La differenza tra gli Sposi promessi [= Fermo e
Lucia] e i Promessi sposi, oltre che su una qualità del narrare, lì
discontinua e imperfetta, qui unita, fluente e tutta retta da un
fine, si fonda su una diversità tonale, sulla parte che vi ha il
moralista, lì scopertissima, e che prende sempre più campo, e vi
soverchia, qui disciolta come un lievito buono, viva e vivificante.
Se poi si aggiungano, in quel primo libro, le parti polemiche, in
forma, spesso, fin troppo cruda, si misurerà, nei termini esatti, la
salita a quell’alta comprensione umana (ne splende il linguaggio), a
quella pietosi propria dell’altro e più grande libro. O non
interessa seguire il passaggio di questi due tempi, considerarli in
sé, poi tradotti nell’opere diverse? Libera a ciascuno la scelta,
secondo i gusti; ma capire distinguendo è un bel capire, anche in
arte. Sono, insomma, due libri diversi che stanno a fronte: un
romanzo-saggio e un romanzo (non dirò un semplice romanzo, che è
invece quanto mai complesso, e con una sua costante traiettoria,
tutta dimostrata, dal dato di fatto all’invenzione, quasi storia
trasposta dell’inventare caratteristico del Manzoni). Qualcosa in
comune, e qualcosa di più, hanno le parti narrative o descrittive,
con un forte colore secentesco le une (un colore, anche, a posta
cercato), e con un colore tanto più vivo quanto è più libero,
l’altre, ma d’un tempo creato, d’un tempo ideale. Le stesse parti
storiche, dove là sono condotte con tranquillissimo agio, dimentico
di tutto, fuor che di cercare e perseguire insaziabile; qui sono
tutte partecipanti a un fine, che è di far romanzo, un romanzo
d’armoniosa tempra, percorso, e direi percosso, da una luce sola (si
pensi anche alle architetture che ne risultano: quella, quasi
scompagino barocca, questa, salda e simmetrica). Torniamo al
moralista, al moralista degli Sposi promessi, ardito, severo, irto.
Che impressione strana, questa rigida figura, quest’osservatore
indomito, che lascia mano libera a un narratore verista, minuto
sovente fino alla spietatezza! Si pensò, sapete, a un’influenza del
romanzo nero; e anche si pensò al gusto congiunto del romanzo
popolare (un’esperienza dissociata e dissociante, e quasi tentazione
d’una forza repressa?). Ma considerando quel gridare contro un’età
barbara, corrotta ("d’una brutalità selvaggia" egli diceva), si
potrebbe pensare ad altro. Era forse quell’occhio severo, quell’occhio
punitore, a cercare e castigare il male, dov’era più fondo, nelle
sue forme più crudeli (a riprova d’un giudizio). Ma sarà una
spiegazione dettata dal sofisma. Quella polemica furiosa, certo, è
scaturita da quel rigore; non così il descrivere e narrare, che
piuttosto direi nato da una ricerca del nuovo a ogni costo. Condotto
a termine quel descrivere e narrare, avvilita la mano che scrisse,
Manzoni è sazio, è guarito; e riascolta la voce che prima tonava, ma
che ora non è più quella: anch’essa guarita, anch’essa salva. A
lavoro compiuto, dopo quell’esperienza acquisita del male, tanto più
aspra quanto più astratta (e infine arida), dietro quel richiamo dei
tempi, lo scrittore gusterà altro narrare, più vero e, perché più
vero, umano: l’occhio del moralista si placherà. O non rivolgerà
egli, cattolico in senso apertissimo, quell’alta passione a umane
creature, per quel tanto che è in esse di possibilità al riscatto?
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