LETTERATURA ITALIANA: IL QUATTROCENTO

 

Luigi De Bellis

 


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QUATTROCENTO



Il Quattrocento


L'umanesimo

Abbiamo già detto che la tendenza dominante soprattutto nella prima metà del Cinquecento fu un costante anelito degli uomini verso i più alti gradi della perfezione in ogni campo di attività e la consapevolezza d'avere gli antichi raggiunti vette insuperabili per l'uomo moderno. Di qui l'ammirazione per gli antichi e, da un lato, la risoluzione di imitarli, per avvicinarsi il più possibile ai loro risultati, dall'altro, la volontà di codificare in norme precise i termini delle azioni umane.

Nel 1536 un professore dell'università di Pisa, Francesco Robortello, tradusse in italiano e commentò in latino la "Poetica" di Aristotele. Di conseguenza, un pò per l'autorità del sommo filosofo, ancora di più per la necessità di trovare norme sicure di estetica, retori e poeti si accanirono su quel testo per desumere concetti e regole d'arte. Le diatribe furono varie, lunghe, stucchevoli, nella loro vuotaggine ammantata di aristocratico paludamento, e sono ancora un esempio di come in Italia i letterati si siano sempre, per la maggior parte, isolati dal crogiolo dei reali problemi del Paese, pur senza mai rinunziare alla pretesa di essere loro la guida spirituale della nazione.

Nacque Cosi l'aristotelismo, che è una particolare interpretazione del pensiero aristotelico, il quale, nella sua originalità, venne sovente frainteso ed impoverito.

Aristotele aveva studiato la natura dell'arte e, pur senza riconoscere apertamente l'autonomia, l'aveva comunque staccata dalla filosofia. Per lui l'arte ha il compito di rappresentare non il vero oggettivo (compito della storia), ma il verosimile, e possiede la qualità di attività liberatrice delle passioni umane è cioè catartica, in quanto induce l'uomo (autore, spettatore o lettore) ad oggettivare le proprie passioni in quelle dei personaggi rappresentati ed a superarli mediante la catastrofe con cui questi li portano a compimento. I retori del Cinquecento, invece interpretando la catarsi aristotelica non come qualità intrinseca dell'arte, ma come suo fine, deducono una interpretazione pedagogica dell'arte e ne attribuiscono la paternità ad Aristotele. Aggiungono, inoltre, che se l'arte deve educare, non può farlo altrimenti che instillando la verità negli uomini. Il che equivale a riconoscere l'attività poetica assai vicina a quella filosofica. C'è chi, anzi, identifica il poeta col filosofo. Ad esempio Scipione Ammirato, nel suo dialogo "Il Dedalione overo del poeta", dice testualmente "Non è meraviglia, ma immaginati che sì come un'anima è quella che nutrisce e dà l'aumento ed il moto, e la medesima è quella che dà il sentimento, e la stessa quella che fa il discorso, così lo stesso filosofo è quello che contempla e quello che opera, il medesimo quello che usa la rettorica, la logica e la poetica, se ben in più e diversi modi si va distinguendo e partendo".

Qui è esplicitamente dichiarato che spetta al poeta-filosofo il compito di trasmettere la verità al popolo: ma quale verità se il poeta moderno, come vedremo, deve scegliersi un modello da imitare tra quegli antichi che fecero le proprie esperienze d'arte in condizioni storiche ben diverse da quelle dell'Italia del Cinquecento? A quale popolo se il letterato moderno non sa usare che un linguaggio adatto ad orecchie ben esercitate?

Aristotele aveva anche affermato che l'arte è imitazione della natura da cui solo può ricavarsi il verosimile, ma i retori del Cinquecento preferiscono ammettere che ciò andava bene per l'epoca di Aristotele, mentre per l'uomo moderno, che possiede tanti esemplari perfetti di artisti antichi, è molto più utile imitare questi. A ciò, evidentemente, si perveniva sempre sotto lo stimolo di quel complesso di inferiorità che si aveva per gli antichi, ma anche perché Aristotele, nell'elencare certe opere classiche, che giudicava assai positivamente e che distingueva per gruppi secondo certi valori formali intrinseci ed estrinseci, sembrava voler indicare i modelli da seguire e le norme precise dei vari generi letterari. Sembrava, ma è chiaro che Aristotele s'era limitato ad una analisi critica delle opere esistenti senza minimamente pensare a volerne trarre una dettagliata normativa. Sta di fatto che i retori del Cinquecento, sempre riferendosi ad Aristotele ma in realtà operando molto liberamente, stabilirono dei veri e propri codici relativamente ai singoli generi letterari e ne prescrissero, con la forza della loro autorità, il più rigoroso rispetto (vedi nota). Tutto questo, è evidente, se da un lato giovò al concetto che l'opera d'arte debba essere una creazione organicamente coerente, molto avvilì, d'altro lato, la libertà fantastica e l'autonomia dell'arte, accentuando inoltre il distacco già esistente fra letteratura e popolo. E tanto più nefasta fu la sua influenza negativa in quanto al Rinascimento seguì l'età della Controriforma, che esasperò il rigore restrittivo di quella poetica per tenere più agevolmente asservita l'attività artistica al suo programma di rinnovamento pseudomoralistico.

Fortuna per l'umanità se i veri ingegni poetici sanno sempre svincolarsi dal ciarpame delle regole, affrancandone la propria arte!

 

NOTA:

Tra le "regole" famosa è quella, relativa alla tragedia, delle "tre unita", di azione (l'opera deve narrare una sola vicenda), di luogo (una deve essere la scena) e di tempo (la vicenda deve esaurirsi in un giorno ); regola che fu spesso, ancora più arbitrariamente, estesa alle opere epiche.

 
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