Laura a cura del prof. Mario Fubini
È la donna amata dal Petrarca, cantata nel
Canzoniere e nei Trionfi. Per lei il poeta rinnova gli elogi degli
"stilnovisti" e ne fa il tipo di ogni virtù e perfezione, che
diffonde intorno a sé purezza e beatitudine: ma quei motivi rimangono
laterali nell’opera sua o sono trasfigurati in una nuova concezione
terrena e umana della donna e dell’amore, per
la quale la bellezza è
celebrata non come simbolo di verità o virtù, o come mezzo di ascesa
spirituale, ma per se stessa, nel suo ineffabile e pur reale valore. E
Laura è innanzi tutto bella, bella non della bellezza di Beatrice e
delle altre donne dello "stil novo", luminose e indefinite
come l’angelo del Purgatorio che "col suo lume se medesmo cela";
ma di una bellezza che, pur spiritualizzata, resta ciononostante
terrena, oggetto non solo di adorazione estatica, ma di trepido
desiderio: e quella bellezza il poeta non si stanca di vagheggiare,
rievocando nella memoria "Gli occhi sereni e le stellanti
ciglia, - La bella bocca angelica di perle - Piena e di rose e di dolci
parole" e riascoltando dentro di sé "il riso e il
canto e il parlar dolce umano", ritraendola come l’ha veduta
in momenti fugaci e indimenticabili, e, morta, ancora ridicendone a se
stesso tutto l’incanto: "Gli occhi di ch’io parlai si
caldamente e le braccia e le mani e i piedi e ‘I viso - Che m’avean
si da me stesso diviso - E fatto singular da l’altra gente, - Le
crespe chiome d’or puro lucente - E ‘I lampeggiar de l’angelico
riso - Che solean fare in terra un paradiso... ". Né la
bellezza di Laura per lui e per noi si può disgiungere dalla natura in
mezzo a cui la donna si muove ed è partecipe della sua umanità, così
come ella sembra partecipare della perenne freschezza della vita
naturale, così l’immagine di lei si associa a quella di verdi
solitudini, di prati luminosi, di acque mormoranti ("Qual
miracolo è quel quando fra l’erba - Come un fior siede Io ver
quand’ella preme - Co ‘I suo candido seno un verde cespo"),
e noi la vediamo mentre sul prato fiorito se ne va "sola co’
pensier suoi ‘insieme - Tessendo un cerchio a l’oro terso e crespo"
o quando sul "fresco, ombroso, fiorito verde colle siede or
pensando ed or cantando", e, pur lontana, ne sentiamo col suo
poeta la presenza nel fruscio delle fronde e nel mormorio delle acque di
un ombroso recesso ("Parmi d’udirla, udendo i rami e l’ore -
E le frondi e gli augel lagnarsi e li acque - Mormorando fuggir per
l’erba verde"). Persino dopo la sua morte, più che nel Cielo
ove di rado è sollevato, il poeta la ritrova in mezzo alla verde
natura, ove la sua presenza è ancora diffusa in ogni cosa ed egli la
rivede e la ascolta viva ("Se lamentar augelli o verdi fronde -
Muover soavemente a l’aura estiva... "; "Or in forma
di ninfa o d’altra diva - Che dal più chiaro fondo di Sorga esca, - E
pongasi a sedere in su la riva - Or l’ho veduta su per l’erba frese,
- Calcar i fior com’una donna viva...") Tutte queste immagini
si raccolgono, come intorno a un centro ideale intorno alla grande
visione della canzone "Chiare, fresche e dolci acque",
la visione, da cui il poeta non si sa staccare e a cui sempre ritorna,
di Laura com’egli l’ha veduta in un "benedetto giorno",
accanto alle acque correnti, appoggiata al tronco di un albero, avvolta
in una pioggia di fiori: "Da’ bei rami scendea - (Dolce ne la
memoria) - Una pioggia di fior sovra ‘I suo grembo". Pensiamo
a una dea pagana, e il poeta stesso altrove ce ne suggerisce con la sua
domanda l’immagine: "Qual ninfa in fonti, in selve mai qual
dea - Chiome d’oro si fino a l’aura sciolse?" ma in realtà
a significare il nuovo senso che egli ha della bellezza gli soccorrono
immagini classiche e immagini cristiane e l’une e le altre si fondono
nella figurazione della bellissima, ignota così al mondo antico come al
mondo medievale. La Laura a cui s’inchina festante come a sua dea la
natura primaverile è pur la medesima creatura intorno a cui, al suo
giungere nel cielo, come un giorno intorno al Cristo risorto, si
affollano ammiranti "li angeli eletti e l’anime beate"
e che in quel trionfo celeste "si paragona pur coi più perfetti"
e a dire la beatitudine che dagli occhi di lei si diffonde in chi li
contempla, il poeta non teme di paragonarla alla beatitudine che la
visione di Dio infonde nelle anime del Paradiso "Pace tranquilla
senza alcun affanno - Simile a quella che nel cielo eterna - Move dal
loro innamorato riso.." E soltanto per metafora può dirsi
ellenica la figurazione della morte di Laura nel Trionfo della morte
nella quale sullo sgomento e l’orrore prevale il senso della bellezza
divina, vittoriosa della morte stessa e composta nella purezza
inalterabile di un bassorilievo sepolcrale ("Morte bella parea
nel suo bel viso"): uno dei vertici della poesia petrarchesca e
una delle più compiute espressioni di quell’idealità che si incarna
nella figura di Laura. La quale è per il poeta al centro
dell’universo, miracolo nuovo che dà spirito e senso alla vita
terrena e che dileguandosi lascia in terra una solitudine desolata
("Nel tuo partir partì del mondo Amore - E Cortesia"):
oggetto di meraviglia per tutti gli uomini, ella è il soggetto più
degno della poesia, a cui il poeta sente inadeguate le proprie forze ma
che di continuo riprende, beato, fra le sue amarezze e afflizioni, di
essere stato eletto a suo cantore, di avere ottenuto, per grazia sua, il
dono della poesia e della gloria che ne consegue. Così Laura,
l’ispiratrice e il tema dei suoi versi, si confonde più d’una volta
con la stessa poesia e con la gloria poetica, e l’entusiasmo
dell’amante sembra essere una cosa sola con l’entusiasmo del poeta
per la propria vocazione e per il premio perseguito attraverso dolori e
travagli. Laura è pur il nome della corona poetica, della fronda di
quell’albero che fu già una ninfa (Dafne) invano amata da Apollo, e
che ora eterno verdeggia sacro al biondo Dio della luce e della poesia:
idoleggiando la sua donna, il poeta si compiace di intessere la sua con
l’antica storia di vedere in Laura la risorta Dafne, di vedere nel
Sole che sull’amata risplende il Dio che un giorno l’ha amata e che
ancora la vagheggia ("Almo sol, quella fronde ch’io sola amo -
Tu prima amasti... "). Ne nascono, come dall’altro gioco
"Laura - L’aura", vaghe fantasie, e, con esse, l’emblema
della poesia petrarchesca: "Giovane donna sotto verde lauro"
e (congiunte in una sola le due figure, la donna e l’albero
l’oggetto della poesia, la poesia e il suo premio "Arbor
vittoriosa, triunfale - Onor d’imperadori e di poeti". Ma
Laura non è tutta nell’estetica perfezione della sua figura, come la
poesia del Petrarca non è soltanto la lirica celebrazione della
bellissima: I’amata vive nella vita dell’amante, nelle sue brevi
gioie e nei suoi più lunghi tormenti, e la figura immobile di lei si
anima per l’intera dialettica della passione del poeta, il quale ha
fatto suo idolo di una creatura e non può più, fra gli alterni moti di
entusiasmo e di rimorso, di dedizione e di dubbio, ritrovare la pace.
Laura, fonte di beatitudine, può diventare così Medusa. il volto
stesso del peccato che impietra ("Medusa e l’error mio m’ha
fatto un sasso - D’umor vano stillante"), e, altra volta,
deposto l’aspetto di altera onestà, apparire al poeta vaga e vana
della propria bellezza e lieta, nella sua fredda civetteria dell’amore
che ha suscitato e che non sa ricambiare ("E certo son che voi
diceste allora: ‘Misero amante Ia che vaghezza il mena?’ Ecco lo
strale onde Amor vol ch’e’ mora"). Qual è l’animo vero
di lei? Il poeta non cessa di chiederselo ritornando di continuo al
pensiero di colei "che sempre gli è si presso e sì lontano",
e noi con lui crediamo a volte di intravederlo in un atto più benigno,
in un saluto, in uno di quei silenzi, che solo gli amanti possono
intendere ("Chinava a terra il bel guardo gentile, - E tacendo
dicea com’a me parve: - Chi m’allontana il mio fedele amico?"),
o con lui ancora fantasticando su quello che può essere e che forse
molto probabilmente, non è ("E forse io che spero? il mio
tardar le dole"). Ma quel dualismo quell’estraneità dei due
spiriti tende a dissolversi nelle rime in morte: scomparsa dalla terra,
Laura è viva per il suo poeta, e, si direbbe, per lui solo, e anche il
passato, quel passato che gli era stato così penoso, si illumina ora
per lui di una nuova luce. Non solo a dirgli parole di ascetica
saggezza, Laura scende ora dal cielo, ma per confortarlo con femminile
sollecitudine, come madre e come sposa (‘Né mai pietosa madre al
caro figlio - Né donna accesa al suo consorte amante..."),`e
quelle stesse parole valgono, più che per quanto significano per
l’affetto che le impronta. per gli atti che le accompagnano: "Con
quella man che tanto desiai - M’asciuga gli occhi... ". A lei
il "soave suo fido conforto" e, il poeta può dire le
sue pene, quelle di oggi e quelle di ieri, tutto quanto aveva voluto e
non aveva saputo dirle mentre ella viveva. Qui, meno ancora che nelle
rime in vita, Laura può ricordare Beatrice: ché, pur beata, gli occhi
suoi sono rivolti alla terra e anche nel sonetto nel quale il poeta
narra di essere stato sollevato al terzo cielo accanto a lei, alla terra
guarda e all’amato che per lei ha sofferto e che le ha fatto più cara
la sua bellezza: "Te solo aspetto, e quel che tanto amasti - E là
giuso è rimaso, il mio bel velo ". Non vi sono ora più fra
loro ripari né schermi: le loro vite, la vita del poeta come quella di
lei appaiono ora tutte dominate da quell’affetto unico, immortale. Ora
il poeta, ritornando al passato, può ritrovarvi l’intimità del
presente e intendere quanto in quell’ultimo, fatale giorno dopo il
quale non doveva più rivederla, gli occhi di lei gli avevano detto
rivolgendosi ai suoi: "Rimanetevi in pace, o cari amici; - Qui
mai più no ma rivedremme altrove ", ora finalmente nella
visione descritta nei Trionfi ("La notte che seguì l’orribil
caso"), può rivolgere a lei quella domanda, tante volte
formulata dentro di sé: "Creovvi Amor pensier mai nella testa -
D’aver pietà del mio lungo martire?", e la donna può
rispondergli: "Mai diviso - Da te non fu ‘I mio cor né
giammai fia", e, senza abbandonare un delicato pudore,
confessare il proprio compiacimento per l’amore di lui e per la poesia
che l’ha cantata, e mostrarsi consapevole del tormento della sua
passione, e aprire a lui il segreto così a lungo nascosto del proprio
animo: "Fur quasi eguali in noi fiamme amorose... Teco era ‘I
cor, a me gli occhi raccolsi ". Cosi si risolve il dramma e si
compie la figura di Laura, che la poesia del Petrarca ha fatto per tutti
i tempi quasi il simbolo di ogni creatura amata, dell’intima
contraddizione e dell’ineffabile beatitudine della passione d’amore.
|