L'opera, stesa negli ultimi quattro anni di vita dell'autore, è stata pubblicata
postuma, riedita negli «Adelphi» nel 1990, ed è giunta nel 1999 alla sua quinta
ristampa. Il progetto originario prevedeva due ampie parti: la prima,
organizzata in ventidue capitoli, è compiuta; la seconda conta appena una
pagina. Non per questo la narrazione, in larga misura autobiografica, può dirsi
incompleta, dal momento che non è prevista alcuna conclusione. L'autore non si
appresta a compiere un bilancio provvisorio della propria esistenza: la sua è
una resa dei conti definitiva condotta con l'ottica di chi sta per prendere
congedo dalla vita. Non è contemplato perciò sviluppo alcuno, se non la presa di
coscienza di una catastrofe generalizzata: in ogni pagina l'umanità appare
immersa in un clima di apocalisse permanente, che nulla di fiducioso può
concedere al futuro.
Disposte lungo l'arco di un cinquantennio - dalla fine dell'Ottocento alla metà
del secolo successivo - le vicissitudini della famiglia Sanna Carboni, notabili
di Nuoro, s'intrecciano alle vicende della cittadina, immersa in un'arretratezza
atavica, indifferente persino all'arrivo della luce elettrica. È una vita di
patimenti e di incomprensioni che non risparmia nessuno. Il capofamiglia, il
notaio don Sebastiano, fallito nel suo ruolo di sposo e di padre; i figli - tra
cui, in posizione defilata, c'è anche il narratore - variamente segnati dalla
guerra e dall'ambiente asfittico in cui vivono; infine, donna Vincenza, la
madre, inchiodata dalla malattia al suo seggiolone, costretta a subire la
noncuranza e il distacco dei familiari: «Tu stai al mondo perché c'è posto» è
l'ossessivo intercalare del marito. Non diverso è il clima che avvolge la
comunità nuorese: un'umanità smarrita e miserabile, priva di senso della
solidarietà, travolta da istinti e passioni cieche alle quali non può non
obbedire. A occupare le pagine è la meschinità dei maestri di scuola, l'invidia
che rode il misero prete Porcu, l'invasamento religioso di Gonaria per il
fratello diacono, il socialismo rancoroso di don Ricciotti, il mito del
"continente" che ucciderà lo sprovveduto Pietro Catte. Tuttavia, ogni
personaggio, già in sé perfettamente individuato, acquista rilievo in rapporto
con gli altri giacché nessuno, pur nella sua misantropia, può fare a meno del
prossimo. In tale mondo i luoghi d'incontro non mancano: la chiesa, la famiglia,
il caffè, la piazza; ma protagonisti e comprimari si prestano a riti e
consuetudini sociali rinserrati nella loro fissità monomaniaca, e così la vita
associata non diventa altro che un affollato raduno di solitudini.
Ciononostante, in aperta contraddizione con il titolo, in questo «nido di
corvi», metafora della condizione umana, nessuno viene giudicato secondo criteri
di merito e di colpa, perché, per Satta, la vita corrisponde a un'ineluttabile
fatalità. Tutti colpevoli, e perciò tutti innocenti, i personaggi appartengono
ormai a un passato remoto e dimorano nel cimitero. Lì è andato a ritrovarli, a
distanza di un lustro, il narratore, rientrato in Sardegna per «riunire i due
monconi» della sua vicenda umana - il periodo isolano, coincidente con
l'infanzia, e quello continentale della maturità -, nel tentativo di dare un
senso alla propria esistenza.
Simile a un «ridicolo dio» , destituito di ogni facoltà giudicatrice egli ha
richiamato in vita quel mondo perché «bisogna svolgere la propria vita fino in
fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna ci sia
uno che ti raccolga, ti resusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in
un giudizio finale». Lo scopo non è un'assoluzione o una condanna, ma la
liberazione dalla memoria del dolore che si è patito in vita, incancellabile
persino dalla morte. E' quanto l'autore ritiene di fare con se stesso e con i
suoi personaggi, senza rendersi conto, se non troppo tardi, dei pericoli cui va
incontro. Infatti, il distacco ostentato nella prima parte del romanzo, allorché
si occupava di vicende che sembravano ormai concluse, diventa a poco a poco
angosciata partecipazione, dal momento che è ormai chiaro per il narratore che
«non si tratta più della loro vita, ma della mia». Solo allora si accorgerà del
rischio, ormai inevitabile, di eternare tanto amarezza proprio cercando di
redimerla sulla pagina scritta. Il giorno del giudizio si conclude così con una
complessa celebrazione dell'attività letteraria: l'atto dello scrivere denuncia
la sua profonda ambiguità, poiché offre un compenso che è anche una condanna.
La comparsa del Giorno del giudizio venne salutata come un vero e proprio "caso
letterario", per la professione dell'autore (insigne giurista e non scrittore di
mestiere) e, soprattutto, per la sua recente scomparsa; ma non fu il fascino
macabro del postumo a decretarne l'immediata fortuna. Colpì, in particolar modo,
la sapiente struttura dell'opera, in equilibrio tra il romanzo saggio e la saga
familiare, o, per una più recente definizione, di «romanzo del ritorno alle
origini» (Spinazzola). Unanime fu il riconoscimento dell'abilità del romanziere
nel proiettare le vicende del microcosmo nuorese su un orizzonte storico,
sociale ed esistenziale assai più vasto. Così per esempio, Maria Corti parla di
«mirabile libro, cronaca-romanzo costruito su più livelli. Nella Sardegna di
Salvatore Satta si scopre come sia impossibile per uomini così detti semplici la
semplicità della vita: uomini e cose assumono una luce strana, ora tristemente
fabulosa, ora epica, ora fantomatica».
Il successo del libro, tradotto in seguito in tutte le maggiori lingue, favorì
la pubblicazione delle altre due opere narrative di Satta: La veranda, un
manoscritto degli anni Venti (1981) e De profundis (1980).
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