Uscito nella collana «I Diamanti», ha avuto una successiva edizione accresciuta
di tre nuovi brani (Pavana per urna via defunta, Palazzo Primoli, Venti anni
dopo).
Il libro, strutturato come un lungo ed elaborato racconto autobiografico, diviso
in un prologo («Via Giulia») e sette parti, ciascuna dedicata a un locale
dell'appartamento («L'ingresso» «La camera da pranzo», «Camera da letto su
Piazza Ricci», «Saletta di passaggio», «Camera di Lucia», «Il salone», «Il
boudoir»), è la storia della casa-museo di Palazzo Ricci in via Giulia,
residenza romana di Praz dal 1934 al 1969.
Concepito come un sussidio minuzioso ed erudito per il visitatore e affidato
alla prima persona del narratore, il testo assume la dimensione di un vero e
proprio viaggio nella memoria, in cui la storia dei singoli oggetti
d'arredamento si intreccia con il ricordo delle vicende personali dell'autore.
Appassionato ed esperto collezionista di mobili in Stile Impero, Praz compie un
«giro per la casa», offrendo una seducente lettura e descrizione di ciascun
oggetto e arredamento antico: un significativo itinerario della memoria
attraverso opere d'arte, nelle quali si incarna il vissuto interiore. Si tratta
di una rievocazione, di volta in volta storica, letteraria, artistica, sotto il
segno del rigore documentaristico e del rimando erudito, che prende corpo in un
affiorare di storie, di atmosfere, di presenze raffinate e consunte dal tempo.
Attraverso mobili, quadri, emblemi, medaglie, statue, busti, porcellane, marmi,
ventagli, cere, bambole, libri, calie, armi, fiale, candelabri, bruciaprofumi,
specchi, baldacchini, miniature, tappeti, una, realtà della memoria mostra la
sua anima più nascosta e segreta, il proprio spirito "araldico", la propria
condensazione storica e culturale.
Il taglio ampio e meditato delle notazioni letterarie e delle allusioni
libresche, le ricostruzioni erudite, le testimonianze storiche, i capitoli e le
divagazioni enciclopediche finiscono per cedere alle lusinghe del passato, alle
suggestioni del tempo perduto. Infoltito di aneddoti dell'infanzia, di ricordi
amorosi, di vaghi indizi della vita passata in Inghilterra, di ritratti di amici
o poeti e scrittori, delle memorie dolorose della I guerra, il libro è un
dialogo protratto e inesauribile dello scrittore con se stesso, una messa a
fuoco della propria esistenza trascorsa, ma anche un'analisi delle proprie manie
e debolezze di uomo: «lo sono purtroppo di quei temperamenti pigri nelle
relazioni umane, troppo contenti di take far granted, di considerare fissato una
volta per sempre quel che vuol essere per altri la conquista d'ogni giorno, il
difficile equilibrio di forze vive, in moto continuo. Per questo, forse, io ho
messo tanto della mia anima nel culto di cose che ai più appaiono prive di vita,
come i mobili».
In questa prospettiva, si comprende l'insistenza di Praz nel ribadire il
comportamento psicologico del collezionista: «In me i miei non molti interessi
tendono alla mania: mania per il mobilio Impero, mania per le statuette di santi
e le bambole, e da ragazzo mania per i francobolli: ma non starò qui a far la
psicologia del collezionista, argomento già trattato da altri. Sottoposta alla
psicanalisi, la figura del collezionista non ne esce bene, e dal punto di vista
etico c'è certamente in lui qualcosa di profondamente egoistico e limitato, di
gretto addirittura». Il collezionista è irretito nella tensione e nel desiderio
dell'accumulo, cadendo ogni volta in una voragine che attrae ipnoticamente e
alla quale è impossibile sottrarsi: «fino a che punto sono io il protagonista, e
fino a che punto, per converso, sono io il succube delle cose, l'apprenti
sorcier che non sa più controllare l'ambiente?».
L'autore stesso confessa una sorta di ritegno a dissolvere lo strato di polvere
che si è venuto deponendo sulla propria vita, ad alterare un equilibrio ormai
raggiunto nel sopore delle cose: «Forse per me la vita era un cold pastoral, una
gelida ecloga che non mi stancavo mai di sentire ripetere, un carillon in una
scatola Impero m'incantano gli specchi e le immagini riflesse negli specchi che
son già allontanate un po' dalla vita, già rese quadro, grazie a quella gelida
ecloga di cristallo che le separa come la parete trasparente d'un acquario
separa dalla vita ordinaria quel mondo di silenziose creature». Di qui, nelle
pagine finali del libro, il senso ultimo di nostalgia e di rimpianto, la sottile
inquietudine di questa commistione tra passato e presente, tra morti e vivi, tra
memorie familiari ed elementi di alterità, che accompagnano un fatale senso di
precarietà: «mi vedo divenuto oggetto e rappresentazione io stesso, pezzo da
museo tra pezzi da museo, già distaccato e lontano, che come Adamo sul pavimento
di marmo graffito della chiesa di San Domenico a Siena, mi son guardato in uno
specchio "ardente" convesso, e mi son visto non più grande d'un pugno di
polvere».
Celebrazione erudita e amorosa dei tesori artistici della «casa della vita»,
l'opera è un ritratto culturale dell'autore e, al tempo stesso, uno sguardo
panoramico sui gusti e le tendenze del mondo artistico e letterario europeo del
secondo dopoguerra. Essa rivela un interesse autentico e maniacale per le forme
di espressione artistica rare e stravaganti e ha un generale intento apologetico
nei riguardi delle arti applicate. La prosa aulica, di derivazione colta e
libresca, si snoda attraverso indugi descrittivi, sapienti divagazioni e soste
memorialistiche.
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