Luigi
De Bellis

 


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Il giorno del giudizio

 
 

 

 
 

 

 
     
     

 





Salvatore Satta



IL GIORNO DEL GIUDIZIO: Romanzo


L'opera, stesa negli ultimi quattro anni di vita dell'autore, è stata pubblicata postuma, riedita negli «Adelphi» nel 1990, ed è giunta nel 1999 alla sua quinta ristampa. Il progetto originario prevedeva due ampie parti: la prima, organizzata in ventidue capitoli, è compiuta; la seconda conta appena una pagina. Non per questo la narrazione, in larga misura autobiografica, può dirsi incompleta, dal momento che non è prevista alcuna conclusione. L'autore non si appresta a compiere un bilancio provvisorio della propria esistenza: la sua è una resa dei conti definitiva condotta con l'ottica di chi sta per prendere congedo dalla vita. Non è contemplato perciò sviluppo alcuno, se non la presa di coscienza di una catastrofe generalizzata: in ogni pagina l'umanità appare immersa in un clima di apocalisse permanente, che nulla di fiducioso può concedere al futuro.

Disposte lungo l'arco di un cinquantennio - dalla fine dell'Ottocento alla metà del secolo successivo - le vicissitudini della famiglia Sanna Carboni, notabili di Nuoro, s'intrecciano alle vicende della cittadina, immersa in un'arretratezza atavica, indifferente persino all'arrivo della luce elettrica. È una vita di patimenti e di incomprensioni che non risparmia nessuno. Il capofamiglia, il notaio don Sebastiano, fallito nel suo ruolo di sposo e di padre; i figli - tra cui, in posizione defilata, c'è anche il narratore - variamente segnati dalla guerra e dall'ambiente asfittico in cui vivono; infine, donna Vincenza, la madre, inchiodata dalla malattia al suo seggiolone, costretta a subire la noncuranza e il distacco dei familiari: «Tu stai al mondo perché c'è posto» è l'ossessivo intercalare del marito. Non diverso è il clima che avvolge la comunità nuorese: un'umanità smarrita e miserabile, priva di senso della solidarietà, travolta da istinti e passioni cieche alle quali non può non obbedire. A occupare le pagine è la meschinità dei maestri di scuola, l'invidia che rode il misero prete Porcu, l'invasamento religioso di Gonaria per il fratello diacono, il socialismo rancoroso di don Ricciotti, il mito del "continente" che ucciderà lo sprovveduto Pietro Catte. Tuttavia, ogni personaggio, già in sé perfettamente individuato, acquista rilievo in rapporto con gli altri giacché nessuno, pur nella sua misantropia, può fare a meno del prossimo. In tale mondo i luoghi d'incontro non mancano: la chiesa, la famiglia, il caffè, la piazza; ma protagonisti e comprimari si prestano a riti e consuetudini sociali rinserrati nella loro fissità monomaniaca, e così la vita associata non diventa altro che un affollato raduno di solitudini. Ciononostante, in aperta contraddizione con il titolo, in questo «nido di corvi», metafora della condizione umana, nessuno viene giudicato secondo criteri di merito e di colpa, perché, per Satta, la vita corrisponde a un'ineluttabile fatalità. Tutti colpevoli, e perciò tutti innocenti, i personaggi appartengono ormai a un passato remoto e dimorano nel cimitero. Lì è andato a ritrovarli, a distanza di un lustro, il narratore, rientrato in Sardegna per «riunire i due monconi» della sua vicenda umana - il periodo isolano, coincidente con l'infanzia, e quello continentale della maturità -, nel tentativo di dare un senso alla propria esistenza.
Simile a un «ridicolo dio» , destituito di ogni facoltà giudicatrice egli ha richiamato in vita quel mondo perché «bisogna svolgere la propria vita fino in fondo, fino al momento in cui si cala nella fossa. E anche allora bisogna ci sia uno che ti raccolga, ti resusciti, ti racconti a te stesso e agli altri come in un giudizio finale». Lo scopo non è un'assoluzione o una condanna, ma la liberazione dalla memoria del dolore che si è patito in vita, incancellabile persino dalla morte. E' quanto l'autore ritiene di fare con se stesso e con i suoi personaggi, senza rendersi conto, se non troppo tardi, dei pericoli cui va incontro. Infatti, il distacco ostentato nella prima parte del romanzo, allorché si occupava di vicende che sembravano ormai concluse, diventa a poco a poco angosciata partecipazione, dal momento che è ormai chiaro per il narratore che «non si tratta più della loro vita, ma della mia». Solo allora si accorgerà del rischio, ormai inevitabile, di eternare tanto amarezza proprio cercando di redimerla sulla pagina scritta. Il giorno del giudizio si conclude così con una complessa celebrazione dell'attività letteraria: l'atto dello scrivere denuncia la sua profonda ambiguità, poiché offre un compenso che è anche una condanna.

La comparsa del Giorno del giudizio venne salutata come un vero e proprio "caso letterario", per la professione dell'autore (insigne giurista e non scrittore di mestiere) e, soprattutto, per la sua recente scomparsa; ma non fu il fascino macabro del postumo a decretarne l'immediata fortuna. Colpì, in particolar modo, la sapiente struttura dell'opera, in equilibrio tra il romanzo saggio e la saga familiare, o, per una più recente definizione, di «romanzo del ritorno alle origini» (Spinazzola). Unanime fu il riconoscimento dell'abilità del romanziere nel proiettare le vicende del microcosmo nuorese su un orizzonte storico, sociale ed esistenziale assai più vasto. Così per esempio, Maria Corti parla di «mirabile libro, cronaca-romanzo costruito su più livelli. Nella Sardegna di Salvatore Satta si scopre come sia impossibile per uomini così detti semplici la semplicità della vita: uomini e cose assumono una luce strana, ora tristemente fabulosa, ora epica, ora fantomatica».
Il successo del libro, tradotto in seguito in tutte le maggiori lingue, favorì la pubblicazione delle altre due opere narrative di Satta: La veranda, un manoscritto degli anni Venti (1981) e De profundis (1980).

 

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