Il finale del romanzo ha suscitato sempre reazioni vivaci tra i
lettori; fin dal suo apparire i recensori trovarono superflui gli
ultimi capitoli, ma già un contemporaneo, il Tommaseo avanzava il
sospetto che la conclusione posta in bocca ai poveri eroi non fosse
certamente il ‘sugo della storia’, dato che ogni pagina è piena di
preziose novità. A Tommaseo la conclusione appariva ambigua,
polivalente, non rivelava un’unica intenzione. I lettori
contemporanei hanno opposto resistenza a quello che è stato definito
"l’inconscio desiderio di ottimismo nella massa dei lettori".
Secondo lo Jemolo, anzi, "il romanzo lascia un senso austero e
pauroso della imperscrutabile volontà di Dio. Il Manzoni non ha
perso l’occasione per sottolineare, in contrasto con un certo tipo
di tradizione romanzesca, le ombre e le sfumature che inquinano la
felicità degli sposi; e soprattutto, si noti, quella di Renzo, più
legato della moglie alla mentalità terrena." Infatti il percorso del
romanzo è troppo carico di eventi dolorosi, di violenze, di
sopraffazioni, di tradimenti. La visione della storia dissuade,
pagina dopo pagina, da ogni illusione di ricomponibile idillio.
Insomma la finale ricomposizione dell’atmosfera quotidianamente
tranquilla non sa tacitare il sospetto che si tratti di una pausa,
che tuttavia non può eludere il destino di precarietà che grava
sull’uomo. In una lettera al Fauriel Manzoni diceva di sentire
profondamente quanto vi fosse d’incerto, pericoloso e persino
terribile nella felicità, fosse pure la più calma e modesta. Un
libro di Raimondi ("Il romanzo senza idillio") nega recisamente la
sostanza idillica del romanzo, cui sarebbero decisamente estranei
perfino gli elementi materiali nominati nel racconto: polenta,
stufato, polpette. Sono poveri cibi assurti a dignità letteraria in
un contesto dove la speranza del benessere si accampa con molta
difficoltà eppure tenacemente. Certo, osserva Raimondi, il romanzo
si chiude con un apparente lieto fine, da commedia, ma questo ‘sugo
della storia’ che si esprime nella riconquistata quiete di don
Abbondio, che non è cambiato, nella ‘maturazione’ o
pseudo-maturazione di Renzo, che sciorina i suoi ‘ho imparato’, è
poi corretto dalle frasi dubitative di Lucia. Insomma il traguardo
finale di quiete che hanno raggiunto i protagonisti, vario secondo
ciascuno di loro, è poi deformato, rifiutato, in sostanza
neutralizzato. Solo la sapienza che viene dalla fede aiuta Lucia a
capire che la tranquillità non offre nessuna garanzia di stabilità,
né - ed è la cosa più importante - può intendersi come segno
dell’approvazione di Dio, proprio come i guai toccati a lei, che non
li aveva cercati, non erano segno di riprovazione. Le parole della
saggia sposa fanno riferimento all’imperfetta unione di virtù e
felicità nella storia: quei guai non cercati non sarebbero
schivabili nemmeno con i tanti (e magari con altri) ho imparato di
Renzo. Certo, il racconto si chiude con i due sposi fissi nel loro
sorriso, ma, per conto suo, il lettore dovrà continuare a sentire in
sé la tensione del libro, tra pessimismo cristiano e volontarismo
attivistico, tra l’insopprimibile sentimento di giustizia e la
constatazione del male della storia. Anche la D’Ambrosio Mazziotti,
ricordato il giudizio di Jemolo, propende anch’essa per riconoscere
al Manzoni un fondamentale pessimismo esistenziale che, sebbene in
genere riassorbito dalla luce consolante della fede, non esclude
talvolta il manifestarsi di un vero senso tragico della vita: chi
non ricorda... la sconvolgente immagine del ‘fanciul severo’, che...
sembra ignorare il ‘trepido prego degli uomini’? (E’ il Natale
1833).
MONTANARI - PUPPO: "Non sarebbe esatto intendere la
definizione (Epopea della Provvidenza) nel senso di un’azione
trionfale della Provvidenza nel mondo. Anche se alla fine i casi dei
due promessi sposi sembrano avere una soluzione positiva, le
ingiustizie, le violenze, le sofferenze patite da loro come da tanti
altri non trovano veramente un compenso in questo mondo. I conti di
qui restano aperti e si saldano soltanto nell’al di là. Nel mondo
trionfa normalmente quell’apparente giustizia, e reale ingiustizia,
che è la giustizia degli uomini... Pur con la fiducia nella
Provvidenza, che infonde nei suoi personaggi, anche nei P.S. il
Manzoni ha una visione pessimistica della vita terrena, che comporta
fatiche e pene per tutti, anche per i giusti e gli innocenti."
SCIASCIA (Sicilia come metafora): "Manzoni ha tracciato un
ritratto disperato dell’Italia, ma la verità profonda dei P.S. non è
stata ancora colta. La sua opera è generalmente vista come il
prodotto di un cattolico italiano piuttosto tranquillo e
conformista, quando invece si tratta di un’opera inquieta, che
racchiude un’impietosa analisi della società italiana di ieri e di
oggi e delle sue componenti più significative. Un libro…che contiene
tutta l’Italia, persino l’Italia che più tardi sarà descritta...".
SANSONE (I Maggiori): "Quando Manzoni componeva il suo
romanzo usciva via via dal doloroso pessimismo delle tragedie e non
vedeva più soltanto la morte e la rassegnata soggezione alla
sventura come sole forme di liberazione dalla vita dolorosa, ma
sentiva la vita stessa come prova sorretta dalla fede ed animata
dalla speranza… Tutto il ritmo dell’esistenza non si prospetta come
una vana ed impari lotta tra forza e diritto, oppressori e oppressi,
ma come un aperto spettacolo di peccato e di redenzione, di dolore e
di gioia, dove ognuno ha la sua parte di bene e di male. La vita è
una prova non solo per i buoni, ma per tutti, e riemerge sempre
sacra col suo eterno ritmo, sopra l’eterno e necessario confliggere
e comporsi delle miserie e delle grandezze [...] la dolorosa
compassione manzoniana si fa più solenne di fronte alle sofferenze
anonime o ai dolori collettivi [le folle, la carestia, la guerra, la
peste]... Questi quadri, nei quali il dolore non rispecchia una
responsabilità individuale, ma appare come il risultato necessario
dell’umano delirare e sofisticare, sono, senza dubbio, i più
poeticamente solenni di tutto il romanzo."
Con molto equilibrio e, mi pare, con grande persuasività ALBERTI
collega la ‘scoperta’ del protagonismo di Renzo e Lucia con una
visione della vita aspra ma non disperata. "Certo il Manzoni aveva
conosciuto questa gente (gli umili) fin da quando il Vangelo,
riscoperto attraverso i nuovi ideali democratici glieli aveva
rivelati; ma per avvistare e individuare Fermo e Lucia nella fiumana
di secoli, per riconoscerli fratelli lui, privilegiato fin dalla
nascita, c’era voluto altro. Neppure erano bastati gli ideologi e i
nuovi storici francesi: non era bastata... la scoperta delle
popolazioni italiche di quei secoli oscuri, passate sulla terra
‘senza lasciare traccia’... C’era voluta... la piena consapevolezza
che lo stato d’oppressione, di soggezione, di servitù, è lo stato
più comune su questa terra, e al quale non v’è da opporre che una
sola cosa: la solidarietà attiva dell’amore, unica fonte di vera
libertà... Per questo l’oscuro filatore di seta Renzo Tramaglino
diventerà il protagonista non solo di una storia, ma della Storia...
Se la scriveva lui, Alessandro Manzoni, era solo perché "sapeva di
lettere".
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