LETTERATURA ITALIANA: IL SETTECENTO

 

Luigi De Bellis

 


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SETTECENTO






Il Settecento


Goldoni illuminista e altro
di Giovanni Tramice 

1. - Sul finire della stagione teatrale del 1749 - 50 una delle commedie dell'avvocato, riformatore, poeta comico Carlo Goldoni era caduta malamente; il pubblico disdiceva per l'anno successivo gli abbonamenti al Sant'Angelo. Ed ecco l'annunzio di un'impresa impossibile, la sfida dell'autore ai clienti incostanti, capricciosi ma curiosi, della compagnia Medebach; nel complimento finale de La buona moglie l'attrice prometteva, a nome di lui:

e osservando da scaltro 
che Venezia va drio a le novità
tute comedie nove el produrà, 
e se ghe ne sarà . . . . . , 
se la sò fantasia non vien al manco, 
una a la settimana per almanco.

Puntualmente, tra il 1750 e il 1751, le sedici commedie (presso a poco il numero delle settimane comprese nel calendario teatrale) furono rappresentate alle loro scadenze; una delle prime, La bottega del caffè.
Alla chiusura del carnevale del 1751 Rosaura, al termine de 1 pettegolezzi delle donne, ricordò al pubblico che l'autore aveva tenuto fede al suo patto; e allora uno scroscio di applausi un frastuono di grida e ovazioni inondò la sala, rimbombò dai palchi, straripò nella strada, tal che i passanti non sapevano distinguere se fosse entusiasmo oppure rivolta generale contro gli attori e il poeta. L'avvocato, riformatore, poeta comico Carlo Goldoni aveva vinto.
E non era solo il vantaggio della riconquista del pubblico al Sant'Angelo, non era tanto la soddisfazione di aver confuso i maligni, che con meno « buon cuore » di un suo personaggio potevano di lui dire e attendere: « ora gli converrà vendere a precipizio quel poco panno, e poi . . . . ha finito ». Era la vittoria della sua riforma, perchè appunto sul piano della riforma, con fede ed entusiasmo, un talento destinato al teatro aveva dato la sfida al capriccio degli spettatori. Assecondando in apparenza Venezia «che va drio a le novità » , egli con le sedici commedie aveva compiuto in Venezia L'esperimento del teatro secondo la sua idea.
Del resto, quale altro significato che questo ci pare che abbia la prima della serie dell'anno « tremendo » ma fecondissimo, Il teatro comico? Poetica in azione - come fu definita - mezzo originale e intelligente di rendere accessibile al pubblico il suo programma col sussidio del dialogo e della rappresentazione: ma, meglio ancora, annuncio del suo stile, della sua scelta. Per dar contenuto a uno spettacolo non è indispensabile l'inverosimile e il romanzesco, non il discorso gratuito e vizioso delle maschere, non l'enfiata statura umana dei sentimenti e degli atti; basta far parlare la Natura, basta un brano consueto della vita, saputo osservare con umana perspicacia, e dallo intuito poetico trasfigurato per la finzione della scena. Dopo l'orgia di basso comico della commedia dell'Arte, dopo le insincerità pseudoeroiche del melodramma maturava il tempo che il teatro italiano uscisse dall'equivoco (1): necessità avvertita già dal Goldoni giovane quando esordiva nel teatro di moda con i suoi intermezzi, intuita a poco a poco più chiaramente nella ricerca dispersa della sua strada, dal suo coraggio messa in atto ora con le sedici commedie nuove. Nuove nel senso che diciamo, e per il soggetto e per il dialogo e per i caratteri.
La riforma aveva convinto anche Gerolamo Medebaeh; al termine dell'anno teatrale 1750-51 il rapporto insicuro dello scrittore col capocomico si mutava in contratto. Ma il Goldoni ritraeva dalla sua fatica un premio assai più remunerativo che il soldo stabile e pur avaro del suo imprenditore; egli aveva cominciato a muoversi da padrone nel suo mondo poetico, basti l'esempio felice, malgrado i difetti, de La bottega del caffè, e davanti a lui si apriva non poco orizzonte. Un anno dopo appunto le sue commedie osavano varcare i limiti della regione veneto-lombarda e tentare il giudizio di un pubblico « più universale » col primo volume dell'edizione Paperini.

2. - Il capolavoro che corrisponde, nel genere, a La bottega del caffè è Il campiello (1756), non altre belle composizioni, la cui affinità è meno comprensiva; se mai si pensi, se vogliamo individuarne l'origine remota, a un intermezzo giovanile del 1736, che prende titolo appunto dalla bottega del caffè. La commedia fu scritta a Mantova, in dialetto, nell'aprile del 1750, vi fu recitata nel maggio, con « fortunatissimo incontro » dovunque poi il Medebach la presentasse. Al Sant'Angelo fu applaudita per dodici sere, a Milano piacque tanto a un « amico » che questi in Firenze la toscaneggiò e la presentò come sua con qualche modifica. Non unico movente che indusse l'autore legittimo a riscriverla in italiano, facendo parlare in lingua cinque personaggi e trasformando in Ridolfo e Trappola due maschere, che comparivano nella stesura dialettale. Così rinnovata, l'opera apparve nel 1753 nel primo tomo dell'edizione Paperini.
In questa stampa essa porta a fronte una lettera dedicatoria al conte Ludovico Widmann; lettera che (saltando i preamboli di devozione, antica siccome il Goldoni aveva già composto nel 1740 una cantata per il matrimonio di lui con Quintilia Rezzonico) c'interessa in quanto l'autore apparenta idealmente La bottega alla tradizione della Commedia dell'arte. « L'estemporanea commedia quella è che italiana unicamente può dirsi, poichè da altre nazioni non fu trattata; e questa, che sulle pubbliche scene sembra ormai declinata, brilla e risplende nel di Lei delizioso Bagnoli... Se l'E. V., perfettissimo conoscitore di tal genere di teatrali rappresentazioni, delle « opere mie si compiace, niuno ardirà lacerarle... ».
Non traggano in inganno queste sue parole, in cui egli accosta le sue opere a « tal genere di teatrali rappresentazioni »; ci capita di leggerle non una volta sola, quando lo muovono o l'ambizione o la modestia o tutte e due insieme: l'ambizione che è quella di sentirsi il rinnovatore e il prosecutore della tradizione teatrale italiana, modo anche di difesa contro le accuse dei suoi accaniti avversari; la modestia che è quella, sua candida inconfondibile, di rifugiarsi dietro questo unico vanto, allorehè lo intimidiva il paragone con Molière. Ma, al tempo che il Goldoni scrive, la Commedia dell'arte è vecchia di due secoli, e già altri ne avevano palesato, superandole con vario esito, le incongruenze e le decrepítezze, e se non voleva farne giustizia lui, l'avrebbe fatta fra poco il secolo dei lumi. Tuttavia riapriamo il tema a cui si riappiglia ancora chi, non considerando qual'è Porgine vera dei limiti della poesia del Goldoni, rinverdisce la parentela con i canovacci dell'Arte e da quella fa dipendere quel che ci sarebbe di negativo nell'ispirazione.

Il vero è che occorre volger l'occhio alla sostanza non alle apparenze, anche per le commedie che più sembrano accusare siffatta parentela (come La bottega del caffè); occorre considerare che, se con la Commedia dell'arte l'autore si smaliziava nella tecnica e abilità teatrale, la poesia del teatro la cercava poi in ben altro, documenti ne siano due opere estreme, legate entrambe al ceppo comico del passato: Arlecchino, servitore di due padroni, dove tutto il vigore dello spettacolo sussiste perchè Arlecchino è salito da maschera dell'Arte a « carattere » ; Il ventaglio, che, imbastito come scenario per accontentare i gusti del pubblico e le abitudini dei comici dell'Arte in Francia, fu un fallimento, riscritto nei modi della riforma, è considerato uno dei capolavori.
Il pubblico del Settecento era ancora patito del disonesto istrionesco effetto dello spettacolo dell'Arte; e il Goldoni pare, a tutta prima, che con la favola La bottega gli venga incontro con ogni larghezza: il romanzo di un marito fuggito dal banco di scritturale e dalla moglie, con disegno di godersi il mondo birboneggiando, e il romanzo d'una moglie alla sua ricerca in veste sospetta di pellegrina e fiduciosa nel disinteresse della protezione mascolina; l'ambiente equivoco di giocatori bari, biscazzieri manutengoli, di mariti desiderosi di gaia vita, di ballerine dal doppio contegno; il colpo di scena di due mogli che colgono in difetto i mariti e ne succedono assurdi melodrammatici duelli; le maschere e il loro frizzo, pronto ironico volgare. Concessioni evidenti al gusto del passato. Ma, se l'occhio va oltre, risalta che esse non danno alla commedia la sua forma, che La bottega del caffè vive di un sentimento della rappresentazione assolutamente non esistente nell'Arte, direi quasi messaggio di un teatro a venire.
Le ragioni che deviarono o interruppero il cammino della riforma goldoniana non occorre qui ripeterle. Aggiungiamo - e per il testo in esame mi pare che la cosa sia proprio nei termini che prospetto -: la riforma è chiara nel suo assunto, derivare il tessuto le persone il ritmo dall'osservazione di una bottega di caffè. Ma, a realizzarlo, l'assunto è così nuovo, per le possibilità espressive dell'artista e per la medietà della sua commozione introspettiva, che la trama gli sfugge, le persone non riescono intere e caratterizzate, il ritmo non trova il suo equilibrio. Ecco dunque i residui della Commedia dell'arte. Ma posticci, ma meramente strumentali, espedienti di mestiere per vincere le secche della conservazione, risorsa come un'altra, cui ricorre anche in opere più mature lo scrittore smaliziato.

3. - La lettura de La bottega del caffè costringe ad aprire il discorso su un tema più ampio delle intenzioni. Perchè dopo due secoli che del teatro goldoniano si parla e scrive è pur legittima l'istanza di una interpretazione nuova. «Non c'è forse nella letteratura «italiana un'opera che meno di quella del Goldoni contenga nel suo «linguaggio i dati della passione individuale e, parallelamente, vanti «una maggiore carica sociale. La bottega del caffè costituisce a «questo proposito un documento particolarmente sensibile...; ma, in «realtà, il problema è lo stesso per quasi tutte le altre commedie «goldoniane, anche se i reattivi capaci di rivelare tale situazione devono essere, per certi raffinati esempi, come La locandiera e Le «baruffe chiozzotte, particolarmente potenti ed efficaci per rompere «le incrostazioni d'interpretazioni ormai divenute tradizionali in chiave di gioco sentimentale o di musicale preziosismo».
Ben venga tale lettura nuova. Ma il fatto è che in commenti di tale specie si scivola di estetica in considerazioni che con l'estetica non hanno a che fare. Per cui si pone la onesta necessità di tirar le somme dalla critica per trovare se possibile quell'uso dei disparati concetti che giovi al commento del nostro testo. E c'è d'aiuto la formula preminente che si può estrarre da tanto lavoro di studiosi, quella del realismo goldoniano; c'è d'aiuto la parola stessa del poeta: « La commedia, che non è se non un'imitazione della natura, non si « rifiuta ai sentimenti virtuosi e patetici, purchè non sia spogliata di quei tratti comici e piacenti, i quali formano la base essenziale della sua esistenza » .

Il sentimento con cui Carlo Goldoni lesse i due libri fondamentali (e inconfutati) della sua cultura, il Mondo e il Teatro, fu duplice: fu sentimento di borghese e sentimento di poeta. Chiarito l'uno, s'intende meglio la natura dell'altro, e si cancellano, si riportano ai loro veri termini le svalutazioni, che confinavano in una sottospecie dell'interesse umano (l'ottimismo giocondo e indifferente) la partecipazione dell'autore al suo tempo e in una sottospecie dell'arte (superficialità, grazia, musicalità settecentesca) l'espressione poetica di quella partecipazione; mentre ancora le sue commedie son recitate in Italia e fuori e riscuotono ben altro consenso che l'applauso d'erudito rivagheggiamento.
Polisseno Fegeio era borghese, come si poteva essere borghesi a Venezia nel Settecento, una città dove l'antitesi di classe non si esasperava in rivolta, se mai sfogava in frecciate di satira, essendo la convivenza dei ceti un fatto tranquillamente tradizionale, « un paese in cui tutti vivono bene, tutti godono la libertà la pace il di« vertímento, quando sanno essere prudenti, cauti e onorati » . Un borghese in cui non si può cercare. il giacobino, nè ancora il romantico suscitatore, di una società troppo lontana a venire (come fu deluso di non trovarlo il Givelegov, e son delusi di non trovarlo gli interpreti neorealisti). Un borghese, che fu Arcade per convenienza; come è convenienza, quando è eccessivo, il complimento ai nobili con cui ebbe dimestichezza; come fu prudenziale il principio che sulla scena nihil de Principe, nihil de Deo, leggendo egli nel libro del mondo e del teatro che «la commedia si abbevera a un vasto fonte, ma alcuni rivoli più fecondi non soffrono esser toccati, e alcune « volte le conviene soffrire l'astinenza nell'abbondanza». Concessione ai rispetti umani, che invece si fa sentimento di bontà sociale, quando egli attenua nel nome indeterminato di... amici il ricordo e il torto di quelli che gli facevano del male.
Ma le limitazioni ora chiarite non inducano a credere che il suo teatro conceda ad ambiguità melodrammatiche e a reticenze: il suo teatro è per la prima volta sociale, i tre stati si sono eguagliati in popolo, su cui l'occhio di chi osserva e ritrae si posa come con assoluta libertà riguardo alle classi così con convinto rispetto della medesima dignità degli uomini. Col Goldoni avviene un fatto inconsueto nelle lettere: il popolo, che il secolo dei lumi e dei teorici andava appena definendo e insegnando che cosa fosse, per la prima volta è portato sulla scena, con un ardire che si maschera dietro lo schermo del divertente, e al tempo stesso con una chiara delineazione di quello che sono le persone nelle classi nei costumi negli individui. E il sentimento di borghese è evidente in queste copiosissime favole comiche dove, se pur il ridicolo è il colore di fondo dell'umano ceto novellamente ritratto, qualunque più attenta lettura non può espungere la reazione d'animo - antipatia... simpatia, - del narratore al cospetto delle classi di cui narra. Caratteri originari, che anche nella trasfigurazione poetica rimangono visibili e distinti: la nobiltà, una classe cristallizzata ormai nelle sue storture e in quelle che la sua lustra ha trasmesso alle altre classi; la borghesia, ridicola nei suoi eccessi ma pure avente in se le risorse etiche e affettive per riparare il ridicolo; il popolino, non più plebe non più maschere si bene folla e coro, da cui l'attenzione amorosa dell'artista trae volti, istanze, voci .

I contemporanei che più acerbamente criticarono il Goldoni, il Baretti e Carlo Gozzi, non potendo usare contro di lui come ragione polemica il risentimento sociale, fecero appunto la stroncatura di tutto ciò che dava fisionomia al teatro da lui instaurato: e ne presero mira la lingua, la cultura, la modestia e viltà dei soggetti, l'abbandono delle tradizioni. Ne presero di mira, capovolgendolo in fallimento poetico, proprio quello che costituiva il suo contributo al rinnovamento della letteratura in Italia: Essi che ancora plaudivano agli eroi e alle eroine del Metastasio, non si rendevano conto che « un tempo era venuto in cui Didone e Selene diventavano quello che < sono e non sapevano di essere: Rosaura e Beatrice; una Rosaura volubile, superbiosa e puntigliosa, e una Beatrice gelosa e magari invidiosetta; e Enea si dà finalmente a conoscere per quel debole, quell'irresoluto, quella pecora munta che è; e Jarba lascia la sua veste falsa per apparirci uno scontroso tirannello che domanda «poco per somigliare a un rustego...». Non intendevano; o non sopportavano il disincantamento?
Nè capivano (il pubblico ancora in Italia e fuori voleva ridere grosso) che il teatro della farsa delle busse dei lazzi era ormai scontato e svuotato di senso, che il teatro per esistere doveva avere qualcosa da dire, qualcosa di nuovo, magari proprio il « mendicume di verità accattate nelle taverne, nelle biscacce, ne' caffè, nelle casipole, « a pianterreno, verità (certo!) insolite da vedersi illuminate, « decorate, recitate ».
Offesa alle Muse le deficienze di lingua e d'erudizione? ma le dee, più amabili dei letterati ostili, non disdegnavano l'insolita offerta dell'avvocato-scrittore, anzi lo ricambiavano con la ricchezza dello estro, anzi « gli ornavan del lor riso i canti... » . Allora si disquisiva in astratto sulla natura della lingua, e degli prende l'animo di affrontare il problema nel concreto dibattendosi per questo in una difficoltà che solo un secolo dopo il Manzoni si ripropone e supera: e Venezia a lui deve se il suo dialetto musicale divenne melodioso, l'Italia a lui deve se si cominciò a tentare dopo tre secoli di bembismo l'italiano parlato come lingua della poesia, la scena da lui ebbe l'idioma realistico, conforme alla riscoperta commedia umana che rappresentava. Con l'erudizione delle Accademie quello che era il suo mondo di poeta non aveva a che fare, ed evitò le Accademie. S'iscrisse all'Arcadia di Pisa, per poi non prenderla sul serio, come non prese sul serio la lingua degli Arcadi, o le ire arcadiche di Comante (il Frugoni), suo rivale in amore per Aurisbe Tarsense:

Se va Comante in collera 
Aurisbe me defenda...

Gli accademici si sdegnarono contro l'opera dell'avvocato commediografo, come di un tradimento; e davvero l'opera, così evidentemente non conformista così partecipe di sociale interesse, era lontana dalle Accademie, specie quelle tradizionaliste. Ma non era ancora il teatro della Rivoluzione francese; e tanto meno un programma di propaganda classista per i buoni borghesi veneti. Goldoni sta bene prima e accanto a Diderot e a Lessing come instauratore del teatro moderno. Il suo sentimento di borghese verso i nobili, trasporto in poesia, è già tutt'altro che una passione di classe, è tutt'al più un guardarli senza acrimonia, anzi con umano calore, alla stregua di cittadini e persone uguali nella società del ridicolo che la fantasia andava scoprendo.
Dopo le definizioni idealiste e neoidealiste e le amorose letture circa il centenario del 1907 (ormai entrate nella tradizione), suggestiva fra le interpretazioni recenti del comico goldoniano è la serie di articoli di Eugenio Levi, raccolti in volume nel 1959: il comico di carattere, scoperto da Teofrasto e ripetuto nel teatro moderno nella sua classica idea solo dal Goldoni, per una fortunata affinità di condizioni ambiente, Venezia settecentesca e Atene teofrastea, e per una altrettanto fortunata affinità di temperamento degli scrittori. Un'atarassia affettiva verso il personaggio e al tempo stesso un amore alla forma-espressione del suo carattere. « Era dunque nato l'uomo che fosse in grado di tradurre in atto nell'anima umana la chiusura ermetica delle province in cui si annida la colpa, il che vuol dire che era venuto il giorno in cui nel teatro comico universale il ridicolo, che in Aristofane non si disgiunge mai dal vizioso e il Moliére è dal vizioso continuamente minacciato, poteva invece liberamente seguire la sua legge e farsi fine a se stesso. Il riso poteva finalmente diventare un'interpretazione della vita che, assolvendo il peccato, sgominasse le caligini del mondo. Questa fu la missione che al Goldoni venne fatto di assolvere ».
Ruolo dunque del personaggio che, svuotato d'interesse etico, scevro da intenerimento affettivo, si manterrebbe in un dialogo senza racconto, gioco labile di variazioni sul fissato del carattere? Il qual carattere, giunto al suo punto crisi, portato allo specchio a guardare sl suo errore, soffrirebbe non dell'errore ma della sua forma perduta?
Se non che i caratteri, quando il Goldoni li assumeva da persone reali per trasformarli in persone fittizie (alcune così vive e riconoscibili che egli doveva dire «sono un pescatore che getta l'amo alla cieca; chi si sente prendere procuri di levarselo dalla bocca senza gridare»), non credo che nascessero tanto metafisici e pirandelliani avanti lettera. Il loro legame col Mondo, dal quale son tratti, è e vuole rimanere, anche per il lieve animus satirico del creatore, tenace; ed è solo suppositivo dire che il legame lo ristabilisce lo spettatore, se non c'è nel dialogo E d'altra parte una lettura più ingenuamente concreta, più consenziente alle sembianze umane e banali di Mirandolina, di Giannina (del Curioso accidente), di Sor Todaro, di Geronte, dei Rusteghi nulla viene a togliere alla caratterizzazione goldoniana e ridicola dei personaggi, e invece l'arricchisce di emozioni e sfumature, proprio per le quali la loro carica umano-morale sfoga convinta e rasserenata nell'esito consuetamente modesto della chiusa. Un particolar modo (e naturistisco, settecentesco, non novecento) di sentir la vita si traduce nell'espressione teatrale; la quale invero si mostra a chi legge non tutta comica, ma come alternanza di comico e reale: addirittura descrittiva (per un brano una sequenza una scena) del reale e al tempo stesso (più copiosamente) trasfigurazione del reale in comico. Nè è a dire che questi luoghi... discordi dal comico siano solo la sede dove ripari ciò che è rimasto prosa, o vi si rifugi un allotrico residuo d'idea morale: il patetico, il virtuoso sono in quegli squarci di realismo assai spesso poesia.
Perchè la commedia del Goldoni non si genera tutta dal « carattere »; è anche storia di piccoli mondi in cui le persone attendono, direi fin da quando si alza il sipario, la circostanza che le avvicini. Imitazione della Natura (quale il Settecento credeva vederla, e ciò loda il Voltaire), non ricusava il virtuoso e il patetico; che invece ne è espunto dal Levi, e ne resta fuori la trilogia della Villeggiatura, proprio quell'ampia serie di favole in cui l'artista tentò un più scoperto equilibrio delle due note della sua ispirazione, e la espressione più sincera della sua nativa partecipe affettuosa attenzione agli opposti termini dello spettacolo del mondo, il comico e il serio. La vita è bene nel male e male nel bene; il pittore che ne trasse il quadro per la scena non s'ingegnò di guastarlo: lo tramutò in una « conversazione » nella quale l'onda del dialogo (per riusare un metafora tanto usata) ora si riversa col riso dalla sponda della scena, ora si ritrae col patetico col riflessivo col discorsivo quasi all'indietro (al punto dove nasce?), si raccoglie e si isola dal pubblico intorno alle piccole pene ai travagli mediocri alle ansie brevi di quelle figure che fingono l'uomo. Così negli «interni » de I rustegni, de La casa nova, de Le Baruffe; così ne Gl'innamorati e in Sor Todaro: con una mobilità di stati d'animo veloce armoniosa loquace com'è l'onda della laguna.
Ecco il significato di fondo del realismo comico del Goldoni. Tuttavia c'è da fare un chiarimento sulla profondità e natura di questo realismo, per evitare la delusione. Che è quella poi che generò le riserve del De Sanctis e del Croce e fece esprimere al Momigliano il giudizio sibillino e anfibologico: «Il Goldoni fu un grande quando seppe fare con arte profonda un'introspezione superficiale ». Piuttosto, anche allora il Goldoni fu se stesso.
Molière compì il miracolo, possibile forse al Seicento, di combinare d'istinto (e non per legame dialettico) nel personaggio l'unione del comico e del tragico; dopo di lui nessun autore comico del Settecento fu capace di proseguire quello stile. Ne il Goldoni fu il Molière italiano; tuttavia pur egli tentava uno stile, che attese più di una generazione per essere proseguito e approfondito. Borghese egli scoprì un suo teatro borghese, il verismo medio nella sfera del risibile, e nella categoria che vi intuì - il rapporto ridicolo... patetico - pose con diverso amore le tre classi della sua società storica. Gli mancava, non per suo vizio, l'intuizione dialettica per portare a unità intrinseca i due termini della categoria; ma la dialettica nelle lettere non è prima della dialettica nel pensiero, e quella del conico è forse anche più tardiva.
Dal difetto conseguì che egli, che non è un superficiale, fosse giudicato un indifferente, la favola, che non è sciocca, avesse i suoi impacci e incongruenze, e i personaggi, così convincentemente originali, non convincessero di una loro serietà. Mancava certo « la divína malinconia, che è l'idealità del poeta comico, che lo tiene al di sopra del suo mondo »; avveniva anche che « i suoi libri non erano la lettura prediletta di nessun'anima pensosa ». Per questa prevenzione, per quel che non doveva dare, si trascurava di credere e scorgere quello che aveva dato.
Prevenzione che ha gettato la stia ombra e il suo impaccio sull'interpretazione goldoniana di questi ultimi quarant'anni. Eppure in quelle proposizioni c'era il tallone d'Achille. Deficienza e superficialità d'intuizione umana nel poeta, avrebbero dovuto comportare deficienza nell'espressione, cioè nella poesia; come allora può esser vero che « in alcune commedie il Goldoni fu grande »? E sta il fatto che nei componimenti felici non egli aggiunse i requisiti che non c'erano nel suo cuore umanissimo ma giocondo, sagace alle antitesi dei caratteri e delle cose ma a quel che di esse era d'immediata impressione. Si trattava perciò di riproporre, fuori dei termini idealisti, la ricerca della poesia goldoniana. Ma la critica di cui dicevo, non osando per il veto autorevole affermarla nel sentimento ispiratore, l'è andata individuando in questo o quel particolare atteggiamento d'animo (per esempio; la nostalgia veneziana indagata dal Gimmelli. Una nostalgia che sgorgherebbe nell'atto che il poeta sta a Venezia e compone?...), in questa e quella apparenza della tecnica e dello stile, un quid per citi l'autore riusciva nella favola ad eguagliare il tono, al solito, discontinuo del racconto, e a nascondere i legami imperfetti del tessuto. Ed è certo vero che a questo quid estrinseco seppe far ricorso l'artista, mai riposato elaboratore della sua opera.
Ma ridurre al femminino aggraziato del Settecento la felicità di intreccio de La locandiera, a un suggerimento musicale di unità la coralità estrosa de Il campiello, a una bravura eontrappuntistica del dialogo il tema affettivo de Il ventaglio, questo non ripropone i termini della poesia goldoniana, questo significa un diminuire chiarendo e stabilire un compromesso che nulla avanza tra i concetti idealisti e quelli posteriori. Ne La locandiera non si consideri solo la grazia, ma pur quel non so che di pathos che nel gioco della grazia o traluce o è trascinato; si pensi un Campiello osservato e gustato nella combinazione varissima dei caratteri e degli impulsi; si consenta con una intenerita rappresentazione di contrasti e di affetti, al di là del contrappunto e dello scherzo, ne I rusteghi; si creda, magari a un Goldoni «sanculotto» ne Il ventaglio, che sbiadisce nel caricaturale ogni personaggio dei ceti superiori e si sbriglia di vivacità corposa ed efficace nel ritrarre Giannina popolana e la sua corte.
Tal modo di rappresentazione si origina adunque da concreta attenzione alla vita e all'uomo, di lì riceve colore e alimento, non da una felicità estrinseca di stile. Difatti, a che guarda ironico il commediografo in Sor Todaro e ne Il burbero, se non all'egoismo che, al suo punto di frattura, cerca intorno a sé gli scontri che rompano l'involucro? Di che sorride intenerito e divertito ne Le baruffe, se non dei litigi che esplodono come il nervoso del temporale in Chioggia, dove ci sono troppe ragazze da marito? È evidente perciò che anche i capolavori non possono essere intesi solo in chiave stilistica, estetizzante, artificiosamente formale, quasi che la poesia fosse il momento in cui il poeta, tradotta la sua ispirazione in dialogo, gioisca e crei solo per entro alla forma che possiede, quasi che il poetare fosse una rarefatta condizione di oblio dalla vita, bevuto il filtro del momento creativo. Leggendo, noi non possiamo dividere ed estraniare quei dialoghi dal legame, partecipe costante « storico » col reale che rappresentano. Essi vogliono essere (come, credo, ogni opera d'arte) un sentire, attuale, che si esprime. E il sentimento è quello proprio che il Goldoni ebbe del vero; nel quale, pur tendendo ad assumere il vero nel ritmo della gaiezza e del sorriso, il cuore consente e vibra con i tanti e discordi toni di uno spettacolo presente, lo spettacolo della vita.
In due secoli di fortuna i lettori e il pubblico lo hanno capito, e ci han trovato gusto meglio dei critici. E viene in proposito rilevare la simpatia del sereno iniziatore del realismo fra i nostri Romantici, il Manzoni; e rilevare che gli spettatori di un tempo così diverso e diviso « da colorir la favola di lontananza d'irrealtà, come d'un amore d'adolescenza», gli spettatori del nostro tempo, fra noi e gli stranieri, ridono ancora di quella favola, ancora vedono il loro specchio in quel gioco scoperto, sincero « di tenerezza e d'ironia ».
4. - La bottega del caffè non è il caffè Florian, sotto le Procuratie, ritrovo mondano di nobiltà e begli ingegni, e nemmeno quello di Menegazzo, convegno di artisti e letterati; sorge fra una bisca e un salone da barba, le fa angolo una locanduccia così che la strada si slarga in campiello, e a vista s'affaccia fra due stradette la casa di una ballerina. Bottega che non dà soggezione, dove i facchini vengono anch'essi a consumare la bevanda e al mattino se ne ristora una striminzita signora, che non ha soldi per comprarsi la legna. Incontro accogliente e fidato di un piccolo mondo, punto di osservazione di una piccola vita: la quale, secondo l'animo del proprietario, andrebbe meglio per il suo verso, se non fosse la bisca accanto, luogo di perdizione della gioventù, e il sussiego malevolo di un cliente, che tutto critica e disprezza, non tace mai e mai ammette di sbagliare. Osserviamolo anche noi da vicino questo piccolo mondo che per lo spazio di un giorno gravita intorno a Ridolfo galantuomo, Pandolfo biscazzíere, Don Marzio maldicente.
Con la scena 1 dell'atto I già si delinea l'ambiente; dove guizza, allegro come il suo nome sdrucciolo, Trappola «malizioso», con gli occhi aperti agli interessi suoi e a ciò che vede accadere, svelto a contentare i clienti e a farsene la sua privata opinione. Sembrerebbe «replica beceresca in minore di Don Marzio», se non fosse che le sue battute vivono una breve occasione tra la buffoneria e la caricatura. Allo sciogliersi dell'azione anch'egli è voce nel coro di protesta della gente dabbene.
Le donne del teatro goldoniano, protagoniste nell'ambiente familiare (o presso a poco familiare) e nelle circostanze mondane di famiglia, in una pubblica bottega di caffè hanno poca parte, e vi compaiono essenzialmente come definizioni tipiche necessarie allo svolgimento del soggetto: Placida, « un pezzo di pellegrina » che attira l'occhialino di Don Marzio e le velleità galanti di Eugenio, e dà l'avvio al putiferio farsesco dei duelli e dei ravvedimenti; Vittoria, che con le sue «inchieste » di Eugenio volge la situazione or al patetico, ora al banale, talora al melodramma; vi porta la nota frivola Lisaura, bene temporaneo di Leandro, caduco entusiasmo di Eugenio, attenzione galante di Don Marzío guastata dalla mala lingua. Ma nell'indeterminatezza convenzionale pure qualcosa ferma l'attenzione di chi le inventa. Mezzi toni di accoratezza (tra il II e III atto) nel ruolo opaco di Placida, che si prevede come si debba snodare nei suoi scontri con il maldicente e con... l'onorata rivale.
Vittoria ha note più sue che Placida, accenni fugaci di un'intima osservazione non legati tuttavia fino a formare persona e racconto, per i quali un po' si è fuori della mera invenzione strumentale o della facile caricatura della gelosia. IL caso della moglie « trascurata », bella giovane ricca, è seguito a quando a quando con delicatezza di tocco: passeggere le furie della donna offesa, costanti invece l'ansia per la reputazione del marito, il bisogno di buone parole e di speranze, la resa a una tenerezza. E quando ha riconquistato il suo bene, Vittoria si ravviva di una spontanea civetteria. Il punto d'interesse non è dunque soltanto il comico.
E ciò è meglio evidente nel femminino più spiccato de La bottega, la ballerina, nel cui ritratto colorato in prevalenza di cordiale ironia traspare spesso all'occhio la sostanza verista e patetica del sottofondo! Nei tre atti l'antitesi tra le parvenze equivoche e la proclamata e difesa onoratezza non ha l'ufficio di satira e ha in se qualcosa che la riscatta dalla genericità dell'espediente comico: starei per dire, è il sentimento conduttore di un racconto psicologico, l'accettazione trepida di contingenze nè morali nè limpide, la volontà ansiosa e scontrosa di rifarsi una vita. Così mi pare che ne pensi Ridolfo. Per Don Marzio Lisaura è, senza dubbio di sorta, «l'amica della porta di dietro » , una ragazza di tutto gusto senza che mai egli n'abbia gustato; invece quella difesa della propria dignità contro lui ed Eugenio, troppo ispida per essere solo ridicola, quel sussiego tra il decoro e la civetteria durante il pranzo, quegli sdegni e paure per la pellegrina della locanda e per Vittoria in maschera, son linee d'animo che vanno a legarsi col soliloquio finale dell'atto II; per compiere il senso delle cene I e II, XX e XXI dell'atto III. Così che, quando, dopo l'abbandono, in pubblico, ella attesta che anche da ballerina si vanta di essere onorata, non credo che la battuta serva ancora per un'inutile risata.
Pandolfo, il tenitore di bisca, è al contrario delineato senza simpatia, e non per l'arzigogolato interesse spicciolo che sarebbe la difesa di «una vita, a Venezia, ormai chiusa e immobile, legata, nella lenta decadenza politica ed economica della repubblica, a un calcolo avaro e minuto di equilibrio, di conservazione, dove ogni elemento, anche minimo, di disordine può essere la spinta che dà inizio alla rovina ». La simpatia del poeta sta per il bene e per il male; non s'accende a tesi, si concede all'uomo. E l'uomo Pandolfo, malgrado nelle strette si protesti un povero padre di famiglia, è cinico, è avido solo del suo guadagno, e gli pare o sciocco o ipocrita il bottegaio vicino che gli parla a cuore aperto; e non è solo comica, ma volgarmente vera la sua spietata caccia alla passione ai debiti e alle pezze di panno di Eugenio: Per cui ci diverte la parodia che « la farina del diavolo va tutta in crusca » e che l'ingenuo guasti col suo intervento gli affari del furbo (scena VII atto II); poi la parodia si carica fino a rompere l'ordito logico del carattere: Pandolfo nel pericolo è così stordito da affidarsi e confidarsi proprio con Don Marzio! Goldoni ha obliato il suo personaggio. Poco male; anche il campiello è indifferente e, vedendolo passare ammanettato, più che a lui, pensa a Don Marzio che ha fatto la spia.
Leandro è il secondo compare della bisca, che in Venezia ha trovato la donna e la professione. Già scritturale, marito disertore, sedicente nobile (quel che in fondo indigna Don Marzio, vero nobile), giocatore con le carte segnate: ricco corredo di requisiti, però non venienti su dal dialogo, presi in prestito dalla convenzione teatrale. Povero di spirito e di mezzi, è nella gaia vita che gli piace un'opaca figura di briccone prima, una strana figura di briccone ravveduto poi - occasione Placida, Lisaura, Ridolfo; confessore Don Marzio! -. Gli elementi d'accatto che lo compongono non sono stati elaborati. Nel terzo atto si schiera a difensore dell'onesto, convincente solo nella dimessità di tono, come di chi si sente non qualificato per tal parte.
L'azione de La bottega del caffè si combina sull'equilibrio di forze di tre nuclei generatori; uno di essi è la caricatura di un carattere, Eugenio, giovane sposato bene, ma che ha più a cuore della famiglia la sua libertà di « cortesan », di uomo di mondo; e l'analisi delle sue passioni libertine, il gioco e la donna, è la risorsa feconda della rappresentazione. Dal mattino nervoso e stanco al mezzodì euforico si dispiega, variata imprevista incisivamente comica, la serie di incontri e scontri tra lui e gli altri personaggi: l'aiuto i consigli i rammarichi di Ridolfo e la caccia, alterna di parti e di fortuna, dei due biscaioli ai suoi zecchini; le liti gli affanni le ricerche di Vittoria e il suo doppio gioco vanesio con la ballerina e la pellegrina; e poi il bando pubblico dei fatti suoi e la partecipazione forzosa nei fatti suoi della «tromba della comunità» Comico che sarebbe «coralmente» esteriore se non lo intimizzasse e accalorasse l'incoscienza, la volubilità e a tratti anche la labile resipiscenza del protagonista. Or ora Ridolfo l'ha convertito, e già folleggia per altri incentivi del suo capriccio, approcci con Lisaura protezione a Placida galanterie alla moglie mascherata; or ora torna dalle innamorate promesse a Vittoria, e già è nella pania della bisca, pronto a «strozzare» altro panno sotto costo. Quando poi gli han fatto vincere a calcolo sei zecchini, è un crescendo di scioperatezza: per poco che duri, invita a pranzo tutto il vicinato.
Nel terzo atto, messa la commedia sulla rotta delle conversioni, era difficile (non tanto al poeta quanto alla sua fretta) ricavare dalla felice caricatura di Eugenio libertino il conseguente felice ritratto di Eugenio innamorato; e rimasero al personaggio due volti, che non possono combaciare malgrado qualche segno di raccordo.
Artefice delle conversioni è Ridolfo, demiurgo rasserenatore che tutto riesce a riassestare, tranne lo storto giudizio di Don Marzio; tenace nei maneggi diplomatici del buon cuore, a un certo punto, sia pure stato il caso a dare l'avvio, le fila dell'azione vengono nelle sue mani e il terzo atto è il suo trionfo. Evidente perciò la posizione di primo piano, e tuttavia la caratterizzazione poetica è assai inferiore al ruolo. Per alcuni la ragione sarebbe in questo: il Goldoni è partito nella commedia da un'invenzione morale, il piccolo mondo della bottega vivente nell'antitesi dell'egoismo di Don Marzio e del rispetto affettuso di Ridolfo; per una involontaria sincerità, per un'inconsapevole adesione più cordiale ai « viziosi » che ai « virtuosi » succederebbe quel che avviene ad altri personaggi dabbene del suo teatro, il trionfo poetico del maldicente. E, in fondo, un pizzico di romanticismo c'è nell'autore, nel senso che egli crede sinceramente alla morale, ma poi gli víen fatto meglio rappresentare e trasfigurare ciò che non è proprio dentro alla sfera morale o del buon senso o della ragionevolezza. Ma, perchè altri personaggi di questa... non fortunata categoria (per citare solo i nomi più correnti, Pantalone, Roberto, Fulgenzio, Dorval), pur essi caratterizzazione dell'idea morale, figure maggiori o minori che riescano, perchè non presentano i difetti del «carattere» Ridolfo?
La causa è un fatto estetico e non etico. Nel sentimento fondamentale proprio al poeta, che è l'affettuosa attenzione al ridicolo e al patetico, nel gioco alterno del comico e del reale che ne è il ritmo, egli ha preparato per loro il clima, ha visto il modo naturale d'inserimento, padrone della nota giusta che li individuasse. Nota che per Ridolfo ha tentato in varia guisa d'indovinare. E certo ne La bottega se c'è personaggio in cui il dialogo serio è schietto e sentito, in cui i mezzi toni sono più commossi, questi è il signor politico e caffettiere. Ma l'autore non si è fidato del primo disegno e gli ha sovrapposto altri tratti estranei, o del frizzo buffonesco, o di gesti a lui non competenti, o più spesso, per condurlo in comico, ha cercato un contrappunto caricaturale con Don Marzio, l'ozio usato a fin di bene e non di male e eguale invincibile bisogno di parlare e intrigarsi, ma per sdottorare consigli e massime morali. Eugenio era venuto fuori con due volti, Ridolfo con tratti disparati che cancellano la fisionomia.
Secondo Don Marzio, egli, il maldicente, è « un uomo di buon cuore » . Cerchiamo di credergli e di comprenderlo, dato che lo stesso inventore del personaggio lo ha collocato quasi in una sfera che non è la malignità.
Anzitutto non s'impiccia dei fatti altrui al modo di Ridolfo, da dietro il bancone. Egli prende ogni giorno visibile possesso del suo regno con tutta l'importanza di nobile, espandendola dal caffè al campiello con la parrucca con l'occhialino e specialmente con la mala lingua onnipresente; egli è l'atmosfera pettegola del luogo fatta voce, che attira come per affinità e simpatia, cose atti passioni altrui per ricevere alimento. Ha appena parlato degli orecchini di Vittoria, ed ecco giungere Eugenio con la faccia di chi « ho capito, li ha persi tutti » ; ha creato l'equivoca attesa intorno alla ballerina, ed ella si affaccia invitante e bella alla finestra; ha visto una pellegrina coi fiocchi, e la passione maledica gli fa confondere le date: è quella ch'è venuta a birboneggiare l'anno passato. Dalla locanda alla bisca al caffè alla casa di Lisaura il piccolo mondo della piazzetta, appena è nel raggio, è chiuso in un impalpabile labirinto di equivoci che il possessore del filo non districa ma accresce, perchè ha fame di dialogo, fame inquieta indiscriminata vorace, che gli fa attaccare discorso con noti e ignoti, con conoscenti ed estranei, con amici e garzoni e bottegai, con Ridolfo che lo lascia digiuno e il capo dei birri che sta li apposta per ascoltare. Ecco il morbo di Don Marzio, male diffuso su un fondo già sui generis di personalità.
I suoi giudizi sul prossimo non sono benigni; ma egli li crede onesti, mosso anzitutto da sufficienza sociale, una certezza di classe tra i... minori della piazzetta di non aver mai torto, e di aver ragione di valutare per quel che valuta le persone di cui conosce e di cui non conosce. Leandro? il conte Buonalana, Lísaura? flusso e riflusso, Vittoria? la pazza gelosa, Ridolfo? il pazzo glorioso, Eugenio? il traditore fallito, Placida? quella dell'anno passato...; secondo lui, piccola gente di una vita da ridere da disprezzare, su cui si eleva di parecchie spanne la sua statura onorata! E si aggiunge alla boria, non so se per darle divina legittima investitura a sentenziare, una tal quale civetteria di scettico e di cinico; contro la quale fa vana difesa il rispetto fiducioso del prossimo che ha il caffettiere.
Non è che a Don Marzio manchi ogni virtù. Saprebbe essere discreto con Vittoria sugli orecchini, se non giungesse Trappola a confermare che i suoi dieci zecchini sono in pericolo; sarebbe sempre veritiero se, in quanto a donne, non dovesse inventare perchè non ne ha molti da spendere per le loro grazie; ed è capace pure d'intenerirsi alla disperazione di Placida, che proprio lui stava per dirottare da Leandro; e, lo spione, davvero non credeva di farlo. Tuttavia la dote di fondo che lo pone quasi fuori della malignità è l'inconsapevolezza, risorsa da cui sono attinte non poche sequenze paradossali, alcuni fra i suoi gesti memorabili: la trionfale marcia per portare in consegna gli orecchini a Vittoria; l'alterco per entrare in terzo nel matrimonio; il crollo tragicomico della sua dignità: « A un par mio? non vi anderà... e sto cheto?... - Signor Don Marzio?... un par mio? non vi anderà... e sto cheto?... ...Caffè! » ; la sticomitia indimenticabile: «Trappola?... - Signor Don Marzio?... - Chi sono costoro? - Mi pare l'onorata famiglia - ».
Anima del divertimento della commedia, nel terzo atto la sua caricatura trapassa a storia di carattere, le fila dell'analisi psicologica si rannodano. Di fronte ai fatti, comincia a vacillare il compatto di spregio del prossimo: gli ultimi suoi strali sono di stizza: « Oh pazzi maledetti! » « Gli ha guastato il tuppé » (a Eugenio e Vittoria rappaciati) « Tutta la loro entrata consiste in un mazzo di carte » (a Leandro e Placida ricongiunti). Comincia a vacillare la certezza di avere in ogni caso ragione. Il personaggio « è portato allo specchio »; le circostanze da lui stesso create mandano in frantumi il mito che si faceva di sé. E mentre crede ancora che qualcosa della sua dignità non l'ha compromessa: « A me che sono l'uomo più onorato del mondo? » « Io non ho mai commesso una mala azione », cala il colpo di grazia: «spione!». Nello specchio egli ora si riconosce e riesce a distinguere che intorno ci sono... gli altri.
Don Marzio, solo e scacciato nel campiello, non è più un carattere ridicolo, è persona che dubita e patisce. Egli è già in uno dei caratteri di Teofrasto e non è lontano dalle creature di Pirandello? Se non che il punto crisi del personaggio non è la pena di aver perduto il suo « errore » , è cosa più semplice e serena.
A cercare l'unità poetica de La bottega del caffè si corre rischio di non trovarla o di sfiorare valutazioni unilaterali. L'autore stesso c'era passato per l'insidia del suo soggetto; e se poteva indicare con soddisfazione la novità audace: « ...ho l'onore di rispondere che nel titolo di questa commedia non presenta una vicenda, una passione, un carattere; ma una bottega di caffè, ove avvengono in una volta varie azioni, e dove concorrono parecchi per diversi interessi, onde se ho avuto la fortuna di stabilire un rapporto essenziale fra questi oggetti differenti, rendendo gli uni agli altri necessari, credo certamente di avere appieno adempiuto il mio dovere... », sentiva al tempo stesso le « difficoltà maggiori » cui aveva dovuto far fronte e non era sicuro che il modo come le aveva superate accontentasse « i rigoristi » . « Ecco un'unità di luogo esattissima, questa volta i rigoristi saranno contentissimi di me, ma lo saranno «poi dell'unità d'azione? Non troveranno forse che il soggetto della « commedia è complicato, diviso l'interesse? ». In altri termini, tra le righe è come ammesso che l'unità, non quella canonica aristotelica, quella poetica, egli non è riuscito ad afferrarla.

La sequenza, strana e inverosimile (scene XXIII e XXIV dell'atto II) di mariti che minacciano di spada le mogli e di un caffettiere che riassesta tutto, è proprio il punto dove lo scheletro del racconto scricchiola e mostra la debolezza della giuntura. A chi sarà capace nella trilogia della Villeggiatura di stabilire con intelligenza intimista « il rapporto essenziale tra gli oggetti differenti », il rapporto antitetico smanie-realtà, non era certo sfuggito che anche La bottega poteva avere il suo nodo nello scontro maldicenza ironica di Don Marzio - intriganza affettuosa di Ridolfo. Ma forse gli prese la mano l'entusiasmo per un carattere: « vi è poi un maldicente ciarlone, soggetto veramente comico e originale, uno di quei flagelli dell'umanità che... » .
E Don Marzio, con l'invadenza della sua classe... vogliam dire poetica, ha distratto anche i criteri. « La bottega del caffè è Don Marzio... » e ha fatto considerare, la maldicenza come l'atmosfera e il disegno . lirico del componimento: « ...i tavolini sulla strada, intorno crocchi di sfaccendati intenti dal loro comodo osservatorio a studiare a commentare la vita circostante, gli affari della casa vicina, il movimento dei passanti: per ognuno una notizia sussurrata misteriosamente, un'insinuazione, un frizzo, un sorriso malizioso: pettegolezzo borghese di provincia ». No, non siamo in « quanti personaggi... »; questa commedia ebbe un successo brillantissimo; infatti l'insieme e il contrasto dei caratteri non potevano «non incontrare ». E non siamo neppure nel clima maldicente da tardo Ottocento. Il clima è settecentesco e veneziano. Se è vero che il poeta ha inventato ne La bottega una quarta unità, una quarta dimensione del dramma, l'unità luogo-azione, l'atmosfera è quella di un campiello, nel quale la maldicenza è solo un elemento e un colore; dove l'accadimento ha come una necessità ingenua naturalistica, lo scontro sociale è mescolanza arguta e libera di ceti, la malizia ha ancora una leggerezza e grazia che non corrode: e fra le persone c'è la confidenza partecipe del contatto consueto.
Se è vera l'unità luogo-azione, è vero anche che la scena parla, che non è solo l'artificiata macchina che nasconda il grezzo del palco e dia l'illusione dello spazio, è anche personaggio. E pare che nell'episodio del pranzo sia anch'essa ad animarsi, ad entrare a parte della «coralità» goldoniana: quel portoncino dal quale deve comparire Lisaura, quella scaletta su cui indugia la galanteria, quelle finestre che s'aprono quasi su una nuova stagione, quella strada per cui passano gli occhi belli di Vittoria, quella gaiezza che s'effonde e anima per contrasto due « interni », i rammarichi di Ridolfo e la attesa inquieta di Placida... Ma nel processo a Don Marzio la scena addirittura ha voce. Il luogo si fa testimone d'accusa in quel prorompere dell'esclamazioni delle íncriminazioni delle ingiurie non solo da ogni bocca ma pare da ogni vano del campiello agitato; il luogo... recita lo sdegno e il ripudio. Al monologo di chiusa, mentre la sera avanza per la scena deserta, i personaggi tacciono e non sono più in vista, tranne Don Marzio, il colpevole, che si allontana; nel silenzio e nel gesto di questo momento, quelle finestre « ostilmente serrate » , quelle porte delle botteghe, aperte ma come sprangate dal disprezzo, sono ancora parola, una parola spiccatamente teatrale, la ultima battuta del dialogo.


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