Questi sonetti appartengono alla seconda parte del Canzoniere,
intitolata In morte di Madonna Laura e formano un solo gruppo,
perché in essi il poeta rappresenta il suo stato d’animo nel momento
in cui, essendo lontano da Laura, fa dei sogni che gli preannunziano la
morte della donna. Nei primi due (249-250) è ritratto più vivamente il
dramma psicologico, e la bellezza delle immagini e la tristezza dei
sentimenti, pur facendo contrasto fra loro, si fondono armonicamente: è
la poesia delle cose, della quotidianità, cui il poeta non aggiunge
nulla di suo. La quotidianità e il silenzio di Laura nel quale risuona
solo una frase :"Non sperar di vedermi in terra mai!" che
serve da suggello ad ogni sogno, che chiude una realtà, quella terrena,
per aprirne un’altra, quella divina e ultraterrena.
La critica non è
riuscita a stabilire quando essi siano stati scritti, se prima o dopo la
morte della donna, così come incerta o impossibile da ricostruire resta
la data di scrittura di molte poesie del Canzoniere: il 19 maggio 1348
Petrarca, mentre si trovava in Verona, ebbe la notizia della morte di
Laura, avvenuta il 6 aprile e la poesia 267 ben esprime il pianto del
poeta che canta la donna rievocando l’origine del suo amore nel bel
volto e negli occhi e nel riso (la bocca) che sono i tre elementi
corporei più realistici ma anche più simbolicamente presenti e
ripetuti: il volto come sole, le labbra sorridenti come elemento che
affascina e fa restare muti e sbalorditi di fronte a tanta bellezza e
gli occhi, il soave sguardo, attraverso i quali si penetra nel cuore
dove l’amore arriva e ingigantisce fino a conquistare ogni più
riposta fibra della vita.
Vediamoli ora
singolarmente.
CCXLIX
Qual paura ho, quando mi torna a mente
Petrarca ripensa all’ultima volta che ha visto Laura in vita, in una
visita effettuata poco prima di partire per l’Italia, dove lo
raggiungerà la notizia della morte della sua donna; e non c’è cosa
cui pensi così volentieri e di sovente come l’ultima volta che ha
visto Laura, leggiadra insieme alle altre donne che le facevano
compagnia, ed aveva un atteggiamento grave e pensoso, come cole che, benché
non fosse ancora inferma, stava già per cadere nella sua ultima
malattia. Petrarca la rivede mentre stava fra le altre donne, come una
rosa tra fiori meno belli e meno odorosi, dal volto né lieto né
triste, come chi teme qualcosa e non sente altro male: non aveva la
solita leggiadria e perfino il suo vestire quel giorno era più dimesso,
senza perle o ghirlande o panni sgargianti: perfino il solito riso e il
canto e il parlare in modo dolce e umano non aveva quel giorno.
L’ultimo ricordo di quel giorno in Petrarca è quasi un triste
presagio della morte vicina.
Tutto il sonetto è
costruito su un movimento lento, "grave" dice Petrarca, come
colui che si muove con lentezza e fatica, oppresso da una tristezza di
cui non sa riconoscere la causa, come gravi sono i movimenti di coloro
che stanno per ammalarsi, perché hanno il corpo mal disposto e
preparato al male ormai prossimo. Insieme a lei, in quell’ultima
visione della donna, rimane il cuore del poeta, che la rivede sempre
presente nella sua dote più umana (umilmente), né lieta né dogliosa,
perché non sentiva dolore o allegrezza, ma un qualche timore per il
male ormai vicino.
Lo stesso movimento
lento è sottolineato dall’uso preponderante di parole bisillabe e le
poche trisillabe sono quasi tutte riferite a Laura (pensosa, Madonna,
dogliosa, leggiadria, deposta, ghirlande, allegri, umano), mentre al
poeta si riferiscono solo quelli che riguardano il suo ricordo (volentier,
sovente, riveggio). Le parole trisillabiche tendono ad allargare il
movimento, mentre quelle bisillabiche tendono ad eliminarlo, come il
verso famoso di Dante: "e caddi come corpo morto cade".
Il contrasto tra
l’umano e il terreno è riservato solo all’ultimo verso; anzi, solo
alla seconda parte: e piaccia a Dio che ‘nvano, quasi a
chiedere un supremo aiuto o a cercare un estremo rifugio per allontanare
una visione di morte che comunque è lontana dal concetto cristiano
della morte come momento di passaggio verso una felicità più compiuta.
CCL
Solea lontana in sonno consolarme
Questo sonetto crea un certo contrasto con il precedente: la realtà è
mutata da quando Laura non c’è più: mentre nelle volte precedenti,
durante la sua lontananza, lei soleva consolarlo in sogno con la sua
dolce angelica figura, ora lo spaventa e lo contrista e nulla può
essergli d’aiuto contro il dolore e la paura di perderla; spesso nel
volto della sua donna al poeta sembra di vedere un misto di pietà e di
grave dolore, non tanto per sé, quanto per il dolore che la sua morte
avrebbe procurato al poeta, perché sapeva quanto questi avrebbe
sofferto per la sua morte.
Nel sogno al Petrarca,
è una delle rare volte!, Laura parla, mesta e grave: "non ti
ricordi quell’ultima sera, quando ti lasciai con gli occhi tuoi molli
di pianto andandomene perché ormai tardi? Non te lo potei dire allora,
ma ora perché l’ho provato ed è vero: non sperare di vedermi mai in
terra". Laura gli appare viva, anche se vicina alla morte, ma resa
ormai esperta dalla sua condizione di morte; gli dice una cosa che
avrebbe voluto dirgli quell’ultima sera (non mi vedrai più viva su
questa terra) ma non potè forse per la presenza delle altre donne e
sicuramente perché ormai non c’era più tempo, era sera e s’era
fatto tardi. È la coscienza della morte, una profezia non rivelata per
un senso umanissimo di pudore.
CCLI
O misera et orribil visione
O misera ed orribile visione; è vero: Laura si è
spenta, lei che soleva farlo contento con la sua angelica persona
CCLII
In dubbio di mio stato, or piano or canto
In
questo sonetto Petrarca dimostra quanto dubbiosa sia la sua condizione
attuale, oscillante tra la letizia della vita di lei e il dolore per la
sua morte, in un bifrontismo esistenziale tutto umano che sostituisce il
più classico bifrontismo tra vita terrena e vita celeste, tra felicità
umana e felicità divina, tra l’amore umano e l’amore divino; per
questo ora piange per il timore ora canta per la speranza: per sfogare
il suo dolore teme per la morte di Laura e spera di vederla ancora in
vita. Unico sollievo a questo affanno amoroso è l’abbandono alla
poesia, con la quale sfogare dolori e speranza; ma la poesia stessa
affligge e consuma il suo cuore in un fuoco di sofferenze.
È la speranza che i
suoi occhi possano rivedere il bel volto di Laura che si lega alla
coscienza che in alternativa gli stessi suoi occhi potrebbero essere
condannati a un sempiterno pianto: il bel viso di Laura possa restituirà
agli occhi del poeta la luce così necessaria che deriva proprio dagli
occhi della donna, oppure condannerà quegli occhi a un sempiterno
pianto? (e Petrarca non sa più cosa pensare di se stesso…); ed è mai
possibile che quel santo viso per raggiungere il Cielo, che gli spetta
di diritto, non si curi di quel che avviene sulla terra agli occhi del
poeta, ai quali come la luce del sole è necessario il volto della
donna?
In questa paura e in
questa perpetua guerra vive il poeta, che non sa più quel che già è
stato, come colui che sulla strada del dubbio teme e sbaglia; e va
errando non riconoscendo più quale sia il vero cammino verso la
salvezza, condotto tra dubbiosi pensieri temendo di non sapere ancora
cosa sarà di lui dopo la morte di Laura e lo spegnimento della luce che
emanava dal suo volto e che illuminava il suo cammino: Laura con la sua
presenza illuminava la strada della sua salvezza.