Nelle lezioni napoletane del 1872, Francesco De Sanctis proponeva
una tripartizione in gruppi dei personaggi del romanzo: "un gruppo
ideale del bene, un altro ideale del male, e un gruppo intermedio,
che tiene dell’uno e dell’altro, e perciò più volentieri e più
spesso si accosta al comico che al grave, al nobile. [...] Quello
che ha più carattere geniale è il gruppo intermedio, e colui che in
modo più pieno lo rappresenta, è don Abbondio". La fortuna di don
Abbondio presso i critici e lettori è stata davvero grande: al
curato che con la sua pavidità dà inizio alle vicissitudini dei due
promessi- "natura buona e pacifica, sincera e passiva, subitanea
nelle sue impressioni, originale ne’ suoi giudizi, con scarsa
coscienza di se e con nessuna coscienza degli altri, egli è
l’inconscia macchina da cui escono tanti avvenimenti" dedica,
appunto, pagine fondamentali il De Sanctis. Il quale insiste,
rispetto a personaggi di più alta statura religiosa e morale, come
il cardinale Federigo, sulla sua identità di "individuo
compiutamente libero, con una idealità sua propria, col suo
carattere, con la sua fisionomia, co’ suoi fini e co’ suoi mezzi".
Dal
canto suo Luigi Pirandello nel saggio su L’umorismo (1908), muovendo
dalla tesi secondo la quale l’umorismo è provocato dalla riflessione
che, esercitandosi sull’ideale, induce nello scrittore il sentimento
del contrario, vede in don Abbondio l’incarnazione del contro ideale
il "sentimento del contrario oggettivato e vivente", e quindi una
creazione non soltanto comica, ma genuinamente umoristica: "Dove sta
il sentimento del poeta? Nel disprezzo o nel compatimento per don
Abbondio? Il Manzoni ha un ideale astratto, nobilissimo della
missione del sacerdote su la terra, e incarna questo ideale in
Federico Borromeo. Ma ecco la riflessione, frutto della disposizione
umoristica, suggerire al poeta che questo ideale astratto soltanto
per una rarissima eccezione può incarnarsi e che le debolezze umane
sono pur tante. Se il Manzoni avesse ascoltato solamente la voce di
quell’ideale astratto, avrebbe rappresentato don Abbondio in modo
che tutti avrebbero dovuto provar per lui odio e disprezzo, ma egli
ascolta entro di se anche la voce delle debolezze umane. [...] Sì,
ha compatimento il Manzoni per questo pover’uomo di don Abbondio; ma
è un compatimento [...] che nello stesso tempo ne fa strazio,
necessariamente. Infatti, solo a patto di riderne e di far ridere di
lui, egli può compatirlo e farlo compatire, commiserarlo e farlo
commiserare. Ma, ridendo di lui e compatendolo nello stesso tempo,
il poeta viene a ridere amaramente di questa povera natura umana
inferma di tante debolezze; e quanto più le considerazioni pietose
si stringono a proteggere il povero curato, tanto più attorno a lui
s’allarga il discredito del valore umano. Il poeta, insomma, ci
induce ad aver compatimento del povero curato, facendoci riconoscere
che è può umano, di tutti noi, quel che costui sente e prova, a
passarci bene la mano sulla coscienza".Le pagine che seguono su don
Abbondio sono tratte dal libro Manzoni. Storia e provvidenza di
Ferruccio Ulivi (n. 1912). Storico della letteratura italiana, già
docente dell’Università di Roma, e narratore, Ulivi ha proficuamente
dedicato molta parte della sua attività di studioso al Manzoni,
pubblicando altri saggi (Il Manzoni-lirico, 1950; Dal Manzoni ai
decadenti 1963; 11 romanticismo e A.M., 1965; Figure e protagonisti
dei "Promessi sposi", 1967), nonché una biografia (Manzoni, 1984).
Don Abbondio, "un vinto perpetuo"
Per scoprire precedenti alla figura di don Abbondio, si potrebbe
frugare nei più diversi repertori letterari, fra antichi e moderni,
e dargli come lontani parenti ora la maschera comica del pauroso
dell’antico teatro, che prende bette da tutti ed è ventura se salva
la pelle; ora la figura del buonsenso sbalestrato nelle più diverse
avventure, alla stregua degli scudieri medievali, dei servi e
buffoni delle commedie ch’essi condiscono con salaci commenti, fino
all’inimitabile Sancho; ora l’inevitabile presenza comica che
alleggerisce l’atmosfera dei romanzi storici mentre ne arricchisce
il campionario umano. Partendo da questi presupposti, del resto
vagamente attendibili, che possono aver incoraggiato lo scrittore a
mettere in scena il personaggio, l’arte del Manzoni si schiude in un
ventaglio così vario che la figura del modesto parroco brianzolo ha
finito per assumere un significato proverbiale: che è il punto della
massima distorsione psicologica, ma anche la controprova della
coerenza e originalità di un’intuizione artistica; e si aggiunga
all’aspetto d’arte quello morale, in quanto invita a far convivere
il personaggio lungo i casi della vita.A confronto tuttavia di
altre, il raggio d’azione della figura manzoniana sembra tutt’altro
che facilitante, poiché prospetta su una società piccola,
rattrappita, e lo scenario rasenta i limiti del banale [...].
L’ambiente in cui siamo portati è un ambiente senza tempo
abbandonato a se stesso, se non fosse il connettivo religioso
all’ombra del campanile. Di questo tipo di società, che era forse il
più consono alle tristi peripezie italiche, sempre destinate a
sbandare fra l’idillico e il tragico, un idillio in fondo
amareggiato, un tragismo che veniva poi a smorzarsi nella rassegnata
pacatezza delle abitudini, naturale rappresentante era il parroco,
ed è giusto che sin dapprima lo scrittore fermi il tono del discorso
sul punto idillio-tragedia. Don Abbondio, che sta nel mezzo, è il
commentatore disilluso dell’uno e l’altro versante, e quando il
racconto tenderà a elevarsi di tono, sarà la sua presenza a
riportare al giusto l’ago della bilancia [...]. Da ricordare che non
a caso il romanzo, iniziato con la grande paura di don Abbondio,
finisce col suo grande respiro di liberazione alla conferma della
morte del persecutore. A quel punto non c’è davvero che chiudere, o
vedere dove possa rinnovarsi in altro modo l’idillio; all’ambiente
sul lago, a quella sua atmosfera piccolo-artigiana e contadina, i
due nostri protagonisti non hanno più nulla da dire. E don Abbondio
rimane dominante, figura inalienabile sulla prospettiva che
sappiamo. È chiaro ch’egli non è in alcun modo un individuo di
rilievo, e i suoi casi esemplificano il ritmo di vita di una
comunità elementare, coinvolta nelle grandi ondate del secolo in
modo completamente passivo. A questa società i secoli hanno appreso
soprattutto una cosa, la rassegnata resistenza agli eventi [... ].
In linea di ascendenze manzoniane, don Abbondio è l’erede naturale,
debitamente sdrammatizzato, di quei Romani del primo coro
dell’Adelchi che sperano salvezza da fuori, e somigliano a un volgo
ignoto, privo di nome. Anche il nome dell’uomo appartiene a questa
classe; è il nome, comunissimo, del santo protettore della regione
costiera. Prete si è fatto per la ragione più disarmante: per
trovare da allogarsi in una classe "riverita e forte" [...].Don
Abbondio non si occupa [...] affatto ad usufruire dei vantaggi della
propria classe; ne trae soltanto gli aspetti difensivi, a
preservazione del suo io privato. Non solo, ma organizza la sua
mentalità a "sistema": un sistema attentamente elaborato,
sfaccettato nei comportamenti più minuti, a suo modo un piccolo
congegno, una piccola opera d’arte, il cui risultato è di garantire
l’entità, la monade, il soggetto don Abbondio come un’ostrica nel
suo guscio. Vengano carestie, guerre, pestilenze; don Abbondio le
guarderà con un distaccato interesse, apparentemente simile al
comportamento del cristiano nel mondo. Per tutto e tutti potrà avere
benissimo una sua parola parificante, un generico balsamo di
commiserazione: questo vogliono le norme del comportamento
cristiano, specie ecclesiastico. Ma il fatto è che tutto dovrà,
dovrebbe, lasciar indenne l’unico sostanziale interesse di quell’esistenza;
non un interesse morale di qualsiasi specie, attivo oppure passivo,
affermativo oppure negativo, diretto o no all’affermazione di certe
convenienze, credulità, principi; ma un interesse tutelare del
proprio nucleo, accuratamente differenziante quell’unicum dal mondo,
l’individuo nella propria solitudine morale, sociale, economica. Qui
è il centro del suo universo. Quando Manzoni infatti scrive ch’egli
è "assorbito continuamente ne’ pensieri della propria quiete", non
ci dà soltanto come potrebbe sembrare un giudizio morale, ma il
senso profondo, nonché la psicologia di una certa versatilità
dell’uomo. La "quiete" è poi anche il diffuso stato d’animo che
ingenera nell’uomo un alone di beatitudine, è il corrispettivo
rallegrante della preoccupazione che si è imposta. Certo egli è
sempre all’erta col suo stato d’animo, con sfumature da
moralizzatore; come c’imbattiamo in un moralizzatore, staremmo per
dire un moralizzatore appagato, un "arrivato" nel suo particolare
modo d’essere, quando poco prima d’incontrare i bravi, come ci
apprende l’inesorabile veridicità manzoniana, "diceva
tranquillamente il suo uffizio, e talvolta, tra un salmo e l’altro
chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l’indice della
mano destra, e, messa poi questa nell’altra dietro la schiena,
proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un
piede verso il muro i ciottoli che facevano inciampo al sentiero. .
. "Come avviene solo in pochi autori, in poche righe di un’apparenza
sommessa Manzoni ci dà un piccolo saggio esemplare di metafora del
costume. Si capisce che l’individuo è un attempato, il quale si è
fatto una norma, si direbbe, igienica dei gesti e degli
atteggiamenti che assume. Proprio come succede a chi è avvezzo a
speculare dentro di sé, quasi meccanicamente si fa prender la mano,
cioè il piede, dal "sistemati, buttando verso il muro i ciottoli che
ingombrano la strada senza la minima ragione acché ci stiano. Chiaro
anche qui ch’egli vezzeggia un suo sogno o illusione, quella di un
mondo tranquillo dove a nessuno possa venire in mente d’arrecar
disturbo altrui, [...] e che lo ha indotto a fare l’indignato
moralizzatore nei crocchi degli amici più fidi -"a quattr’occhi, o
in un piccolissimo crocchio" come dirà avanti - e poi qui a spese
della natura inanimata: cercando di mettere a ragione i ciottoli...
Non basta; in quella famosa passeggiata, dopo aver fatto il lavoro
coi piedi, "alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi
all’intorno, li fissava alla parte d’un monte, dove la luce del sole
già scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva
qua e là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di
porpora". Nell’idillismo non mancano dunque le attrazioni di quelle
che diremmo, sia pure ai fini di un don Abbondio, le bellezze del
paesaggio; paesaggio che a una fantasia di poco volo come la sua
richiama il pensiero di una costosa "pezza di porpora" (notazione
oltre tutto verissima pensando alle tonalità del sole nel tardo
autunno, che torneranno, non meno smaglianti né meno fredde,
all’inizio del cap. IV, quando padre Cristoforo si dirige a casa
delle due donne). Per capire ulteriormente la piccola digressione
descrittiva a cui abbiamo assistito, si noti l’accentuarsi del
"tema" della quiete. Don Abbondio riapre il suo breviario e arriva a
una svolta della strada "dov’era solito d’alzar sempre gli occhi dal
libro, e di guardarsi dinanzi; e così fece anche quel giorno". E
proprio qui scatta la trappola: scatta, cioè, la sorpresa. Siamo
arrivati con la più ovvia disinvoltura al primo, sarcastico, fatale
urto, che il sistema pacioso di don Abbondio è votato a subire
all’incontro col mondo: quel mondo, ciottoli, bravi, vessatori, e
magari bravi parrocchiani e presuli santi che siano, che non vuoi
saperne di ridursi a ragione: alla modesta ma essenzialissima
ragione di lui [...].La comicità di don Abbondio dipende proprio da
questo continuo dislivello tra se e la vita, tra le ragioni ch’egli
difende con tanto zelo e si può dire con tanto ingegno, frutto
d’esperienza vissuta, e quell’incomprensibile, immitigabile,
irriducibile realtà, che con la sua esigua vena missionaria egli
tenta invano di scongiurare. Comica è la lotta delicata, affabile,
circuente ch’egli tenta: coi bravi, che non vogliono intendere
ragioni, e alla fine sigillano il tutto con una "buona bestemmia" e
gli tappano la bocca col terribile nome, che, una volta glielo
estorca Renzo, don Abbondio sa quanto è grave il suo sacrificio,
ingiusta la pretesa dell’antagonista; col cardinale, che lo spedirà
al castello del neoconvertito un istante dopo quella strana, quanto
meno opinabile, trasformazione; con lo stesso cardinale a tu per tu,
che, santo e intelligente com’è, spreca forze e intelletto a frugare
in se e in altri, e, una volta che gli mette avanti nientemeno i
santi martiri della Chiesa, lui gli spiattella senza mezze dosi la
sua sacrosanta legittima "paura". [...]. Se il superiore gliel’ha
cantate, l’inferiore non si è mangiato la lingua: ha dovuto
mordersela. Una volta messo allo sbaraglio e stanato, don Abbondio è
capace davvero di tutto: persino di commuoversi, di arrendersi
altrui, di piangere. Ma vivaddio, lo si lasci rientrare nel proprio
guscio, e si vedrà se abbia inalienabili diritti, se abbia diritto
di difendersi, di proteggersi. Tanto che la Provvidenza alla fine si
prende cura di lui, e gli dà come estrema consolazione dei suoi
giorni, in questo episodio dei due promessi sposi, la morte per
merito della peste di don Rodrigo, col trionfo del suo sentimento di
giustizia e della sua condiscendente bontà, conseguendo
l’avvenimento delle nozze lui celebrante, nonché la pioggia di
benefizi a profitto delle sue pecorelle per mano del degnissimo
marchese erede. È una esistenza esemplare la sua (così crede in
buonissima fede), contegnosa pur negli indispensabili accorgimenti
della cautela, del dolus bonus; o avrebbe dovuto buttarsi allo
sbaraglio, giocando non si sa per qual causa lo stesso bene più
prezioso, la vita? Un’esistenza che gli è stato difficile forgiare,
a cominciare dal sacrificio dell’andata in seminario, dove i
superiori avevano forse insistito più del giusto sugli obblighi
dell’ufficio di pastore; per arrivare, riferimento piccolo eppur
rispettabile, a quel gruzzolo di assidui risparmi, che altri (Tonio)
mostrava di apprezzare così poco con le continue dilazioni a
restituire. Un’esistenza nella cui ratio è difficile sperare che
altri entri, e in fondo a don Abbondio non è interessato troppo che
entrasse: gli bastava che la rispettassero. Ma anche gli avversari
alla fine avrebbero dovuto apprezzarlo; si sa ad esempio che
l’apprezza Agnese, quando dice al cardinale: "non lo gridi... e poi
non serve a nulla: è un uomo fatto così: tornando il caso, farebbe
lo stesso"[cap. XXIV]. Un "uomo fatto così": cioè disposto a tutto
pur di non farsi letteralmente depredare del bene supremo; qui anche
il signor cardinale trovava, com’è giusto, una legittima ripulsa.
Semmai, in quel suo modo di organizzare la vita, restava oscuro il
motivo per cui, a un certo momento, le cose gli giravano in senso
opposto sotto gli occhi, e sembrava davvero che qualcuno si
prendesse gioco di lui. Dove dunque veniva a spuntarsi il suo
"sistema"?La dottrina manzoniana della vita, sarà ormai apparso
chiaro anche a chi volesse credere agli spiriti riposatamente
confortevoli del romanzo, s’ispira anzitutto, fondamentalmente, a un
sentire attivo, eticamente dinamico, che non consente rilassamenti,
a pena d’incorrere altrimenti nella presa di parte diametralmente
opposta: la correità col male. È certo in ogni modo che, agli occhi
del Manzoni, don Abbondio ha agito vilmente, e per di più
sconsideratamente; è quel che gli rimprovera lo stesso cardinale,
che anche i normali accorgimenti, ovvero i "ripari umani", bene
usati, non mancano di efficacia, e così sovvengono allo stizzito don
Abbondio i "pareri di Perpetua", le "ragioni di Perpetua". Per
neutralizzare l’accusa che a questo punto (o altrove) sorgerebbe, e
finirebbe per travolgere la figura sotto un peso insopportabile, lo
scrittore non ha che un mezzo: puntualizzare il carattere nel senso
del rilievo patologico, percorrendo più o meno la via dei ritratti
del teatro classico, dal servo astuto all’avaro plautino o
molieresco, grazie a un attributivo, la paura, che s’insinua con
insanabile autenticità fra l’arduo richiamo evangelico e il senno
del banale egotismo. E mai forse come qui Manzoni ha toccato una
prospettiva classica, ha cioè radicalizzato la figura lungo la scia
di una logica per nulla realistica; sì che non abbiamo affatto
un’individuazione di tipo romantico (un unicum, un’impareggiabile
individualità e intimità), ma un ritratto di ragione universale, un
topos, una maschera in quel che umanamente genuino possiede, come ne
possiedono Arpagone, don Giovanni, Colombina. Una maschera che si
cela fra le pieghe della bonarietà stizzita, del legittimo senso
comune, in un gioco di luci e ombre, di simpatia contingente, a
rapide, folgoranti penetrazioni che formano l’ineguagliabile impasto
del personaggio. Don Abbondio spunta da un clima tra idillico e
burlesco, ma subito è chiamato a un rendiconto che lo disorienta, lo
sconcerta, e col povero uomo scombussolato non possiamo a meno di
sentire una certa solidarietà: di specchiare in lui certi vizi o
deficienze. Siamo sospesi fra il riso e la compassione, fra il
sorriso, e inevitabili riserve. Quando si aggira fra una situazione
e l’altra coi suoi sommessi brontolii, don Abbondio fa più o meno la
figura di un personaggio da commedia, in lui s’indovina però uno
spessore diverso, il contrapposto morale o religioso è troppo forte
per lasciarlo passare indenne. L’area d’azione di don Abbondio si
stende sul terreno del comico, del risibile; lì è veramente
impareggiabile, e lo scrittore approfitta del caso senza scrupoli
(si vedano, caso esemplare, le battute del soliloquio durante il
viaggio al castello [cap. XXIII]). Lo scontro avviene di rimpetto al
cardinale. E qui, con le sue scappatoie insostenibili, don Abbondio
diventa qualcosa più che buffo: diventa un comprimario. Se ha delle
carte da spendere, deve buttarle sul tavolo. Ebbene, quelle carte si
riducono a una, ma di uno sconcertante rilievo: la paura come "a
solo", la paura come folgorazione totale dello spirito. È una
prospettiva, un va fondo" nell’animo umano che si impone anche a
Federigo, che si fa subito pensoso: che si atteggia di colpo "a una
gravità compunta e pensierosa" [cap. XXVI], riconoscendo lo spazio
che bisogna attribuire al suo interlocutore. Ed è in questo stesso
momento, in questo confronto, che anche la malattia radicale di don
Abbondio, l’abile plasmatrice e deformatrice di tutta la sua natura
etica, la paura, sale a valore testimoniale, e ci si chiede se possa
essere se non indulta per lo meno pietosamente ricompresa nel
finalismo evangelico. È un punto in cui, per vincere la pasta umana,
come Federigo dichiara, non ci sarebbe che un mezzo: trascendersi
per forza d’amore, e sanare le proprie piaghe con la virtù sanatrice
della preghiera. Contro la natura umana, che è il termine più
difficile a sconfiggere, il Vangelo non ha dunque che questi umili
dettami: l’umile coscienza di se, la carità, la preghiera. Ed è la
sanatoria a cui alla fine anche don Abbondio si appiglia: e si veda
la sua pur effimera commozione. Dopo averci illuminato sulla amara
regola della vita, che dà regolarmente scacco a chi non sa
affrontarla in modo intrepido vuoi ai lini del bene che a quelli del
male, e ha ridotto così un don Abbondio a un vinto perpetuo con
l’irridente puntualità che sappiamo, dopo aver ribadito cioè
l’esigenza eroica non solo della legge morale ma della legge
esistenziale, e averci mostrato le travagliose peripezie di chi si
illude di sottrarsi riducendosi a una specie di nucleo tutto
compatto, un "sistema chiuso" all’interno come un’ostrica, ma un
nucleo che chiunque può prendere a calci sballottandolo, Manzoni ci
mostra il contravveleno a questa radicalizzazione nel senso umano
dell’individuo, appunto la medicina dell’amore e della preghiera.
Non a tutti è chiesto lo stesso grado di coscienza; don Abbondio non
sarebbe certo in grado di razionalizzare con superiore saggezza la
sua paura, e non è davvero in grado, lui così mediocre, di
assaporare il veleno del male come ha fatto l’innominato. Con una
natura come la sua, fondata su reazioni secondarie anche se
complicate, le controreazioni non potranno essere che parimenti
esistenziali: accanto al senso del male fatto agli altri il
dispiacere di averlo fatto, accanto a una prima nozione di colpa uno
spunto di amore per il prossimo. Tutto questo lo scrittore dice con
la solita veggente acutezza, senza alcunché in più o meno: "sentiva
un certo dispiacere di sé, una compassione per gli altri, un misto
di tenerezza e di confusione". Segue poi, più che paragone, la
stupenda metafora dello stoppino umido e ammaccato d’una candela che
alla fine brucia. È chiaro che quel presupposto di maschera che lo
scrittore ha fatto balenare rientra in una dimensione flessibilmente,
sensibilmente umana, e don Abbondio, lunge da riuscire un prototipo,
appare alla fine un monotipo, un inconfondibile esempio della
capacità manzoniana di articolare ogni immagine nella piena
latitudine morale.
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