LETTERATURA ITALIANA: PROMESSI SPOSI

 

Luigi De Bellis

 


 

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PROMESSI SPOSI






FERMO E LUCIA E PROMESSI SPOSI: DUE LIBRI DIVERSI
a cura autori vari


La differenza tra gli Sposi promessi [= Fermo e Lucia] e i Promessi sposi, oltre che su una qualità del narrare, lì discontinua e imperfetta, qui unita, fluente e tutta retta da un fine, si fonda su una diversità tonale, sulla parte che vi ha il moralista, lì scopertissima, e che prende sempre più campo, e vi soverchia, qui disciolta come un lievito buono, viva e vivificante. Se poi si aggiungano, in quel primo libro, le parti polemiche, in forma, spesso, fin troppo cruda, si misurerà, nei termini esatti, la salita a quell’alta comprensione umana (ne splende il linguaggio), a quella pietosi propria dell’altro e più grande libro. O non interessa seguire il passaggio di questi due tempi, considerarli in sé, poi tradotti nell’opere diverse? Libera a ciascuno la scelta, secondo i gusti; ma capire distinguendo è un bel capire, anche in arte. Sono, insomma, due libri diversi che stanno a fronte: un romanzo-saggio e un romanzo (non dirò un semplice romanzo, che è invece quanto mai complesso, e con una sua costante traiettoria, tutta dimostrata, dal dato di fatto all’invenzione, quasi storia trasposta dell’inventare caratteristico del Manzoni). Qualcosa in comune, e qualcosa di più, hanno le parti narrative o descrittive, con un forte colore secentesco le une (un colore, anche, a posta cercato), e con un colore tanto più vivo quanto è più libero, l’altre, ma d’un tempo creato, d’un tempo ideale. Le stesse parti storiche, dove là sono condotte con tranquillissimo agio, dimentico di tutto, fuor che di cercare e perseguire insaziabile; qui sono tutte partecipanti a un fine, che è di far romanzo, un romanzo d’armoniosa tempra, percorso, e direi percosso, da una luce sola (si pensi anche alle architetture che ne risultano: quella, quasi scompagino barocca, questa, salda e simmetrica). Torniamo al moralista, al moralista degli Sposi promessi, ardito, severo, irto. Che impressione strana, questa rigida figura, quest’osservatore indomito, che lascia mano libera a un narratore verista, minuto sovente fino alla spietatezza! Si pensò, sapete, a un’influenza del romanzo nero; e anche si pensò al gusto congiunto del romanzo popolare (un’esperienza dissociata e dissociante, e quasi tentazione d’una forza repressa?). Ma considerando quel gridare contro un’età barbara, corrotta ("d’una brutalità selvaggia" egli diceva), si potrebbe pensare ad altro. Era forse quell’occhio severo, quell’occhio punitore, a cercare e castigare il male, dov’era più fondo, nelle sue forme più crudeli (a riprova d’un giudizio). Ma sarà una spiegazione dettata dal sofisma. Quella polemica furiosa, certo, è scaturita da quel rigore; non così il descrivere e narrare, che piuttosto direi nato da una ricerca del nuovo a ogni costo. Condotto a termine quel descrivere e narrare, avvilita la mano che scrisse, Manzoni è sazio, è guarito; e riascolta la voce che prima tonava, ma che ora non è più quella: anch’essa guarita, anch’essa salva. A lavoro compiuto, dopo quell’esperienza acquisita del male, tanto più aspra quanto più astratta (e infine arida), dietro quel richiamo dei tempi, lo scrittore gusterà altro narrare, più vero e, perché più vero, umano: l’occhio del moralista si placherà. O non rivolgerà egli, cattolico in senso apertissimo, quell’alta passione a umane creature, per quel tanto che è in esse di possibilità al riscatto?


2001 © Luigi De Bellis - letteratura@tin.it