Fra Galdino è il personaggio che più
sistematicamente rappresenta la riduzione realistica della figura di
fra Cristoforo. Egli rappresenta la parte più ingenua e il candido
egoismo di quel mondo conventuale, di cui fra Cristoforo può
apparire l’eccezionale eroe.
Nella vicinanza delle due figure, l’una ieratica e solenne, l’altra
con una innocenza che rasenta spesse volte il comico, il Manzoni ha
compiuto la sua giustizia di artista su quel mondo cappuccinesco,
che preoccupazioni oratorie potevano indurre a presentare in tutto e
per tutto, con note idealistiche.
La figurazione esterna di fra Galdino non solo è una macchia, ma è
anche un primo annunzio della psicologia del personaggio. È l’uomo
dappoco, che non ha alti ideali per il capo, se non le sue noci e la
sua bisaccia, la cui imboccatura egli tiene attorcigliata e stretta
con tutte due le mani (si badi) sul petto.
E’ l’egoismo del convento, di una classe, di un ordine, che è
diventato natura pacifica e inconsapevole in un suo rappresentante.
Fra Galdino, in seguito, avrà appena scamelato un saluto di
religione che si affretta a dire: "Vengo alla cerca delle noci". Non
ce ne sarebbe bisogno; tutti lo sanno che è il frate cercatore, e la
bisaccia parla per lui ma, come l’egoismo dei fanciulli, anche
questo di fra Galdino non perde tempo per dichiarare le sue
generalità.
L’elemosina è il canone, è la filosofa, il dogma di fra Galdino.
"Noi viviamo della carità di tutto il mondo ed è giusto che serviamo
tutto il Mondo" dirà al cap XVIII. E il suo dogma viene fuori, allo
scoperto, a ogni momento, con quella semplicità e grossolanità
propria degli uomini che hanno poche e immutabili idee.
Da ciò quella sua sollecitudine a spifferare il miracolo delle noci,
come farebbe un ragazzo della sua lezione bene appresa. Il racconto
di fra Galdino è un miscuglio di semplicità ed elementarità
popolaresca, e insieme di candido utilitarismo cattolico, ma
l’utilitarismo gretto, quotidiano, positivo, riesce a sublimarsi in
fede religiosa, perché l’ingenuità del frate è assoluta.
Al cap. XVIII l’artista non ha amato ripetersi, e ha dato vita
all’espressione di una nuova nota del carattere di fra Galdino, la
sua candida e innocente insensibilità davanti alle passioni del
mondo, e la sua obbiettiva imparzialità sugli interessi e i valori
del convento. In tutto il suo colloquio con Agnese fra Galdino è
cortese e affabile, ma sempre con una sua innovata insensibilità.
Fra Galdino non è un nome, ma soltanto una parte, una voce, l’organo
di tutto un corpo, di tutto un coro. Egli non parla mai per se, ma
per il corpo dei Cappuccini a cui appartiene: in questo è la sua
angustia, ma anche la sua ingenua grandezza. Lo spirito di fra
Galdino vive in una trascendenza assoluta e non intende il
linguaggio delle passioni e delle curiosità mondane.
Nella sua sublime ottusità ricorda un qualche fraticello dei
fioretti uomo idiota e senza lettere, così come li voleva il Santo.
Al vano domandare degli uomini, non c’è che alzare le spalle e
ritirare nel cappuccio la testa rasa. È come un rifugiarsi e
chiudersi nella celluzza del suo lontanissimo cielo.
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