miscredente, si
lega indissolubilmente al piacere delle camminate sulle colline intorno Firenze,
gelate nel pomeriggio invernale. Più tardi la vena malinconica del suo carattere
e le prime letture di Schopenhauer e Leopardi gli suggeriscono la compilazione
di un funereo zibaldone di aforismi sulla inutilità dell'esistenza, coronato da
un radicale progetto di suicidio universale mediante veleno. La bobème
fiorentina di fine secolo è narrata con un'ironia che attenua l'enfasi
sentimentale dei ricordi: al suo centro è Lui, «il mio Giuliano», cioè Giuseppe
Prezzolini. Passione comune di entrambi è la filosofia: l'idealismo più assoluto
ed estremo, al limite del solipsismo conoscitivo («il mondo sono io») e morale
(«tutto è permesso»), ricalcato sui modelli, solo in parte metabolizzati, di
Stirner e Nietzsche.
Nasce finalmente «Il Leonardo», espressione di quel gruppo di giovani
artisti-poeti-filosofi che s'incontra in una piazzetta fiorentina, poi nello
studio del pittore Costetti, infine nello stanzone del fatiscente palazzo
Davanzati: estenuanti sono le discussioni sul titolo - «La Vampa»? «Divenire»?
«L'Iconoclasta»? - Per cinque anni il giornale distrugge, polemizza, introduce
nuove idee: lucido, malizioso e consapevolmente ironico è il resoconto
dell'introduzione a Firenze del pragmatismo come filosofia dell'azione, una fede
senza Sacre Scritture, vicina alla magia e all'occultismo, devotamente praticata
nel corso di sedute spiritiche («salotti ridicoli; vecchie isteriche
abbrunate... silenzio penoso in attesa dei colpi fatali»).
I due amici progettano di andare a predicare negli USA questa religione
demoniaca che pone l'uomo al posto di Dio... e cominciano a studiare l'inglese!
Ma il narratore ha ormai scoperto la politica nelle file del nazionalismo e
sulle pagine del nuovo giornale «Il Regno», e qui trasferisce la sua aspirazione
- fino a quel punto innocua - al dominio intellettuale e spirituale. Si prepara
per lui una crisi politico-religiosa violenta, con tratti di delirio psicotico:
sente voci che lo spingono a tramutarsi da genio in santo e finalmente in uomo
«perfetto». Rischia di impazzire, si ritira in montagna in attesa della
rivelazione finale.
Come insegna ogni buon manuale di psichiatria, alla fase maniacale segue
necessariamente una fase depressiva: da quella montagna l'autore scende
completamente svuotato; si ammala, si isola dagli amici, cambia città. Soffre di
riconoscersi ignorante, superficiale, egoista e velleitario... lo tormenta un
dubbio: «e se fossi un imbecille?». Sappiamo che durante quel soggiorno in
montagna Papini conobbe e sposò nel giro di pochi giorni una bellissima ragazza
di famiglia contadina, da cui ebbe due figlie e varie nipoti autrici di
innumerevoli libri di memorie. Ma l'autore tace questi dettagli prosaici e
necessariamente ottimisti; egli è ormai preda di una vertigine autodistruttiva -
e di profetismo iettatorio - che lo spinge a invocare su di sé tutti i mali e le
sventure possibili - morte dei più vicini familiari, cecità e paralisi
progressiva -, pur di cancellare la borghese mediocrità in cui la sua anima
langue.
Un'epigrafe goethiana, «Finché sarà giorno resteremo a testa alta», introduce il
tempo allegretto dell'equilibrio riconquistato e di una nuova, teatrale,
proposta di se stesso: «son qualcuno, rappresento qualcosa, ho un passato e avrò
a tutti i costi un avvenire». Niente viene rifiutato dell'esperienza trascorsa
anche se, con accenti nietzschiani, l'eroe riconosce che «tutte le tavole dei
valori si sono spezzate in questi interni scontorcimenti». Il ritratto che
Papini consegna alle nuove generazioni è quello del nichilista perfetto, che
lavora per ciò che sarà disfatto sapendo che sarà disfatto: è l'uomo che non
accetta il mondo, l'eterno distruttore, il poeta che scrive per sfogarsi e non
ha paura delle parole nude, brutali.
Ormai appare evidente che, nelle intenzioni esplicite del suo autore, Un uomo
finito non dovrebbe essere letto come un libro di ricordi né come storia di una
generazione («Troppe memorie, troppe nostalgie!... quel che importa qua dentro è
la storia di un'anima, la storia dell'anima mia»), ma sarebbe arbitrario
considerarlo una confessione personale, intima. L'io di Papini è tanto
strabordante e la sua voce così enfatica perché egli è convinto di essere
Everyman, ognuno di noi, e la vicenda della sua formazione intellettuale e
morale vuol proporsi "ai giovani" come un modello metastorico, esemplare. Questa
dimensione allegorica, dominante nella patte finale del libro, appare oggi
tristemente invecchiata.
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