Luigi
De Bellis

 


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Moscardino

 
 

 

 
 

 

 
 

 

 

 





Enrico Pea



MOSCARDINO: Romanzo


È il primo romanzo di Pea e fa parte di una quadrilogia che ricostruisce la drammatica preistoria della famiglia, l'infanzia maremmana dell'autore e la sua avventurosa giovinezza in Egitto. L'originalità di questa prova narrativa non passò inosservata: Italo Svevo la segnalò a Benjamin Crémieux in una lettera del 15 marzo 1927 come «un libro veramente strano e mirabile. Certe sue pagine sono di una forza e di un'evidenza che fanno invidia». Moscardino, Il Volto Santo (1924), Il servitore del diavolo (1929) e Macoometto (1942) furono ripubblicati a Milano nel 1944, con un titolo complessivo: Il romanzo di Moscardino.

Il titolo del romanzo è il soprannome (piccolo mollusco o topolino) del narratore bambino, che vive - morto il padre, la madre a servizio in città - con il vecchio nonno in un podere della Lucchesia. L'unico indizio temporale nella storia è la partecipazione del nonno, diciassettenne, alla guerra del 1848 contro gli austriaci. Moscardino è diviso in tre capitoli, privi di titoli, intrecciati in modo che le immagini d'apertura ritornano spontaneamente alla fine dell'ultimo capitolo, dando al racconto una struttura circolare e autorizzando l'interpretazione à rebours dell'intero romanzo.
Non si tratta di un'autobiografia con intreccio più o meno ordinato di memorie personali: è piuttosto un tuffo nella preistoria fantastica della famiglia, popolato di simboli che hanno la pregnanza del mito e l'ingenuità delle favole paesane. Senza tradire la natura antiletteraria dell'immaginazione di Pea, e salvando quella mobilità del punto di vista che costituisce il fascino del suo stile, possiamo ricostruire le vicende del romanzo a partire dal capitolo finale, dove il nonno racconta la sua «vita sciupata» al nipotino come un «errare di sogno in sogno... per paesi diversi». La traccia di quei racconti, sedimentata nell'inconscio del bambino e apparentemente priva di elaborazione psicologica "adulta", è il materiale del romanzo. I suoi temi dunque, per quanto costretti nell'eterno imperfetto della forma narrativa, conservano la vitalità, la violenza a volte urtante, le lacune e la pregnanza simbolica degli strati profondi della coscienza da cui irrompono.

All'inizio c'è la figura della bisnonna, la «signora Pellegrina», ricca e di nobile origine, che alla morte del marito si mura viva nel silenzio di una stanza polverosa e senz'aria. I tre figli adulti sono soli nella casa muta, tristissima: il maggiore, il Taciturno, ossessionato dal timore della follia, finirà per impiccarsi dopo un matrimonio umiliante; Lorenzo, destinato al sacerdozio ma cacciato dal seminario, patetico nel suo bisogno di affetto e calore umano; e, ultimogenito, il nonno del narratore, dal carattere violento e avventuroso. L'amore, negato dalla madre-donna ostinatamente chiusa nel suo lutto, appare con Cleofe, la giovane serva scesa da un paesino di montagna: «pareva che su quel viso chiaro non fosse mai passata l'ombra, e che quegli occhi non avessero mai pianto». Su di lei si fissa il desiderio violento del figlio più giovane. Egli la possiede in una breve scena - dove il sesso e la morte rivelano la loro equivalenza simbolica -, la sposa e la tiranneggia in un'alternanza di passione e di morbosa gelosia: «Cleofe si trovò tra le braccia di mio nonno, similmente all'uccello che va volontario in bocca del serpente incantatore, e non vorrebbe e piange, ma ha perso la memoria e non si ricorda più di aver l'ali ».

Nel secondo capitolo i due fratelli maggiori sono cacciati di casa, per gelosia. Vivono nel cortile, dove il pozzo plumbeo riflette volti intrecciati e confusi, e i grandi vasi a mascheroni, tinti di cinabro, sgocciolano acqua rossa come sangue. Cleofe, dopo la nascita di una bambina, la futura madre di Moscardino, si ammala di tisi: è la donna-madre che attira i desideri inespressi dei due cognati inselvatichiti, portando una traccia di calore umano nella casa morta. Ma il nonno non sopporta la presenza di nessuno vicino a lei, nemmeno del medico e, in un attacco di gelosia folle, si squarcia il ventre con un coltello: viene dunque portato in ospedale a Lucca e internato in manicomio. La madre, «scheletro vivo», chiamata a dare un ultimo saluto al figlio ferito, si getta invece dalla finestra. I suoi funerali sono narrati attraverso le immagini deliranti dei due figli superstiti: «la notte appoggia il suo ventre peloso alle finestre... fuori tutto è nero, nella stanza tutto è nero».
La famiglia cade sotto la tutela di un vecchio prete bigotto, che amministra i beni rimasti e si premura di ammogliare il Taciturno con Sabina, la perpetua, altra figura di donna che simula, per attrarre l'uomo assetato d'affetto, gesti materni. Passa così l'invernata rigidissima in cui rami d'albero, foglie secche, uccelli restano imprigionati nel ghiaccio e l'acqua dei fiumi sembra soffrire per la mancanza d'aria. Cleofe viene mandata al mare; le chiare immagini della spiaggia versiliana, popolata di gabbiani, lavandaie e pescatori di arselle, si chiudono sulla figura della malata «accoccolata sulla sabbia sotto l'ombrello nero da acqua: poca ombra, assai per lei che non sente il caldo del sole già alto».

La vita di Moscardino con il nonno, nella casetta contadina, è un'educazione cruda alla vita. I racconti del vecchio, i pazzi di cui è diventato amico e che l'hanno aiutato a guarire, lo scherzo paradossale e crudele che infligge al vicino, popolano l'immaginazione del fanciullo di presenze reali, vicinissime, capaci di riversarsi con immutata potenza fantastica nelle pagine del romanzo: così il galletto bianco senza artigli si trasforma nell'animale psicopompo di tutte le mitologie religiose, e le povere donne rinchiuse urlano il loro dolore come bufale mugghianti nelle paludi della Maremma. Negli ultimi ricordi del nonno i malati del manicomio di Lucca si mescolano ai personaggi della storia familiare: il Taciturno s'impicca, Cleofe muore a poco a poco, e la sua bambina, vestita da orfanella, viene riconsegnata al padre ormai guarito.
Il primo volume della quadrilogia fu tradotto in inglese da Ezra Pound.

 

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