In questa raccolta, che comprende quasi tutte le poesie di Penna, la scansione
cronologica ha scarso rilievo, e appare quasi impossibile individuare una
qualsiasi linea evolutiva. Secondo Pier Vincenzo Mengaldo, si tratta di un caso
unico nel Novecento di compattezza stilistica e di monotematicità assoluta, come
l'autore stesso così sintetizza nell'ultimo verso dell'ultima lirica del libro:
«Ricordati di me dio dell'amore», dove è più che legittimo leggere in entrambi i
sensi (definizione di sé e invocazione) il doppio genitivo.
Poesia d'amore, dunque, che, rinunciando programmaticamente a qualsiasi
tentazione di comporre un canzoniere, ripete all'infinito le ragioni della sua
ispirazione rispettando, con coerenza e rigore, l'assunto della sua totale
estraneità alla storia. Forse per questo ricorrono con tanta frequenza immagini
eli sonno e sogno, come se la vita fosse possibile solo a patto di rimanere in
una zona d'incertezza, in bilico tra smemoratezza e regressione: «Io vivere
vorrei addormentato / entro il dolce rumore della vita». Al contrario, i
numerosi treni (e sale d'aspetto) hanno il compito di lasciar vibrare lo sfondo
di una cancellazione, l'incombere di un flusso irrefrenato e rapinoso, come il
sospetto del pericolo nelle pagine delle fiabe, anche se soffuso di melanconia:
«I rauchi treni implorano alle stelle / e riaccendono volti nel mio cuore»; «Al
primo soffio dell'autunno il treno / gaio alleato parla di lontano».
Ma niente in queste poesie allude a una pur minima denigrazione del tempo
storico, a qualche fatale delusione, a una sprezzante forma di stoicismo. Più
che respinta, la storia viene ignorata. E della natura stessa rimane ben poco
oltre il desiderio, al punto che anche l'ossessiva presenza del tema erotico,
nella dimensione esclusiva dell'amore per i fanciulli, fa nascere il sospetto di
una deliberata scelta di ciò che, acerbo e non sfigurato dal tempo, si sottrae
al destino. Da qui i caratteri più scopertamente classici delle poesie: la
brevità epigrammatica, le raffinate cesellature d'immagini, l'arte della
variazione come l'essenza più sicura del lavoro poetico.
Al cuore della poetica di Penna c'è l'innocenza («Amore, amore, / lieto
disonore»), reclamata come un privilegio «Ei, nell'età gentile, ha il cuore
vago. / E a me certo non pensa. Ma innocenti / peccati in mela pioggia
riaccende»), giustificata dalla sua stessa disarmante e incorrotta forza:
«Leggera piomba sul bene e sul male / la loro dolce fretta di godere». Per
tradurre in dettato poetico il desiderio, il poeta deve registrare ogni minimo
dettaglio delle circostanze, e il catalogo dei dettagli è la storia di questa
poesia, in cui la bravura trasfigura ogni cosa, anche la più squallida: «Nel
fresco orinatoio alla stazione / sono disceso dalla collina ardente. / Sulla mia
pelle polvere e sudore / m'inebbriano. Negli occhi ancora canta / il sole. Anima
e corpo ora abbandono / fra la lucida bianca porcellana».
Come tutti i poeti alessandrini, Penna ama descrivere la passione d'amore al
culmine della sessualità, tralasciando ogni elemento che possa confortare una
visione meno fisica, sentimentale o morale che sia. Anche il lamento d'amore,
momento canonico della letteratura erotica, viene messo da parte con una
disinvoltura quasi sospetta: «Arso completamente dalla vita / io vivo in essa
felice e dissolto. / La mia pena d'amore non ascolto / più di quanto non curi la
ferita». Raramente il dolore affiora in questi versi sempre tesi a ricreare
l'intensità dell'emozione, e quando questo accade si tratta più di un
lieve presagio che di una presenza reale: «Deserto è il fiume. E tu lo sai che
basta / ora con le solari prodezze di ieri. / Bacio nelle tue ascelle, umidi,
fieri, / gli odori di un'estate che si guasta».
l'e occasioni e i minimi scarti sono le uniche forme dell'epica amorosa. Assente
la morte (tra le pochissime occorrenze della parola, questa indica solo un
dispetto, l'avara parsimonia dell'inesperienza: «Sole con luna, mare con
foreste, / tutt'insieme baciare in una bocca. // Ma il ragazzo non sa. Corre a
una porta / di triste luce. E la sua bocca è morta»), il rischio di questa
poesia è di cedere alla tentazione di un fatuo bozzettismo, di idilli fragili e
stremati. Ma quasi sempre se ne salva con un guizzo, un'accensione o una
piroetta, che ricordano da vicino le canzonette dì Verlaine o di Saba:
«Assonnati garzoni, i miei calzoni / sono pieni di amore e di polvere bianca. /
La strada che mi stanca vi addormenta, / assonnati garzoni odorosi di menta». E
anche là dove, come accade soprattutto nelle prime poesie, il verso corre
allegramente lungo rime un po' facili, il tocco di un'arte consumata lo riscatta
con una pronta trasfigurazione dal sapore mitico, di classica eleganza: «Era
fermo per me. Ma senza stile / forse baciai quelle sue labbra rosse. /
Improvviso e leggero egli si mosse / come si muove il vento entro l'aprile».
Nelle ultime composizioni i colori, sempre vivissimi in Penna, si attenuano
(come nelle opere della vecchiaia dei grandi pittori), e anche se nulla muta nel
suo atteggiamento, pagano e indifferente, nei confronti della vita, sembra quasi
disporsi a una resa presentita e accettata con un velo di amara ironia, di
postumo rimprovero verso la moralità degli altri: «Come è bello la sera d'estate
/ in un caffè all'aperto chiacchierare, / o meglio ancora con qualche languore /
beatamente ascoltare / In tutto questo non è disonore».
Assente o quasi dai grandi movimenti letterari e culturali del Novecento, dalle
polemiche piccole e grandi, da ogni clamore della scena pubblica, Penna sembra
ignorare il destino della poesia italiana ed europea del suo secolo: «ci sono
poeti inamovibili dall'antichità, così fedeli alla tradizione. Penna è poeta di
questa razza; poeta di registro linguistico piccolo-borghese, dannunziano e
pascoliano» (Cesare Garboli). I critici più attenti hanno colto la giusta misura
con cui il poeta non laureato (lui si) riesce nel difficile accordo di toni alti
e bassi, croce secolare della nostra lirica: «E' un linguaggio insieme
letterario e nobilmente popolare, in cui quella fusione e neutralizzazione
dell'aulico col quotidiano e viceversa è raggiunta d'acchito, con la più
spontanea naturalezza» (Pier Vincenzo Mengaldo). Sul piano di una definizione
morale di questa poesia così apparentemente spensierata, il giudizio più
sintetico e illuminante rimane quello di Pier Paolo Pasolini, che a Penna ha
dedicato pagine molto acute: «Per Penna la libertà, la gioia sono state una
scoperta, una novità che sembrano avergli sconvolto la vita».
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