LETTERATURA ITALIANA: PROMESSI SPOSI

 

Luigi De Bellis

 


 

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PROMESSI SPOSI






IL CONTE ZIO
a cura di
autori vari

E’ lo zio influente di Don Rodrigo e del cugino Attilio, quello che farà in modo di far andare fra Cristoforo a piedi da Pescarenico a Rimini, che è una bella. Il Conte zio è un anonimo.

E così sostanzialmente nullo, che si direbbe non gli convenga neppure quella qualunque fisionomia che dà un nome proprio. Ma ha la forza della sua stessa nullità. Accoppiata alla sua qualità di conte, alla dignità di membro del Consiglio segreto, quella nullità si trasforma in una risultante tutta prestigiosa, che si chiama credito in una virtù fatta di illusione, di prospettiva ottica che svanisce in niente, ogni volta che le si va vicino.

Il Conte zio sa che la sua forza è in questo credito: egli non ha mai niente da dire, niente da proporre; ma nel far valere quel niente, nel lasciar intravedere ehi sa che in quel niente, è maestro.

E il Manzoni ce lo ritrae in questa funzione essenziale della sua vita, in questo atteggiamento fondamentale del suo spirito, con un umorismo, anzi con un buon umore, con una ricchezza e individualità di particolari, che c’è da credere egli abbia desunto quel tipo dal vivo di quella vecchia nobiltà donde egli proveniva e che, più che parinianamente, dispregiava.

Un parlare ambiguo, un tacere significativo, un restar a mezzo, uno stringere d’occhi che esprimeva: non posso parlare: un lusingare senza promettere; un minacciare in cerimonia, tutto era diretto a quel fine; e tutto più o meno tornava in pro.

Il Conte zio, di quel suo niente divenuto una potenza, di quel silo eredito, ha piena consapevolezza: e guai a ehi lo tocca! Il diletto nipote Attilio, se avesse saputo il latino, certamente avrebbe riferito a suo zio o quanta species cerebrum non habet.

Ma con la sfrontata intuizione della sua monelleria, che del cervello lo zio ne avesse poco, che la circospezione del valentuomo fosse tardità intellettuale, lo sapeva bene: e perciò dalla lontana, come chi esprime un parere proprio, insinua nel vecchio l’idea, a cui forse egli non sarebbe arrivato da sé, di far rimuovere da Pescarenico il padre Cristoforo.

Ma il Conte, che pure tradurrà in atto quel suggerimento, sente di dover reagire contro chi ardisce di credere che egli possa accogliere il consiglio altrui. "Lasci il pensiero a chi tocca, vossignoria", disse un po’ crudamente il Conte zio che passa subitamente dal confidenziale tu a quel gelido e diplomatico Lei.

Il Conte zio è ombroso del suo credito, veglia continuamente alla sua difesa. Capisce che se gli manca è morto. Perciò racconta spesso, a rinfrescarla nell’animo altrui, la sua missione diplomatica a Madrid; quella missione in cui il Conte duca gli aveva rivolto – in presenza di mezza la corte - una delle domande più pregnanti di significati reconditi: se gli piaceva Madrid, e fattagli, nel vano di una finestra, una confidenza, di quelle che scoprono a un tratto un nuovo orientamento diplomatico: che il duomo di Milano era il tempio più grande che fosse negli stati del re.

Ma il Conte zio ha non solamente un amore ombroso per la sua carica e per il suo credito: ne ha uno anche più ombroso per il suo sangue e il suo nome: che son poi la base vera di quel credito. Il suo sangue e il suo nome sono, in fondo, tutto lui: perché egli, per sé, non è niente.

Attilio lo sa, e per averlo protettore sicuro contro il padre Cristoforo, non conosce miglior mezzo che di fargli intendere che il frate non ha nessun riguardo all’alta parentela di Don Rodrigo. "M’immagino" dice "che questo frate non sappia che Rodrigo è mio nipote". E’ in questa difesa innanzi tutto del suo sangue la vanità del Conte zio si trasforma - come tante volte accade delle vanità - in una vera e propria ingiustizia: l’angustia del cervello diventa miseria di cuore, l’uomo ridicolo diventa cattivo: come cattivi, cioè egoisti sino alla ripugnanza, sono parecchi personaggi manzoniani, che si presentano come umoristici in prima fronte: Don Abbondio, per esempio: non ultima ragione della vitalità di quei personaggi.

E la morale del Conte zio è inferiore, come la sua mentalità. Per quella carne vecchia passano fiamme di una sensualità indomata; si capisce che l’unica vita vera di questo scapolo fu in quella sensualità; o almeno sarebbe stata, se la politica e la carriera non lo avessero tutto preso.

Il conte Attilio vuol far capire che il padre Cristoforo abbia per Lucia una tenerezza indegna, e parla con sospensione e perplessità: ma il Conte zio intuisce subito, e precorre questa volta: "Intendo", disse il Conte zio; e su un certo fondo di goffaggine dipintogli in viso dalla natura, velato poi e ricoperto, a più mani di politica balenò un raggio di malizia, che vi faceva un bellissimo vedere. Che poi Don Rodrigo abbia fatto qualche scherzo a Lucia incontrandola per istrada; è una bazzecola, non meno per Attilio, il quale vi accenna incidentalmente, che per il Conte, troppo serio e troppo grave per chiedere anche il più lieve schiarimento intorno a un punto, che era quello che più andava chiarito e ben chiarito.

E accoglie senz’altro l’insinuazione, tanto codarda quanto puerile, che il Padre sia un rivale di Rodrigo nel contendersi Lucia: e da quella insinuazione prenderà le mosse al suo gran discorso al Padre provinciale.


2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it