Osservava Benedetto Croce nel 1921 che i
personaggi "medi" del romanzo, che la tradizione critica iniziata
con il De Sanctis ha sempre contrapposto ai personaggi "alti’’, sono
"i personaggi più o meno comici, o piuttosto comicamente trattati",
cosicché si poteva dire che il Manzoni sembra aver collegato alla
lezione dei grandi moralisti francesi del Seicento (Bossuet,
Bourdalone) quella di scrittori satirici come La Rochefoucauld
(1613-1680) e addirittura Voltaire (1694-1778). L’accoppiamento, del
resto, risponde alla cultura e formazione spirituale del Manzoni,
enciclopedista e illuminista dapprima, e di poi cattolico non senza
tracce di giansenismo: sicché in un certo senso può dirsi che egli
raccolse nel suo singolare temperamento quella doppia eredità
storica. La quale ritrovava una comune base nella polemica morale in
nome della ragione o della religione razionalizzata, e si svolgeva
logicamente come da unica radice, perché il moralismo, ponendo un
ideale, pone insieme le immagini di quelli che lo incarnano, di
quelli che lo contrastano, di quelli che vorrebbero incarnarlo e non
riescono, o non l’incarnano ma si danno l’aria di farlo con fazioni
verso altrui e sofismi verso se stessi, e così via per infiniti casi
e gradazioni; e perciò da una parte i paradigmi del nobile e del
turpe e dall’altra quelli del comico’’.Questa attitudine di
moralista e ironista si esercita implacabile sul personaggio di
Azzeccagarbugli, rappresentante della cultura e del ceto
intellettuale del Seicento, severamente giudicati dallo scrittore
anche in altri luoghi del romanzo. Così, per esempio, il Russo
sottolinea, a proposito dell’obiezione mossa dall’avvocato a padre
Cristoforo, circa la questione cavalleresca che infiamma i convitati
di don Rodrigo (cap. V), che "la risposta del dottore rivela il vile
e il leguleio: vile per quel dare addosso alla sentenza del frate
per un ossequio all’opinione dei più forti. Rivela poi la doppiezza
del leguleio con quella sua distinzione ipocrita, una di quelle
distinzioni venute di moda proprio nel Seicento, con la casistica
gesuitica: altro è il dire e altro è il fare; altra la teoria, altra
la pratica; altro il dover essere, altro l’essere; una cosa la
verità detta dal pulpito, un’altra la verità spicciola per l’uso
quotidiano. All’avvocato potremmo paradossalmente riferire le
caratteristiche negative di tutta un’epoca, secondo quanto scrive il
Manzoni nella lettera al Fauriel dell’agosto ’23 (vd. pp. 107-108):
"tutto ciò che pUò far fare agli uomini una meschina figura [nel
Fermo e Lucia] c’è in abbondanza; la saccenteria nell’ignoranza, la
presunzione nella stolidità, la sfacciataggine nella corruzione". Di
seguito un ritratto del "dottore" di Giovanni Getto (n. 1913), uno
dei più raffinati lettori del Manzoni dei nostri giorni, autore,fra
l’altro, delle Letture manzoniane (1964), - donde sono tratte le
pagine che seguono - e di Manzoni europeo (1971).
L’Azzecca-garbugli e il peccato della parola
La biblica saggezza che esorta a moderare la parola è sconosciuta a
Renzo, sia che egli imprechi contro don Rodrigo, sia che esprima la
sua fiducia in Azzecca-garbugli o nella legge (pipare che abbian
fatta la grida apposta per meri). Ma di fronte a quella saggezza non
solo Renzo ma tutti i personaggi, eccetto Lucia, si rivelano
peccatori. Più di tutti pecca contro la parola il dottor
Azzecca-garbugli. Agnese (peccatrice anche lei per quella sua
incapacità di tacere) esalta il dottore proprio per la sua bravura
nel saper trovare "una parolina", e dire "su due piedi" cose che
agli ignoranti non verrebbero mai in mente, nemmeno a pensarci un
anno. E intanto ci abbozza in anticipo un ritratto fisico ("quel
dottore alto, asciutto, pelato, col naso rosso, e una voglia di
lampone sulla guancia") che è il più minuzioso di quanti finora
Manzoni ci abbia dato [cap. III]. Ma il ritratto, con le sue
accentuate note fisiche, distrugge involontariamente
l’idealizzazione delle qualità morali di quella "cima d’uomini Tutta
quella altezza d’intelligenza par risolversi con involontaria ironia
in un fatto fisico, in una misura somatica, insomma in quell’alta
statura allampanata, in quella testa pelata, in quelle stigmate non
certo lasciate dalle veglie e dai pensieri contemplativi, ma dalle
abitudini di una golosità personale ed ancestrale. Anche sullo
studio del dottore si posa attento lo sguardo di Manzoni, che, per
la prima volta nel romanzo ci lascia la compiuta descrizione di un
interno. Esso non esclude una certa suggestione di stile barocco,
sia per quei ritratti dei "dodici Cesari" (non si dimentichi che
Tacito - ma per il nostro dottore si direbbe che basti Svetonio - e
non più Livio, è lo storico prediletto in questa età delle grandi
monarchie) sia per quel "seggiolone a braccioli, con una spalliera
alta e quadrata, terminata agli angoli da due ornamenti di legno,
che s’alzavano a foggia di corna". Ma proprio questo seggiolone,
dalle grosse borchie in parte "cadute da gran tempo" e dalla
copertura di vacchetta lasciata in libertà agli angoli e qua e là
accartocciata, diffonde nell’ambiente un senso di disordine e di
decadenza. È la stessa impressione lasciata da quel "grande scaffale
di libri vecchi e polverosi" (come, del resto, dalla toga "ormai
consunta" indossata a guisa di veste da camera dal dottore). Altri
libri compariranno più avanti nel romanzo, fra le mani di don
Abbondio, del sarto, di don Ferrante. E tutti saranno più o meno
pretesto dell’ironia di Manzoni. Ma qui i libri rimangono chiusi
sotto la loro polvere, puro oggetto di arredamento. Non i libri ma
le gride servono al nostro dottore, e non già tutte le "cento gride"
che contemplano questo o quel caso, ma solo quelle "fresche", che "son
quelle che fanno più paura". In qual conto si debbano tenere le
gride sa già il lettore fin dal primo capitolo. Per questo un senso
di ironia amara, quasi di disperazione, sembra diffuso su quell’atteggiamento
di Renzo: "Mentre il dottore leggeva, Renzo gli andava dietro
lentamente con l’occhio, cercando di cavar il costrutto chiaro, e di
mirar proprio quelle sacrosante parole, che gli parevano dover
essere il suo aiuto". Anche le gride peccano contro la parola,
moltiplicando parole solenni, destinate tuttavia a restare lettera
morta. E Renzo, con la sua fiducia in "quelle sacrosante parole",
come prima con la sua timidezza per la propria parola ("noi altri
poveri non sappiamo parlar bene") e la speranza di dire al dottore
"una parola in confidenza" e di ascoltarne, giusta la promessa di
Agnese, "una parolina", appare come la vera vittima del dottor
Azzecca-garbugli. Il dottore non ricorre alla grida per aiutare, ma
per spaventare, dando luogo, nel caso di Renzo, ad un grosso
malinteso, il quale deriva nella fattispecie non solo da
un’inveterata abitudine professionale, che forse non ha sofferto
fino a quel giorno eccezioni, quella cioè di salvare delinquenti, ma
anche dall’impazienza (essa pure, si direbbe, abituale)
nell’ascoltare, dal poco rispetto per la parola degli altri, o
almeno per quella della povera gente ("Benedetta gente! siete tutti
così"): per una incapacità di dialogo insomma. Il dottore che in
fretta conclude "Ho capito", in realtà (come si compiace di far
notare Manzoni) non ha capito nulla. La fretta nel concludere non
gli impedisce però di sfoderare tutta la sua eloquenza. Anche nel
dottore non mancano i gesti ("E subito si fece serio, ma d’una
serietà mista di compassione e di premura; strinse fortemente le
labbra, facendone uscire un suono inarticolato"; "cacciò le mani in
quel caos di carte, rimescolandole dal sotto in su, come se mettesse
grano in uno staio"; "E, tenendo la grida sciorinata in aria...")
che culminano e si concludono in quella brusca interruzione fatta
dal dottore al nome di don Rodrigo, "aggrottando le ciglia,
aggrinzando il naso rosso, e storcendo la boccali, e in quel congedo
che è tutto un’agitazione di mani: prima, a commento della frase "me
ne lavo le mani", stropicciandole "come se le lavasse davvero", e
poi adoperandole per spingere Renzo verso l’uscio. Ma dominano in
Azzecca-garbugli soprattutto le parole. Esse sono dirette ad un
duplice scopo: in un primo tempo spaventare, in un secondo indicare
il rimedio. A spaventare giova la lettura della grida, con le
relative omissioni e sottolineature e chiose e interiezioni. A
confrontare è dedicato invece un lungo discorso, in cui sono
scoperte tutte le armi dell’avvocato, e dove tutto si risolve ancora
in parole (a parte naturalmente "un po’ di spesa" e fatta eccezione
dell’offesa a "persona di riguardo"). Tutto il discorso è tramato di
verba dicendi: "Chi dice le bugie al dottore [...] è uno sciocco che
dirà la verità al giudice"; "All’avvocato bisogna raccontar le cose
chiare"; "bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta"; "Dovete
nominarmi [...], "Non gli dirò [...] Gli dirò"; "dovete dirmi chi
sia l’offeso, come si dice"; "ivi dico", "Io vi parlo"; "vi sarà
suggerito" (e all’opposto "se ne starà zitto"). Ma come mancano al
loro scopo le parole della lettura e commento della grida, così
mancano al loro scopo anche queste parole, che servono dunque
soltanto a svelare le arti disoneste del dottore, il suo
ciarlatanesco giuocare con le parole per attirare credito su di se.
Il pensiero di Manzoni, tradotto implicitamente nel contegno di
Renzo, mette bene in rilievo questo carattere del dottore, questa
sua colpevole e vanitosa, e alla fine neppure più abile, fiducia
nelle parole: "Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole,
Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un
materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti,
che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne
cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai". E quando Renzo,
accortosi dell’equivoco preso dal dottore, avrà troncato quel nastro
in bocca proclamandosi vittima e non colpevole, Azzecca-garbugli non
troverà altro da dire se non accusare Renzo di non aver saputo
parlare, finché, udito il fatto e vistolO, di fronte al nome di don
Rodrigo ("Quel prepotente di don Rodrigo..."), cadere sotto quel
caso-eccezione da lui prima segnalato ("Purché non abbiate offeso
persona di riguardo"), proclamerà insensate le parole di Renzo, e
non vorrà più ascoltarlo: "Fate di questi discorsi tra voi altri,
che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un
galantuomo che sa quanto valgono... non sapete quel che vi dite...
non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria...
Imparate a parlare". Ancora una volta le parole e i discorsi, il
parlare e il dire, costituiscono le realtà su cui si appoggia il
contegno del dottor Azzecca-garbugli.
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