"I promessi sposi - ha scritto Eugenio Donodoni
(1870-1924) poeta, romanziere e soprattutto critico fra i maggiori
del primo Novecento - sono una revisione della vita dei singoli e
delle classi e degli istituti sociali fatta in nome della ragione,
del criterio morale, del buon senso. Salva la fede, resta distrutto
e deriso tutto ciò che anche il secolo degli Enciclopedisti aveva
distrutto o deriso: l’aristocrazia, il clero mestierante, il
fanatismo ipocrita, la giustizia arbitraria, la dottrina degli
addottrinati, la sapienza dei diplomatici, la gloria e l’eroismo
delle guerre dinastiche. L’aristocrazia è don Rodrigo, il conte
Attilio; il clero è don Abbondio; il monachiamo è il padre
provinciale e Gertrude e la badessa del convento: la giustizia è il
dottor Azzeccagarbugli e il podestà di Lecco; la dottrina è don
Ferrante; la diplomazia è il conte zio, la gloria della guerra è
l’invasione dei lanzichenecchi e la carestia e la peste al seguito.
Pochi libri sono così negativi, cos’ derisori come i Promessi
sposine. Ecco, in questa prospettiva generale di interpretazione che
niente ha perduto di validità, il profilo di due Personaggi
d’autorità", il conte zio e il padre provinciale.
Due "personaggi d’autorità": il conte zio e il padre provinciale
Il conte zio [...] non è né governatore, né gran cancelliere, né
podestà di nessun potere diretto: appartiene solo ad una di quelle
giunte, di quei corpi ornamentali, onde il dispotico governo
spagnolo trovava modo di accontentare la imbecille vanità del
patriziato, dandogli l’illusione di partecipare al governo della
cosa pubblica. Ma vicino all’autorità legale ci è sempre un’altra
specie di autorità, tanto più efficace, quanto meno avvertita:
l’autorità, che io chiamerei dell’influenza. È l’autorità nascosta,
che lavora sott’acqua, che preme e sforza le autorità palesi. È
l’autorità, la cui presenza e invadenza è documentata da quel
ritornello delle gride: che le pene inesorabili potevano essere
modificate "ad arbitrio di S.E.".Fra questa autorità d’influenza e
l’autorità legale è una lotta perpetua. Nell’età tipica della
libertà, nell’età dei Comuni, una serie di provvedimenti tendeva a
liberare l’autorità legale dagli impacci e dalle insidie di quella
autorità d’influenza. La pubblicità dei processi, le rigide norme
imposte al potere esecutivo, la discussione delle leggi sono alcuni
dei mezzi, non sempre sufficienti, per dar forza anche oggi
all’autorità legale: perché l’autorità d’influenza non muore mai,
anche se assume le parvenze e i nomi più liberi, e più democratici.
In tempi poveri, l’autorità legale cede all’autorità d’influenza. E
quest’altra è - inutile dirlo - novanta volte su cento - e non può
essere altrimenti - la protezione delle iniquità. È l’abuso, il
privilegio che non vuoi morire. E il conte zio esercita difatti
quell’autorità d’influenza per un fine malefico, perché la tristizia
di suo nipote non abbia più nessun testimonio importuno, perché
l’amor proprio di suo nipote sia pago, e padre Cristoforo, che era
venuto a braveggiarlo nel suo palazzo [cap. V], sia trasferito
lontano. "Provvedimenti prudenziali" vecchi e sempre nuovi.
Il conte zio è un anonimo. È così, sostanzialmente, nullo che si
direbbe non gli convenga neppure quella qualunque fisionomia che dà
un nome proprio. Ma ha la forza della sua stessa nullità. Accoppiata
alla sua qualità di conte, alla dignità di membro del Consiglio
segreto, quella nullità si trasforma in una risultante tutta
prestigiosa, che si chiama credito: in una virtù fatta di illusione,
di prospettiva ottica che svanisce in niente ogni volta che le si va
vicino.Il conte zio sa che la sua forza è in questo credito: egli
non ha mai niente da dire, niente da proporre; ma nel far valere
quel niente, nel lasciare intravvedere chi sa che in quel niente, è
maestro. E il Manzoni ce lo ritrae in questa funzione essenziale
della sua vita, in questo atteggiamento fondamentale del suo
spirito, con un umorismo, anzi con un buon umore, con una ricchezza
e individualità di particolari, che c’è da credere egli abbia
desunto quel tipo dal vivo di quella vecchia nobiltà donde egli
proveniva, e che, più che parinianamente, dispregiava . [...] Il
conte zio, di quel suo niente divenuto una potenza, di quel suo
credito, ha piena consapevolezza: e guai a chi lo tocca! Il diletto
nipote Attilio [...] con la sfrontata intuizione della sua
monelleria, che del cervello lo zio ne avesse poco, che la
circospezione del valentuomo fosse tardità intellettuale, lo sapeva
bene: e perciò dalla lontana come chi esprime un parere proprio,
insinua nel vecchio l’idea, a cui forse egli non sarebbe arrivato da
se, di far rimuovere da Pescarenico il padre Cristoforo [cap.
XVIII]. Ma il conte, che pure tradurrà in atto quel suggerimento,
sente di dover reagire contro chi ardisce di credere, che egli possa
accogliere il consiglio altrui. "Lasci il pensiero a chi tocca,
vossignoria, disse un po’ crudamente il conte zio,: che passa
subitamente dal confidenziale tu a quel gelido e diplomatico lei. Il
conte zio è ombroso del suo credito veglia continuamente alla sua
difesa. Capisce che se gli manca è morto. Perciò racconta spesso, a
rinfrescarlo nell’animo altrui, la sua missione diplomatica a Madrid
[cap. XVIII]; quella missione in cui il conte duca gli aveva rivolto
- in presenza di mezza la corte- una delle domande più pregnante di
significati reconditi: se gli piaceva Madrid, e fattagli, nel vano
di una finestra, una confidenza, di quelle che scoprono a un tratto
un nuovo orientamento diplomatico: che il duomo di Milano era il
tempio più grande che fosse negli stati del re. Ma il conte zio ha
non solamente un amore ombroso per la sua carica e per il suo
credito: ma un amore anche più ombroso per il suo sangue e per il
suo nome: che sono del resto la base vera anche di quel credito. Il
suo sangue e il suo nome sono, in fondo tutto lui: perché egli, per
sé, non è niente. Il conte Attilio lo sa, e, per averlo protettore
sicuro contro il padre Cristoforo, non conosce miglior mezzo, che di
fargli intendere che il frate non ha nessun riguardo all’alta
parentela di don Rodrigo. [...]E in questa difesa innanzi tutto del
suo sangue la vanità del conte zio si trasforma come tante volte
accade delle vanità - in una vera e propria ingiustizia: l’angustia
del cervello diventa miseria di cuore: l’uomo ridicolo diventa
cattivo [...]. Per quella carne vecchia passano fiamme di una
sensualità indomata: si capisce che l’unica vita vera di questo
scapolo fu in quella sensualità: o almeno sarebbe stata, se la
politica e la carriera non lo avessero tutto preso. Il conte Attilio
vuoi far capire che il padre Cristoforo abbia per Lucia una
tenerezza indegna, e parla con sospensioni e perplessità: ma il
conte intuisce subito, e precorre questa volta. "- Intendo, - disse
il conte zio: e sur un certo fondo di goffaggine, dipintogli in viso
dalla natura, velato poi e ricoperto, a più mani di politica, balenò
un raggio di malizia, che vi faceva un bellissimo vedere". Che poi
don Rodrigo "abbia fatto qualche scherzo" a Lucia "incontrandola per
istrada" è una bazzecola, non meno per Attilio, che vi accenna
incidentalmente, che per il conte troppo serio e troppo grave per
chiedere anche il più lieve schiarimento intorno ad un punto, che
era quello che più andava chiarito e ben chiarito. E accoglie
senz’altro l’insinuazione tanto codarda quanto puerile, che il padre
sia un rivale di Rodrigo, nel contendersi Lucia: e da quella
insinuazione prenderà le mosse al suo gran discorso al padre
provinciale. [...] Il conte è tutto lui in questa funzione, che è
tutta sua e dell’arte sua: si tratta di conquistare un’altra
autorità: e la conquista accadrà in virtù di quella forma, che per
quel diplomatico è la più efficace e la più reale delle sostanze. Un
banchetto deve impegnare all’obbedienza e al servizio l’animo del
padre provinciale: e quel banchetto è il pieno sfarzo della forma e
delle forme. Vi intervengono parecchi titolati, "di quelli il cui
casato era un gran titolo": e l’unico titolo era forse il casato.
Non vi si discorre che di argomenti e di cose magnifiche: di
dignità, di corti, del viaggio diplomatico a Madrid, di cardinali,
di papi: una cosa più splendida dell’altra, una cosa più vana
dell’altra. Tutto il discorso del conte dopo il banchetto al padre
provinciale, e l’incitamento a trasferire padre Cristoforo, ha per
punto di partenza, anche, e per punto di arrivo una questione di
forma: di salvare quello che ancor oggi si chiama, e al quale ancor
oggi si dà troppo più importanza che non alla sostanza: il
prestigio: il prestigio del convento che ha bisogno di essere in
buon accordo con tutti: il prestigio di lui, uomo di stato: di lui,
sopra tutto, come, di lui, e del sangue suo. La virtù che il conte
esalta su tutte le virtù cristiane, o almeno fratesche, è la
prudenza: quella che le età povere e le anime pusille chiamano
prudenza: e che è troppo spesso viltà, o egoismo, o tolleranza del
male, o anche connivenza con esso. Il padre Cristoforo è un uomo "un
po’ amico dei contrasti... che non ha tutta quella prudenza... tutti
quei riguardi... ". E la prudenza è essa stessa la virtù del conte
zio: quella prudenza, s’intende. Egli non vede le cose che dal punto
di vista di quella prudenza: e in nome di essa egli riesce non solo
a imporre una iniquità, ma anche a cambiare il nome e la fisionomia
delle cose per se più limpide. Il padre provinciale non vorrebbe
tramutare fra Cristoforo, fare un passo prima di... "È un passo e
non è un passo, interviene il conte... È una cosa naturale, una cosa
ordinaria...". Il provinciale non vorrebbe risolversi, senz’altro,
ad una punizione, ma il conte interrompe. "No, punizione, no: un
provvedimento prudenziale, un ripiego di comune convenienza, per
impedire i sinistri che potrebbero... ". Perché tutta la politica
del conte zio si riassume in una massima vecchia e sempre nuova e
sempre calamitosa: evitare gli scandali. "Sopire, troncare, padre
molto reverendo, troncare, sopire... Per buona sorte è ancora il
caso di un buon principiis obsta".Ma il conte è, anche in quella
occasione, non meno vacuo che inconsapevolmente cattivo: cattivo non
tanto pel fine che si propone col suo abboccamento, quanto pei mezzi
onde si consegue quel fine. È invadente, di una invadenza che al suo
interlocutore non lascia tempo né modo neppur di respirare. Egli non
dà neppure ascolto a quelle parole di timidissima difesa, che il
superiore fa dell’inferiore. Non manca d’impaurire il padre,
mostrandogli che potrebbe aver delle noie tollerando la protezione
di Cristoforo per un accusato di lesa maestà. Non manca, poiché
questo spauracchio non sembra ottener troppo effetto, di minacciar
contro il convento e l’ordine tutta una rappresaglia dei suoi
innumerevoli parenti "cospicui": quelli che s’eran fatti vedere un
momento prima a mensa: "tutta gente che ha sangue nelle vene e che a
questo mondo... è qualche cosa". Nel linguaggio del gentiluomo si
sente qui quella irriducibile malvagia testardaggine, che è il
puntiglio: si sente che la minaccia questa volta non è fatta
solamente "in cerimonia". Gli è che il conte zio ha fatto, questa
volta, l’estremo di sua possa. Le stesse frequentissime sospensioni,
e reticenze, e il frequente soffiare, dicono l’affanno e il
travaglio di chi trae a fine un’impresa, e passa per un momento
grave di conseguenze. Una sconfitta sarebbe stata la morte del suo
credito, cioè di lui, presso quello sfacciato di nipote Attilio,
meno disposto, forse, a riconoscere il merito superiore dello zio,
ed a cui bisognava tanto più imprimere un’idea della propria
potenza. Una grande arte quella del conte zio! Sennonché non c’era
neppur bisogno che egli la impiegasse tutta e sciupasse tutte le sue
energie per debellare e conquistare un uomo di carta pesta e di
pasta frolla come il padre provinciale: il quale è anch’esso
un’autorità, anonima, un nome vano senza soggetto. La figura del
conte è così prepotente, la sua rappresentazione estetica così ricca
e vivace, che la semifigura del padre provinciale appena si avverte.
Ma nella sua stessa negatività essa è quanto mai espressiva.
[...]Quel molto reverendo padre è il "superiore" tipo: l’uomo salito
di dignità per la sua profonda dappocaggine, per quella virtù che
trema di tutti i contrasti, che evita tutti gli urti: e che si
chiama tatto: una virtù molto accreditata sempre, perché blandisce
tutti gli egoismi: fondamentale in una età come il Seicento
spagnolo, in cui le classi e gli istituti, bacati nell’intimo,
potevano vivere uno accanto all’altro a patto di una diplomatica
tolleranza dell’equivoco, di una gigantesca omertà. Il padre
provinciale, come le altre autorità, non impersona un’idea, ma
esercita una funzione: e in quella funzione è tutto. Della morale
cristiana non pensa più altamente del dottor Azzecca-garbugli.
Quella morale non deve penetrare, molesta, nella vita: la parola di
Cristo deve restare sui pulpiti: in bocca di predicatori girovaghi:
e tocca a lui fare che un cristiano ingenuo non trovi modo né tempo
che quella parola fruttifichi; in nome della prudenza, del tatto.
Colpa mia, pensa il padre, appena ha inteso dove il conte va a
parare: "lo sapevo che quel benedetto Cristoforo - e in quel
benedetto è tutta la gran cura del superiore che non vuol noie- quel
benedetto Cristoforo era un soggetto da farlo girare di pulpito in
pulpito: e non lasciarlo fermare sei mesi in un luogo, specialmente
nei conventi di campagna". È il cattolicesimo che protesta contro il
cristianesimo. E questo fariseo, per cui la pace dell’ordine è
troppo più importante dello spirito del Vangelo, è, di fronte alla
potenza terrena, di una arrendevolezza, di una servilità estrema. Il
conte ha appena accennato la sua disapprovazione per Cristoforo, che
il provinciale si è già potenzialmente arreso. "Ho inteso, è un
impegno, pensava". A difendere l’assente si accinge sì, ma trepido,
chiedendo scusa a ogni tratto, e perché quello è l’obbligo del suo
ufficio. Non una parola di simpatia calda per il suo inferiore, e
quando sa che egli se l’è presa con don Rodrigo, col nipote del
conte, rompe in un lamento sincero, che è un rimprovero manifesto al
frate senza tatto. "Oh questo mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace
davvero!". Osserva, sì, dimessamente, che "tutti siamo di carne,
soggetti a sbagliare"; ma la sua prona codardia servile arriverà a
tanto, da non chiedere neppure in che consista la colpa o la
imprudenza di Cristoforo. Egli punisce, senza saper perché,
l’inferiore; giustificando, non tanto alla propria mezza coscienza,
quanto al benservito signore il provvedimento, con uno di quei
sofismi che uccidono la giustizia in nome del diritto: padre
Cristoforo è predicatore, innanzi tutto è di professione
predicatore, e il provinciale potrà, con diritto, mandarlo a
predicare a Rimini. In compenso, esigerà una qualche pubblica
dimostrazione di stima al convento: era una di quelle forme, di cui
nessuno meglio del conte poteva intendere l’opportunità e valutar
l’importanza: e qui, su questa dimostrazione, il provinciale ardisce
di insistere: perché non c’è solamente da salvare il prestigio della
casta nobiliare, ma anche il prestigio del convento. "Ognuno" dice
il padre "ha il suo decoro da conservare". E l’essenziale,
naturalmente, non è che un potente abbia rimosso dagli occhi di un
suo tristo nipote un testimonio indiscreto, e che un frate
francescano impedisca ad un suo fratello di essere con Cristo e per
Cristo; l’essenziale è che siano salvi tutti i decori, tutti i
Prestigi e tutte le menzogne.
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