LETTERATURA ITALIANA: PROMESSI SPOSI

 

Luigi De Bellis

 


 

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PROMESSI SPOSI






IL PESSIMISMO E LA FIDUCIA NEL ROMANZO
autori vari


Il finale del romanzo ha suscitato sempre reazioni vivaci tra i lettori; fin dal suo apparire i recensori trovarono superflui gli ultimi capitoli, ma già un contemporaneo, il Tommaseo avanzava il sospetto che la conclusione posta in bocca ai poveri eroi non fosse certamente il ‘sugo della storia’, dato che ogni pagina è piena di preziose novità. A Tommaseo la conclusione appariva ambigua, polivalente, non rivelava un’unica intenzione. I lettori contemporanei hanno opposto resistenza a quello che è stato definito "l’inconscio desiderio di ottimismo nella massa dei lettori". Secondo lo Jemolo, anzi, "il romanzo lascia un senso austero e pauroso della imperscrutabile volontà di Dio. Il Manzoni non ha perso l’occasione per sottolineare, in contrasto con un certo tipo di tradizione romanzesca, le ombre e le sfumature che inquinano la felicità degli sposi; e soprattutto, si noti, quella di Renzo, più legato della moglie alla mentalità terrena." Infatti il percorso del romanzo è troppo carico di eventi dolorosi, di violenze, di sopraffazioni, di tradimenti. La visione della storia dissuade, pagina dopo pagina, da ogni illusione di ricomponibile idillio. Insomma la finale ricomposizione dell’atmosfera quotidianamente tranquilla non sa tacitare il sospetto che si tratti di una pausa, che tuttavia non può eludere il destino di precarietà che grava sull’uomo. In una lettera al Fauriel Manzoni diceva di sentire profondamente quanto vi fosse d’incerto, pericoloso e persino terribile nella felicità, fosse pure la più calma e modesta. Un libro di Raimondi ("Il romanzo senza idillio") nega recisamente la sostanza idillica del romanzo, cui sarebbero decisamente estranei perfino gli elementi materiali nominati nel racconto: polenta, stufato, polpette. Sono poveri cibi assurti a dignità letteraria in un contesto dove la speranza del benessere si accampa con molta difficoltà eppure tenacemente. Certo, osserva Raimondi, il romanzo si chiude con un apparente lieto fine, da commedia, ma questo ‘sugo della storia’ che si esprime nella riconquistata quiete di don Abbondio, che non è cambiato, nella ‘maturazione’ o pseudo-maturazione di Renzo, che sciorina i suoi ‘ho imparato’, è poi corretto dalle frasi dubitative di Lucia. Insomma il traguardo finale di quiete che hanno raggiunto i protagonisti, vario secondo ciascuno di loro, è poi deformato, rifiutato, in sostanza neutralizzato. Solo la sapienza che viene dalla fede aiuta Lucia a capire che la tranquillità non offre nessuna garanzia di stabilità, né - ed è la cosa più importante - può intendersi come segno dell’approvazione di Dio, proprio come i guai toccati a lei, che non li aveva cercati, non erano segno di riprovazione. Le parole della saggia sposa fanno riferimento all’imperfetta unione di virtù e felicità nella storia: quei guai non cercati non sarebbero schivabili nemmeno con i tanti (e magari con altri) ho imparato di Renzo. Certo, il racconto si chiude con i due sposi fissi nel loro sorriso, ma, per conto suo, il lettore dovrà continuare a sentire in sé la tensione del libro, tra pessimismo cristiano e volontarismo attivistico, tra l’insopprimibile sentimento di giustizia e la constatazione del male della storia. Anche la D’Ambrosio Mazziotti, ricordato il giudizio di Jemolo, propende anch’essa per riconoscere al Manzoni un fondamentale pessimismo esistenziale che, sebbene in genere riassorbito dalla luce consolante della fede, non esclude talvolta il manifestarsi di un vero senso tragico della vita: chi non ricorda... la sconvolgente immagine del ‘fanciul severo’, che... sembra ignorare il ‘trepido prego degli uomini’? (E’ il Natale 1833).


MONTANARI - PUPPO: "Non sarebbe esatto intendere la definizione (Epopea della Provvidenza) nel senso di un’azione trionfale della Provvidenza nel mondo. Anche se alla fine i casi dei due promessi sposi sembrano avere una soluzione positiva, le ingiustizie, le violenze, le sofferenze patite da loro come da tanti altri non trovano veramente un compenso in questo mondo. I conti di qui restano aperti e si saldano soltanto nell’al di là. Nel mondo trionfa normalmente quell’apparente giustizia, e reale ingiustizia, che è la giustizia degli uomini... Pur con la fiducia nella Provvidenza, che infonde nei suoi personaggi, anche nei P.S. il Manzoni ha una visione pessimistica della vita terrena, che comporta fatiche e pene per tutti, anche per i giusti e gli innocenti."


SCIASCIA (Sicilia come metafora): "Manzoni ha tracciato un ritratto disperato dell’Italia, ma la verità profonda dei P.S. non è stata ancora colta. La sua opera è generalmente vista come il prodotto di un cattolico italiano piuttosto tranquillo e conformista, quando invece si tratta di un’opera inquieta, che racchiude un’impietosa analisi della società italiana di ieri e di oggi e delle sue componenti più significative. Un libro…che contiene tutta l’Italia, persino l’Italia che più tardi sarà descritta...".


SANSONE (I Maggiori): "Quando Manzoni componeva il suo romanzo usciva via via dal doloroso pessimismo delle tragedie e non vedeva più soltanto la morte e la rassegnata soggezione alla sventura come sole forme di liberazione dalla vita dolorosa, ma sentiva la vita stessa come prova sorretta dalla fede ed animata dalla speranza… Tutto il ritmo dell’esistenza non si prospetta come una vana ed impari lotta tra forza e diritto, oppressori e oppressi, ma come un aperto spettacolo di peccato e di redenzione, di dolore e di gioia, dove ognuno ha la sua parte di bene e di male. La vita è una prova non solo per i buoni, ma per tutti, e riemerge sempre sacra col suo eterno ritmo, sopra l’eterno e necessario confliggere e comporsi delle miserie e delle grandezze [...] la dolorosa compassione manzoniana si fa più solenne di fronte alle sofferenze anonime o ai dolori collettivi [le folle, la carestia, la guerra, la peste]... Questi quadri, nei quali il dolore non rispecchia una responsabilità individuale, ma appare come il risultato necessario dell’umano delirare e sofisticare, sono, senza dubbio, i più poeticamente solenni di tutto il romanzo."

Con molto equilibrio e, mi pare, con grande persuasività ALBERTI collega la ‘scoperta’ del protagonismo di Renzo e Lucia con una visione della vita aspra ma non disperata. "Certo il Manzoni aveva conosciuto questa gente (gli umili) fin da quando il Vangelo, riscoperto attraverso i nuovi ideali democratici glieli aveva rivelati; ma per avvistare e individuare Fermo e Lucia nella fiumana di secoli, per riconoscerli fratelli lui, privilegiato fin dalla nascita, c’era voluto altro. Neppure erano bastati gli ideologi e i nuovi storici francesi: non era bastata... la scoperta delle popolazioni italiche di quei secoli oscuri, passate sulla terra ‘senza lasciare traccia’... C’era voluta... la piena consapevolezza che lo stato d’oppressione, di soggezione, di servitù, è lo stato più comune su questa terra, e al quale non v’è da opporre che una sola cosa: la solidarietà attiva dell’amore, unica fonte di vera libertà... Per questo l’oscuro filatore di seta Renzo Tramaglino diventerà il protagonista non solo di una storia, ma della Storia... Se la scriveva lui, Alessandro Manzoni, era solo perché "sapeva di lettere".


2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it