Il dolore è quindi parte preponderante dei
Promessi Sposi. E’ inesatto dire che dal pessimismo dell’Adelchi si
passa all’ottimismo del romanzo. Il dolore rimane, ma non è
scandalo, non è disperazione. Marco, Adelchi, Ermengarda hanno
creduto ciecamente in certi ideali, convinti che la realtà si
accordasse con essi. Sconfitti, hanno creduto che vivere senza la
realizzazione di quei sogni sia impossibile: meglio la morte. Ma poi
sulla tenebra scende la luce, il disordine della vita umana,
illuminata dallo Spirito si fa armonia, voluta da Dio: il male non è
scandalo, ma è la prova che Dio offre alla nostra virtù per
fortificarla, il dolore, necessario, la sconfitta, frequente, è il
mezzo stesso della nostra redenzione. Vivere non è aspettare la
morte per andare a godere ma è accogliere la legge della condizione
umana, fatta di sacrifici, di impegno, di lacrime, di tormento, ma
anche di avari sorrisi, di gioie intense e pure che noi conquistiamo
pagandole con il dolore. Il cristianesimo di Manzoni -
contrariamente a quanto ripetono i critici gramsciani, i Petronio o
i Salinari - non invita a fuggire dalla terra al cielo, ma intende
la vita come un impegno, una milizia. Adelchi, eroe romantico che
piange sul suo sogno infranto è divenuto Fra’ Cristoforo, che - pur
cosciente della umana debolezza - esercita la sua forza di bene, nei
limiti da Dio concessi.
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