Malgrado la decisa affermazione iniziale, «questa non è un'autobiografia»
l'opera è sospesa tra la memoria intenerita di un lontano passato e la cronaca
compiaciuta di eventi che riguardano l'immediato presente dell'autore,
suffragati da una citazione puntigliosa di nomi e di date. Scalfari si appresta
a fare, sia pure implicitamente, un rendiconto: tracciare la «storia di un
gruppo dal "Mondo" alla "Repubblica"», come recita il sottotitolo, vuol dire
ripercorrere, illustrandone il senso, le tappe di un'esistenza che, dalla
pratica giornalistica, sono legate indissolubilmente alle principali vicende dei
Paese. Come a dire che, attraverso la vita di una testata, si può ricostruire
senz'altro il percorso di un individuo, di una cerchia intellettuale e quindi di
un'intera nazione.
Il volume contiene un indice dei nomi e un apparato iconografico dedicato ai
fatti salienti della vicenda umana e professionale dell'autore, ed è diviso in
quattro parti che coprono un lasso di tempo quarantennale, dal dopoguerra ai
giorni nostri: «I nomi, i luoghi, i libri», «Gli amici del "Mondo"», «Gli anni
dell"Espresso"», «"La Repubblica" prende il mare». La distribuzione della
materia pone perciò l'accento sul ruolo pubblico del protagonista, e in effetti
in prima battuta ci si trova di fronte a una riflessione di mestiere, alquanto
autocelebrativa e condotta in una forma garbatamente conversevole. Il lettore
viene così introdotto nell'ambiente elitario e un poco snob del «Mondo»,
celeberrimo periodico fondato da Mario Pannunzio nel 1949. Il settimanale, in
continuità con il pensiero liberale otto-novecentesco intendeva proporsi come
qualificata sede di riflessione intorno alla quale far convergere la parte
illuminata del Paese, disposta a riconoscersi nell'autoironica definizione del
direttore: «Progressisti in politica, conservatori in economia, reazionari nel
costume». Scalfari comincia in quest'ambiente la propria carriera, ma pochi anni
dopo avverte la necessità di passare da «un giornale di gruppo a un giornale per
il mercato». È il momento del sodalizio con Arrigo Benedetti. La figura dell'ex
direttore dell'«Europeo» introduce una lunga meditazione sulle caratteristiche
che possono rendere un giornale appetibile al grande pubblico: una scrittura
chiara e d'impatto, disposta anche alla drammatizzazione e alla
spettacolarizzazione delle notizie; il ruolo centrale lasciato alle fotografie
che, nel caso dell'«Europeo», tanto collaboravano al successo dei celebri
reportages. Tale è la formula che caratterizzerà, appena rivitalizzata
dall'aggiunta di collaboratori illustri, prima «L'Espresso» (1955) e poi «La
Repubblica» (1976), le due imprese che vedono l'autore sempre più nel ruolo di
protagonista del mondo dell'informazione. Di nuovo, con una delle sue frequenti
incursioni didattiche, Scalfari proietta la saggezza del presente
sull'esperienza avviata dieci anni prima e si cimenta in un'analisi del successo
di «Repubblica», cui viene attribuito un forte rilievo emblematico. Cinque sono
i motivi che hanno concorso alla riuscita dell'ambizioso progetto editoriale:
una solidità economica, tale da garantire libertà di giudizio e di denuncia; una
disponibilità del pubblico giovane e femminile verso un prodotto «che lasciava
spazio a indipendenza ed immaginazione»; la concomitante crisi del «Corriere
della sera» e la capacità di «Repubblica» di catturarne i lettori scontenti; la
ricerca da parte dell'opinione pubblica di sinistra di un quotidiano da
aggiungere o sostituire all'organo di partito, ormai invecchiato; ultimo, ma non
meno importante, l'apporto d'immagine e di mezzi fornito dalla prestigiosa casa
editrice Mondadori, che pubblicava la testata.
Dietro quest'elenco, che combina fenomeni di costume, mondo della finanza e
rapporti con i partiti, si cela il messaggio dell'autore: nessuna attività
intellettuale, e la giornalistica in particolare, è efficace senza una
comprensione chiara del contesto politico, economico, culturale nel quale deve
inserirsi e operare. Di conseguenza, i tre settori vengono frequentemente
chiamati in causa in tutto il volume. Da Montecitorio alla grande azienda, i
ritratti di imprenditori e politici, visti da vicino e con l'occhio di chi si
muove a suo agio tra colleghi, Si susseguono infatti a ritmo serrato: De
Benedetti, Agnelli e Olivetti, Ugo La Malfa e Pietro Nenni, Aldo Moro e
Berlinguer, Pertini e Cossiga, Craxi e Andreotti, e perfino, risalendo a
ritroso, un Togliatti che chiacchiera amabilmente durante un dopocena e un
giovanissimo Marco Pannella del quale si traccia un astioso profilo. Il tono è,
per una volta, mondano e divulgativo, quasi privo del sussiego che caratterizza
i celeberrimi editoriali di Scalfari.
Sul filo dell'appunto veloce e delle rivelazioni di corridoio e di ristorante,
vengono tratteggiati con estrema abilità il caso Moro, il compromesso storico,
il '68. Il piglio di chi ha sempre fatto parte di certi ambienti è però
giustificato. In fondo, il gruppo di coloro che la sera andavano in via Veneto
negli anni Cinquanta contava al suo interno personalità eminenti: Saragat, per
esempio, ma anche scrittori come Elsa Morante e Alberto Moravia. E le pagine
dedicate alla rievocazione del magico periodo hanno un deciso timbro letterario,
appena venato di nostalgia. La brigata intellettuale che si preparava a svolgere
un ruolo di primo piano nei destini italiani viene descritta come una geniale
congrega impregnata sì di crocianesimo, ma con il cuore rivolto ai film di
Federico Fellini, Otto e mezzo soprattutto. Insomma, un «gruppo d'uomini
indecisi a tutto», secondo l'autodefinizione di Ennio Flaiano, misogini e
voyeurs, che si sono macerati su Friedrich Hegel, Eugenio Montale, Francis Scott
Fitzgerald, ma più d'ogni altro su Marcel Proust.
È proprio alla lezione della Recherche - «libro di capezzale senza la conoscenza
del quale l'appartenenza al gruppo restava largamente imperfetta» - che nelle
ultime righe Scalfari si confessa debitore. Il lungo viaggio a ritroso, nel
tempo e nelle redazioni giornalistiche, è cominciato infatti sull'onda del
dolore per la morte dell'amico e compagno di liceo Italo Calvino, perché, ci
vien detto citando il Tempo ritrovato, «mi sembrava che non avrei avuto la forza
di tenere avvinto a me quel passato che discendeva già così lontano».
Da qui nasce il tentativo di riunire i tre filoni, giornalistico, politico ed
esistenziale, ordinando insieme una galleria di ritratti perché, in conclusione,
se «la sola storia possibile è quella che si ricostruisce da dentro attraverso
la memoria di sé», è anche vero che «il senso di una storia non può che essere
corale».
L'opera incontrò un discreto successo: la prosa vivace, l'autorevolezza di
Scalfari, già assai noto al grande pubblico, garantirono una buona circolazione
del testo. Immediate, discordanti e piuttosto accese le reazioni della critica
militante, che guardò poco all'aspetto letterario, invero scarsamente
significativo, accanendosi invece sui contenuti di ordine politico-culturale di
«un libro orgoglioso, di una sgradevolezza ricorrente, davvero troppo scritto in
prima persona e col piglio del protagonista che vede giusto», come lo bollò la
rivista «Letteratura». Le recensioni più equilibrate e distese sono di Alberto
Asor Rosa e Vittorio Spinazzola, nonché del poeta Giovanni Giudici, tutte volte
a sottolineare il valore di testimonianza storica del «viaggio nella memoria di
un liberal italiano».
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