Il conte Attilio, anzi lo "spensierato" Attilio - come in cuor
suo, non senza irritazione lo giudica don Rodrigo - svolge nei
confronti del cugino la funzione di "spalla": è infatti lui a
rinfocolare il puntiglio del cugino, ricordandogli la turpe
scommessa che ha per oggetto Lucia (cap. VII); è lui che si impegna
a far allontanare padre Cristoforo da Pescarenico (cap. XI) e a
convincere abilmente il vecchio zio che l’onore della famiglia è in
gioco nella contesa fra il frate e Rodrigo (cap. XVIII). Il compito
che si è assunto di consigliere e quasi regista della vergognosa
impresa trova spiegazione nella sua insensibilità morale, alimentata
dalla consapevolezza di appartenere ad una classe che si reputa (ed
è reputata) al di sopra della legge. Il conte Attilio infatti non è
signorotto di campagna come il cugino, ma appartiene
all’aristocrazia milanese e, certo della protezione garantita dal
potente conte zio, assume un atteggiamento di ironica superiorità
nei confronti di Rodrigo, dell’ambiente provinciale in cui questi
vive, come dimostra, nel capitolo V, durante la discussione con il
podestà di Lecco. Di seguito un efficace ritratto dello
"spensierato" Attilio tratto da Personaggi dei "Promessi sposi" di
Luigi Russo (vd. anche, a p. 249, il profilo di don Rodrigo
tracciato da Eurialo De Michelis).
La "malvagità animale" del conte Attilio
Il conte Attilio ha la superiorità di una certa intelligenza
rispetto al suo cugino; il tono che egli prende è sempre di
protezione e di compatimento, di camerata più forte. Nel banchetto
di don Rodrigo, il conte Attilio è sempre quello che grida più alto,
è quello che vuoi risolvere una questione di cavalleria, bastonando
il portatore della sfida (bastonabile, bastonabilissimo), che vuoi
risolvere la crisi del grano e del pane, impiccando quattro o cinque
fornai dei più ricchi e dei più cani [...] [cap. V]. Il conte
Attilio insomma è un manesco senza rimorsi, che ha le mani leggere,
che accetta, con una certa grazia monellesca, tutte le conseguenze
della sua malvagità. Rozzo e bestiale la sua parte, vive però la sua
malvagità animale come nella più perfetta innocenza. In questa
maggiore leggerezza nel male sta il suo garbo, la sua coerenza, la
sua eleganza; ed in fondo noi sentiamo che Manzoni ha una specie di
indulgenza per lui. È un virtuoso della malizia, un cervello
balzano, uno sbarazzino, un bastonatore cordiale, senza rimorsi, e
senza esitazioni: forse è il solo personaggio’ per cui il Manzoni
tempera l’alacrità del suo giudizio morale, quasi si diverta a
lasciarlo sbizzarrire nella sua agilità di giovane animale. Gli
presta anche una certa serietà, la serietà per alcune menzogne
convenzionali del suo secolo, e tale serietà del falso gli viene in
soccorso per suggerirgli eccellenti espedienti nei momenti
difficili. È lui che aggira quell’uomo solenne e vuoto del conte zio
[cap. XVIII]; è lui che mette in imbarazzo l’Azzeccagarbugli, questo
pio e pacifico mangiatore che vuole sfuggire al giudizio per non
compromettersi nella disputa cavalleresca [cap. V]; è lui che
canzona il cugino, quando lo vede pensieroso dopo il colloquio col
frate, e rifà il verso a fra Cristoforo, che dal pulpito si
vanterebbe di avere convertito un tanto cavaliere, amico più delle
femmine che degli uomini dabbene [cap. Vll]. Insomma in ogni
momento, il conte Attilio ha qualcosa di scanzonato nella sua
cattiveria, che gli dà come una sicura superiorità sul suo compagno
di scapestrerie.l
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