Giambattista
Vico
Nacque
a Napoli nel 1668
e da autodidatta attese agli
studi letterari, giuridici e filosofici.
A diciotto anni fu assunto in qualità
di precettore dei figli del marchese
Domenico Rocca, al cui servizio rimase
per nove anni, approfondendo gli studi.
A meno di trenta anni ottenne la
cattedra di eloquenza nell’Università
di Napoli, che egli conservò fino alla
vecchiaia. Nel 1725 pubblicò la sua
opera maggiore, “Princìpi
d’una Scienza Nuova”, frutto di
25 anni di profonda meditazione, che
ristampò nel 1730 con non poche
modifiche. Nel 1735 ottenne la carica di
“storiografo
regio”. Morì nel 1744 dopo aver
nuovamente ritoccato la “Scienza
Nuova”, che nell’edizione
definitiva vide la luce pochi mesi dopo
la morte dell’Autore.
Il
Vico però non fu uno storico erudito al
modo del Muratori: egli ricercò le
leggi generali che regolano la storia e
fu quindi essenzialmente un filosofo
della storia (come il Machiavelli era
stato non un “politico”,
ma un “filosofo
della politica”).
Prima
ancora che si affermassero le idee
illuministiche e il conseguente
antistoricismo degli Enciclopedisti,
egli rivendicò il valore della storia
come prodotto dello spirito e, partendo
da questa intuizione, ricostruì il
cammino del pensiero umano, instaurando
- si può dire per la prima volta - lo
studio della preistoria e pervenendo
alla sua teoria dei “corsi
e ricorsi storici”.
Secondo
il Vico il percorso della storia avviene
per “cicli”,
ognuno dei quali si compone di tre fasi,
corrispondenti a tre momenti della vita
degli uomini: questi dapprima “sentono
senza avvertire” (infanzia), poi
“avvertono
con animo perturbato e commosso”
(giovinezza) ed infine “riflettono
con mente pura” (maturità); così
ogni ciclo storico si compone di tre età:
la prima, degli “dei”,
in cui prevale il “senso”;
la seconda, degli “eroi”,
in cui prevale la “fantasia”;
la terza, dell’ “uomo”,
in cui prevale la “ragione”.
Ogni ciclo, quindi, è distinto in tre
ampi periodi storici: preistoria,
medioevo barbarico e civiltà.
Quando l’umanità è giunta ad uno
stato estremo di perfezione ed ha
consumato tutte le energie di cui
disponeva, allora ripiomba in una nuova
(ideale) preistoria, da cui, attraverso
un nuovo (ideale) medioevo barbarico,
risale ad una nuova civiltà, compiendo
così un “ricorso
storico”. E' evidente però che
ogni ciclo non può prescindere da
quelli precedenti perché la storia è
sempre un andare avanti ed ogni epoca ha
in sé i segni del passato ed i germi
dell’avvenire.
In
questo incessante lavorio dello spirito
umano il Vico avverte però anche la
presenza di una Provvidenza, “una
divina mente legislatrice, la quale
delle passioni degli uomini tutti
attenuti alle loro private utilità, per
le quali vivrebbero da fiere, ne ha
fatto gli ordini civili per gli quali
vivono in umana società”. Egli
immagina che si debba a questa superiore
Provvidenza se i tre vizi capitali della
natura umana si siano trasformati in
altrettanti strumenti di civiltà: dalla
“ferocia” sarebbe così nata la
“milizia” (cioè la forza), dalla
“avarizia” sarebbe sorta la
“mercatanzia” (cioè l'opulenza) e
dall’ “ambizione” la “corte”
(cioè la saggezza del governo civile,
che può essere rappresentato
indifferentemente negli istituti della
monarchia o della repubblica).
Questa
concezione della storia determinò
l’affermazione di un nuovo metodo
storiografico fondato sulla ricerca e
l’interpretazione di tutte le
testimonianze dei popoli antichi (culto
delle tradizioni) e quindi di una nuova
filologia storica che si affermerà nel
secolo successivo, nell’età del
romanticismo. E in effetti il pensiero
del Vico fu inteso compiutamente solo in
questa età, quando finalmente si scoprì
che il filosofo napoletano aveva
anticipato molti di quei “princìpi”
che avevano trovato adeguata
sistemazione da parte dei romantici
tedeschi.
Al
Vico spetta inoltre il grande merito di
avere stabilito la autonomia della “fantasia”
dalla “ragione”
e di avere così distinto i campi della
“poesia”
e della “filosofia”.
La
poesia è frutto di emozioni,
passioni, fantasie, ed è tipica dei
fanciulli e dei giovani, laddove la
filosofia, fondandosi sul ragionamento,
è tipica degli uomini maturi. La poesia
quindi precede la filosofia come nella
vita degli uomini, così nella storia:
appartiene alle età primitive, come la
filosofia appartiene alle età civili.
Naturalmente anche questa teoria non va
presa alla lettera, perché non è
possibile concepire un periodo storico
in cui sia presente la poesia ed assente
la filosofia, e viceversa. Ma la teoria
valse a chiarire una volta per sempre la
distinzione e l’indipendenza delle
due sfere dello spirito umano, risalenti
rispettivamente al “sentimento”
e alla “fantasia”
l’una, alla “ragione”
l’altra.
Della
poesia così dice il Vico: «Il più
sublime lavoro della poesia è alle cose
insensate dare senso e passione ed è
proprietà dei fanciulli prendere cose
inanimate tra mani e, trastullandosi,
favellare [con loro] come se fossero
persone vive». E questo principio
costituì il cardine dell'estetica
romantica del secolo successivo.
Spesso
la prosa del Vico è oscura, poco
accessibile,
e determina nel lettore una
condizione psicologica di soggezione: è
quello che capita quando ci si avvicina
ad un gigante che sembra non accorgersi
della nostra minuta complessione. Ma è
anche assai spesso fervida ed
appassionata, specie quando la mente si
addentra nei meandri delle “favole”
antiche per carpirne segreti ancestrali.
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