Luigi
De Bellis

 


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Poesie

 
     
     
     
     

 





Sandro Penna



POESIE


In questa raccolta, che comprende quasi tutte le poesie di Penna, la scansione cronologica ha scarso rilievo, e appare quasi impossibile individuare una qualsiasi linea evolutiva. Secondo Pier Vincenzo Mengaldo, si tratta di un caso unico nel Novecento di compattezza stilistica e di monotematicità assoluta, come l'autore stesso così sintetizza nell'ultimo verso dell'ultima lirica del libro: «Ricordati di me dio dell'amore», dove è più che legittimo leggere in entrambi i sensi (definizione di sé e invocazione) il doppio genitivo.

Poesia d'amore, dunque, che, rinunciando programmaticamente a qualsiasi tentazione di comporre un canzoniere, ripete all'infinito le ragioni della sua ispirazione rispettando, con coerenza e rigore, l'assunto della sua totale estraneità alla storia. Forse per questo ricorrono con tanta frequenza immagini eli sonno e sogno, come se la vita fosse possibile solo a patto di rimanere in una zona d'incertezza, in bilico tra smemoratezza e regressione: «Io vivere vorrei addormentato / entro il dolce rumore della vita». Al contrario, i numerosi treni (e sale d'aspetto) hanno il compito di lasciar vibrare lo sfondo di una cancellazione, l'incombere di un flusso irrefrenato e rapinoso, come il sospetto del pericolo nelle pagine delle fiabe, anche se soffuso di melanconia: «I rauchi treni implorano alle stelle / e riaccendono volti nel mio cuore»; «Al primo soffio dell'autunno il treno / gaio alleato parla di lontano».
Ma niente in queste poesie allude a una pur minima denigrazione del tempo storico, a qualche fatale delusione, a una sprezzante forma di stoicismo. Più che respinta, la storia viene ignorata. E della natura stessa rimane ben poco oltre il desiderio, al punto che anche l'ossessiva presenza del tema erotico, nella dimensione esclusiva dell'amore per i fanciulli, fa nascere il sospetto di una deliberata scelta di ciò che, acerbo e non sfigurato dal tempo, si sottrae al destino. Da qui i caratteri più scopertamente classici delle poesie: la brevità epigrammatica, le raffinate cesellature d'immagini, l'arte della variazione come l'essenza più sicura del lavoro poetico.

Al cuore della poetica di Penna c'è l'innocenza («Amore, amore, / lieto disonore»), reclamata come un privilegio «Ei, nell'età gentile, ha il cuore vago. / E a me certo non pensa. Ma innocenti / peccati in mela pioggia riaccende»), giustificata dalla sua stessa disarmante e incorrotta forza: «Leggera piomba sul bene e sul male / la loro dolce fretta di godere». Per tradurre in dettato poetico il desiderio, il poeta deve registrare ogni minimo dettaglio delle circostanze, e il catalogo dei dettagli è la storia di questa poesia, in cui la bravura trasfigura ogni cosa, anche la più squallida: «Nel fresco orinatoio alla stazione / sono disceso dalla collina ardente. / Sulla mia pelle polvere e sudore / m'inebbriano. Negli occhi ancora canta / il sole. Anima e corpo ora abbandono / fra la lucida bianca porcellana».
Come tutti i poeti alessandrini, Penna ama descrivere la passione d'amore al culmine della sessualità, tralasciando ogni elemento che possa confortare una visione meno fisica, sentimentale o morale che sia. Anche il lamento d'amore, momento canonico della letteratura erotica, viene messo da parte con una disinvoltura quasi sospetta: «Arso completamente dalla vita / io vivo in essa felice e dissolto. / La mia pena d'amore non ascolto / più di quanto non curi la ferita». Raramente il dolore affiora in questi versi sempre tesi a ricreare l'intensità dell'emozione, e quando questo accade si tratta più di un
lieve presagio che di una presenza reale: «Deserto è il fiume. E tu lo sai che basta / ora con le solari prodezze di ieri. / Bacio nelle tue ascelle, umidi, fieri, / gli odori di un'estate che si guasta».

l'e occasioni e i minimi scarti sono le uniche forme dell'epica amorosa. Assente la morte (tra le pochissime occorrenze della parola, questa indica solo un dispetto, l'avara parsimonia dell'inesperienza: «Sole con luna, mare con foreste, / tutt'insieme baciare in una bocca. // Ma il ragazzo non sa. Corre a una porta / di triste luce. E la sua bocca è morta»), il rischio di questa poesia è di cedere alla tentazione di un fatuo bozzettismo, di idilli fragili e stremati. Ma quasi sempre se ne salva con un guizzo, un'accensione o una piroetta, che ricordano da vicino le canzonette dì Verlaine o di Saba: «Assonnati garzoni, i miei calzoni / sono pieni di amore e di polvere bianca. / La strada che mi stanca vi addormenta, / assonnati garzoni odorosi di menta». E anche là dove, come accade soprattutto nelle prime poesie, il verso corre allegramente lungo rime un po' facili, il tocco di un'arte consumata lo riscatta con una pronta trasfigurazione dal sapore mitico, di classica eleganza: «Era fermo per me. Ma senza stile / forse baciai quelle sue labbra rosse. / Improvviso e leggero egli si mosse / come si muove il vento entro l'aprile».

Nelle ultime composizioni i colori, sempre vivissimi in Penna, si attenuano (come nelle opere della vecchiaia dei grandi pittori), e anche se nulla muta nel suo atteggiamento, pagano e indifferente, nei confronti della vita, sembra quasi disporsi a una resa presentita e accettata con un velo di amara ironia, di postumo rimprovero verso la moralità degli altri: «Come è bello la sera d'estate / in un caffè all'aperto chiacchierare, / o meglio ancora con qualche languore / beatamente ascoltare / In tutto questo non è disonore».

Assente o quasi dai grandi movimenti letterari e culturali del Novecento, dalle polemiche piccole e grandi, da ogni clamore della scena pubblica, Penna sembra ignorare il destino della poesia italiana ed europea del suo secolo: «ci sono poeti inamovibili dall'antichità, così fedeli alla tradizione. Penna è poeta di questa razza; poeta di registro linguistico piccolo-borghese, dannunziano e pascoliano» (Cesare Garboli). I critici più attenti hanno colto la giusta misura con cui il poeta non laureato (lui si) riesce nel difficile accordo di toni alti e bassi, croce secolare della nostra lirica: «E' un linguaggio insieme letterario e nobilmente popolare, in cui quella fusione e neutralizzazione dell'aulico col quotidiano e viceversa è raggiunta d'acchito, con la più spontanea naturalezza» (Pier Vincenzo Mengaldo). Sul piano di una definizione morale di questa poesia così apparentemente spensierata, il giudizio più sintetico e illuminante rimane quello di Pier Paolo Pasolini, che a Penna ha dedicato pagine molto acute: «Per Penna la libertà, la gioia sono state una scoperta, una novità che sembrano avergli sconvolto la vita».

 

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