E’ lo zio influente di Don Rodrigo e del cugino
Attilio, quello che farà in modo di far andare fra Cristoforo a
piedi da Pescarenico a Rimini, che è una bella. Il Conte zio è un
anonimo.
E così sostanzialmente nullo, che si direbbe non gli convenga
neppure quella qualunque fisionomia che dà un nome proprio. Ma ha la
forza della sua stessa nullità. Accoppiata alla sua qualità di
conte, alla dignità di membro del Consiglio segreto, quella nullità
si trasforma in una risultante tutta prestigiosa, che si chiama
credito in una virtù fatta di illusione, di prospettiva ottica che
svanisce in niente, ogni volta che le si va vicino.
Il Conte zio sa che la sua forza è in questo credito: egli non ha
mai niente da dire, niente da proporre; ma nel far valere quel
niente, nel lasciar intravedere ehi sa che in quel niente, è
maestro.
E il Manzoni ce lo ritrae in questa funzione essenziale della sua
vita, in questo atteggiamento fondamentale del suo spirito, con un
umorismo, anzi con un buon umore, con una ricchezza e individualità
di particolari, che c’è da credere egli abbia desunto quel tipo dal
vivo di quella vecchia nobiltà donde egli proveniva e che, più che
parinianamente, dispregiava.
Un parlare ambiguo, un tacere significativo, un restar a mezzo, uno
stringere d’occhi che esprimeva: non posso parlare: un lusingare
senza promettere; un minacciare in cerimonia, tutto era diretto a
quel fine; e tutto più o meno tornava in pro.
Il Conte zio, di quel suo niente divenuto una potenza, di quel silo
eredito, ha piena consapevolezza: e guai a ehi lo tocca! Il diletto
nipote Attilio, se avesse saputo il latino, certamente avrebbe
riferito a suo zio o quanta species cerebrum non habet.
Ma con la sfrontata intuizione della sua monelleria, che del
cervello lo zio ne avesse poco, che la circospezione del valentuomo
fosse tardità intellettuale, lo sapeva bene: e perciò dalla lontana,
come chi esprime un parere proprio, insinua nel vecchio l’idea, a
cui forse egli non sarebbe arrivato da sé, di far rimuovere da
Pescarenico il padre Cristoforo.
Ma il Conte, che pure tradurrà in atto quel suggerimento, sente di
dover reagire contro chi ardisce di credere che egli possa
accogliere il consiglio altrui. "Lasci il pensiero a chi tocca,
vossignoria", disse un po’ crudamente il Conte zio che passa
subitamente dal confidenziale tu a quel gelido e diplomatico Lei.
Il Conte zio è ombroso del suo credito, veglia continuamente alla
sua difesa. Capisce che se gli manca è morto. Perciò racconta
spesso, a rinfrescarla nell’animo altrui, la sua missione
diplomatica a Madrid; quella missione in cui il Conte duca gli aveva
rivolto – in presenza di mezza la corte - una delle domande più
pregnanti di significati reconditi: se gli piaceva Madrid, e
fattagli, nel vano di una finestra, una confidenza, di quelle che
scoprono a un tratto un nuovo orientamento diplomatico: che il duomo
di Milano era il tempio più grande che fosse negli stati del re.
Ma il Conte zio ha non solamente un amore ombroso per la sua carica
e per il suo credito: ne ha uno anche più ombroso per il suo sangue
e il suo nome: che son poi la base vera di quel credito. Il suo
sangue e il suo nome sono, in fondo, tutto lui: perché egli, per sé,
non è niente.
Attilio lo sa, e per averlo protettore sicuro contro il padre
Cristoforo, non conosce miglior mezzo che di fargli intendere che il
frate non ha nessun riguardo all’alta parentela di Don Rodrigo.
"M’immagino" dice "che questo frate non sappia che Rodrigo è mio
nipote". E’ in questa difesa innanzi tutto del suo sangue la vanità
del Conte zio si trasforma - come tante volte accade delle vanità -
in una vera e propria ingiustizia: l’angustia del cervello diventa
miseria di cuore, l’uomo ridicolo diventa cattivo: come cattivi,
cioè egoisti sino alla ripugnanza, sono parecchi personaggi
manzoniani, che si presentano come umoristici in prima fronte: Don
Abbondio, per esempio: non ultima ragione della vitalità di quei
personaggi.
E la morale del Conte zio è inferiore, come la sua mentalità. Per
quella carne vecchia passano fiamme di una sensualità indomata; si
capisce che l’unica vita vera di questo scapolo fu in quella
sensualità; o almeno sarebbe stata, se la politica e la carriera non
lo avessero tutto preso.
Il conte Attilio vuol far capire che il padre Cristoforo abbia per
Lucia una tenerezza indegna, e parla con sospensione e perplessità:
ma il Conte zio intuisce subito, e precorre questa volta: "Intendo",
disse il Conte zio; e su un certo fondo di goffaggine dipintogli in
viso dalla natura, velato poi e ricoperto, a più mani di politica
balenò un raggio di malizia, che vi faceva un bellissimo vedere. Che
poi Don Rodrigo abbia fatto qualche scherzo a Lucia incontrandola
per istrada; è una bazzecola, non meno per Attilio, il quale vi
accenna incidentalmente, che per il Conte, troppo serio e troppo
grave per chiedere anche il più lieve schiarimento intorno a un
punto, che era quello che più andava chiarito e ben chiarito.
E accoglie senz’altro l’insinuazione, tanto codarda quanto puerile,
che il Padre sia un rivale di Rodrigo nel contendersi Lucia: e da
quella insinuazione prenderà le mosse al suo gran discorso al Padre
provinciale.
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