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GUERRA, FAME, PESTE a cura di Niccolò Tommaseo
Niccolò Tommaseo - che fu tra i primi a recensire
I promessi sposi sulla fiorentina "Antologia" (ott.-dic. 1827) - si
soffermava in particolare sul rapporto fra storia e invenzione: "Al
Ripamonti (...) noi dobbiamo forse la prima ispirazione di questo
romanzo. Il Manzoni trova in quel libro raccolti, intorno a
Federigo,, i fatti d’un potente senza nome, d’una monaca strana,
d’una sommossa, d’una fame [carestia], d’una peste; e nella peste le
cure d’alcuni uomini pii. Cose che trascendono le solite mire de’
romanzieri; e però degne della scelta del nostro. Or come legare
queste fila? L’invenzione non è che un pretesto a mettere insieme
quelle lezioni gravissime della storia; e si può, senza far torto al
libro, affermare che gli episodi [storici] qui sono l’importante, il
nodo principale, gli è il meno". Quindi, secondo il critico, la
vicenda dei promessi è solo un artificio per collegare fra loro
pagine di storia ricche di insegnamenti morali ed il Manzoni più
grande è da ricercare proprio nelle pagine storiche: "la lealtà del
suo cuore apparisce più ispiratrice nelle parti storiche del lavoro.
Quand’egli narra il vero, molte cose raccoglie con sublime
semplicità in una pagina, in un costrutto; il suo fare divien più
sicuro, lo stile più netto: quando inventa, e’ [egli] ci dà la
narrazione a goccia a goccia; lo scrupoloso studio della
verisimiglianza lo tiene in angustia, gli toglie franchezza " .Di
parere opposto si era dichiarato il grande Goethe il quale,
discorrendo con l’amico Eckermann, dei Promessi sposi testé apparsi,
aveva entusiasticamente affermato che "il romanzo del Manzoni supera
tutto ciò che noi conosciamo in questo genere. L’elemento interiore,
tutto ciò che deriva dall’anima del poeta, è perfetto, e l’elemento
esteriore, le descrizioni dei luoghi e simili, non la cede di un
capello alle grandi qualità interiori". Ma aveva concluso tuttavia
rilevando che "lo storico ha giocato al poeta un brutto tiro, poiché
il Manzoni sveste [nell’ultima parte del romanzo] d’un tratto
l’abito del poeta e ci si presenta per troppo tempo nella sua nudità
di storico. E ciò accade nelle descrizioni della guerra, della
carestia e della peste (...). Si dovrebbe abbreviare per una buona
parte la descrizione della guerra e della carestia e di due terzi
quella della peste; cos’ che resti soltanto quello che è necessario
ad intendere l’azione dei personaggi".Fin dalla prima apparizione
dei Promessi sposi viene quindi in primo piano la questione del
rapportofra storia e invenzione romanzesca, problema cruciale nella
stessa riflessione dell’autore e destinato a concludersi con la
sconfessione del romanzo storico come genere letterario (ed. pp.
50-51). La critica successiva ha poi concluso riconoscendo
l’architettura organica ed unitaria del romanzo in perfetto
equilibriofra parti storiche e trama romanzesca.
Di seguito un’interpretazione recente delle "lezioni gravissime
della storia" per dirla con il Tommaseo, dovuta al critico e
romanziere Ugo Dotti.
Guerra, fame, peste
"La carestia, la peste e la guerra - scrive Voltaire nel Dizionario
filosofico alla voce "Guerra"- sono i tre ingredienti più famosi di
questo mondo". E continua: "Questi due regali [carestia e peste] ci
vengono dalla Provvidenza. Ma la guerra, che riunisce tutti questi
doni, ci viene dall’immaginazione di tre o quattrocento persone
sparse sulla superficie del globo sotto il nome di principi o di
ministri... Il più ardito degli adulatori ammetterà senza fatica che
la guerra si trascina sempre dietro la peste e la carestia... È
davvero una gran bella trovata quella che devasta le campagne,
distrugge le abitazioni e fa morire, in media ogni anno,
quarantamila uomini su centomila... Un genealogista dimostra a un
principe che questi discende in linea diretta da un conte i cui
parenti avevano fatto un patto di famiglia, tre o quattrocento anni
prima, con una casata di cui non sussiste più neppure il ricordo.
Questa famiglia vantava lontane pretese su una certa provincia il
cui ultimo possessore è morto di apoplessia: il principe e il suo
consiglio concludono senza difficoltà che quella provincia gli
appartiene per diritto divino. Tale provincia, che si trova a
qualche centinaio di leghe da lui, ha un bel protestare che non lo
conosce, che non ha nessuna voglia di essere governata da lui, che
per dare delle leggi al popolo bisogna almeno avere il suo consenso:
questi discorsi non giungono neppure alle orecchie del principe, il
cui diritto è incontestabile. Egli trova immediatamente un gran
numero di uomini che non hanno niente da fare e niente da perdere;
li veste di un grosso panno azzurro a centodieci soldi l’uno, orla i
loro cappelli con del grosso filo bianco, insegna loro a voltare a
destra e a sinistra, e marcia verso la gloria."Gli altri principi
che sentono parlare di quella folle impresa vi prendono parte anche
loro, ciascuno secondo i propri mezzi, e così ricoprono una piccola
estensione di territorio di assassini mercenari ...Dei popoli
abbastanza lontani sentono dire che la battaglia è imminente: ...si
dividono tosto in due schiere, come se fossero mietitori, e vanno a
vendere i propri servigi a chiunque voglia ingaggiarli. Quelle turbe
si accaniscono le une contro le altre, non solo senza avere alcun
interesse alla contesa, ma senza neanche sapere di cosa si tratti
...tutte d’accordo su un solo punto: fare tutto il male possibile".
Abbiamo stralciato questo lungo passo dalla celebre voce volteriana
[...], perché nonostante i punti di vista tanto diversi, Voltaire e
Manzoni erano pienamente d’accordo su una cosa: l’insensatezza
brutale della guerra e la frivolezza delle motivazioni per le quali
viene generalmente scatenata. A parte la battuta sulla Provvidenza
che ci regala carestia e peste, si potrebbe dire che la voce di
Voltaire, nella parte almeno che abbiamo riprodotto, sia la "fonte,>
di come Manzoni abbia voluto, nel suo romanzo, rappresentare la
guerra nelle sue origini, nelle sue motivazioni, e nelle sue
conseguenze: si veda nel Fermo e Lucia (IV, 1,) il resoconto delle
"origini di tanta rovina" o si leggano certe riflessioni che
costellano questa cronaca, riflessioni davvero volteriane: "La morte
e il matrimonio terminano per lo più le tragedie e le commedie del
teatro, ma danno sovente principio alle tragedie e alle commedie
della vita reale". E nei Promessi sposi questo resoconto campeggia
ad inizio di capitolo, il XXVII, anche qui con annotazioni
particolarmente sarcastiche ("perché le guerre fatte senza una
ragione sarebbero ingiuste"); con osservazioni illuminanti nel loro
piglio un po’ paradossale (quella ad es. sui "tegoli di Casale"), o
con esiti e ritratti volutamente grotteschi, come quello che coglie
don Gonzalo mentre dimena la testa "come un baco da seta". È inoltre
il capitolo che sempre con l’arma dell’ironia, spazia ancora una
volta sulle storture e i pregiudizi del secolo, e sembra quasi
riassumere la civiltà e la cultura dell’epoca nei ritratti
contrapposti e complementari di donna Prassede e di don Ferrante:
qui la donna che non sa cosa sia il bene, e vuole farlo; là l’uomo
che non sa cosa sia la cultura, e vuole esserne maestro. Se si
eccettua la chiusa, dove il tono muta e preannuncia la tragedia,
tutto il capitolo potrebbe persino esser letto come una "voce"
dell’Enciclopedia degli illuministi. E ad inizio di capitolo, il
XII, è posta anche, nei Promessi sposi, la cronaca della carestia
che fece esplodere il tumulto di san Martino. Già accennata in
precedenza, essa si dispiega qui in tutta la sua gravità,
testimonianza d’accusa contro l’inefficienza e l’insensatezza di un
governo tanto inferiore al proprio compito. È questo, col capitolo
successivo e conseguente della peste, uno di quei grandi quadri
storici che se pur finirono per dispiacere a Goethe, sempre più
appaiono oggi come uno dei momenti di forza, se non la forza
medesima, del romanzo manzoniano. Il XII e il XIII dedicati ai "
perché’ " della carestia e al suo tramutarsi in rivolta; il XXVIII
in cui è ritratta una città, Milano, desolata dalla fame che già si
tramuta in pestilenza; il XXXI e il XXXII, infine, che con la
narrazione della peste vera e propria, denunciano tutte le
responsabilità "politiche" che l’hanno generata: ecco le grandi
arcate sulle quali il capolavoro di Manzoni si erge e sfida, ancor
oggi, le cosiddette teorie del romanzo."L’idea volteriana - ha
scritto Bonora - che al progresso portino non gli intrighi dei
politici e le distruzioni dei militari, bensì le volontà degli
uomini rivolte alle opere di pace, è una conquista del pensiero
moderno, grande come tutto quello che ha portato a una visione
spregiudicatamente realistica della storia". Ed aggiunge: "Che di lì
abbia avuto inizio la necessaria valutazione dei fattori economici
nel processo storico, dovrebbe essere ammesso senza difficoltà". Ed
è appunto ciò che fa Manzoni in modo più stringato nei Promessi
sposi, in modo più ampio nel Fermo e Lucia e nell’edizione del
ventisette quando, anche sotto l’influenza delle Memorie storiche
sulla Economia pubblica dello Stato di Milano del Verri, pensava a
un eventuale saggio d’appendice sul tipo della Colonna infame: il
cosiddetto Saggio sulla carestia."Era quello il second’anno di
raccolta scarsa": così l’incipit, nei Promessi sposi, del capitolo
XII. Poco diversamente nel Fermo e Lucia (III, 5), ma qui l’analisi
prosegue per parecchie pagine. In esse Manzoni non pone soltanto in
evidenza il nesso che lega la guerra, "questa bella guerra", con la
carestia e il rincaro del prezzo del grano, ma si sofferma su alcuni
aspetti della crisi e, quel che più conta, con l’intento dichiarato
di riflettere su problemi di "economia pubblica", anche per
avanzare, quando è il caso, qualche ragionevole proposta. C’è qui
l’evidente influenza dei riformatori illuministi, con le cui
soluzioni liberistiche Manzoni concorda (si veda ad es. il capo Il
del trattato del Gioia Sul commercio dei commestibili); ma vengono
affrontati anche temi particolari, come ad esempio quello, già
dibattuto dal tardo Cinquecento, della beneficenza e dell’elemosina.
Della carità e dell’elemosina, come è ben noto, Manzoni aveva un
concetto altissimo; ed ecco allora, per esempio, polemizzare
garbatamente, pur senza nominarlo, con il Muratori e con certe
posizioni del suo trattato sulla Carità cristiana; ma appena il
discorso, anziché sulle soluzioni da dare al flagello, torna sulle
responsabilità che hanno prodotto la carestia, sui provvedimenti, o
presunti provvedimenti, che vennero adottati, ecco Manzoni
riprendere immediatamente il piglio dell’illuminista. Denuncia
dell’insensatezza economica di un periodo storico, critica
dell’ignoranza e della presunzione, condanna della "irriflessione"
dei politici che, ormai in balia della stoltezza comune e popolare,
ne divengono complici e persino responsabili. "Cessi il cielo - egli
scrive (Fermo e Lucia, III, 5) - che alcuno rinfacci ostilmente
l’ignoranza ad un popolo che non ha mai avuto maestri né ozio,
l’irritazione fanatica ad un popolo che non trova pane col suo
lavoro". Lo scrittore dunque distingue, se non giustifica. Certo
l’impero delle passioni travolgenti ed assurde, peggiori del male
stesso, diviene dominio, nei momenti più critici, della "moltitudine
male e ben vestita": è questo un dato di fatto che Manzoni registra,
di cui tiene conto e verso il quale è tutt’altro che indulgente. Ma
è alla moltitudine "ben vestita" che egli rivolge le sue critiche
più severe: agli intellettuali, a coloro che, avendo tempo e agio
per rivolgersi allo studio del fenomeno quand’esso è ancora lontano,
e studiandolo prevenirlo, e prevenirlo con argomenti economici
(osservazione, diremo di passata, che si trova anche in Gioia);
anziché far questo, "al momento del serra serra escono in campo a
sentenziare, cominciano a pensare con la voce e studiano dalla
cattedra, coprono, vilipendono, calunniano le voci che nascono da un
antico pensiero, ripetono in un linguaggio meno incolto e più strano
i giudizi storti, le idee appassionate del popolo, e diffondono ed
accrescono la stortura e la passione, si oppongono ferocemente a
tutti quei raziocini che potrebbero illuminare l’opinione
dell’universale sulla natura e sulla misura del male, ricondurre gli
spiriti ad una riflessione più tranquilla, e stornare quelle
risoluzioni che lo peggiorano" (Fermo e Lucia, III, 5). Ecco da
quale complesso di riflessioni, di critiche, di osservazioni nasce
nello scrittore, e prende corpo sulla pagina, la figura di Antonio
Ferrer, il quale, come tutti sanno, di fronte alla catastrofe da lui
stesso accresciuta, stette "immoto a tutti i richiami, come Enea
agli scongiuri di Didone" (ivi). Ed è proprio questo immobilismo ciò
che Manzoni condanna; questa ostinata pervicacia nell’errore; questa
cecità che favorisce, se non genera, il regno delle cosiddette idee
dominanti, le idee che fanno un’epoca e la caratterizzano, e che
solo quando tramontano, ma solo allora, divengono risibili. In fine
al III capitolo del IV tomo del Fermo e Lucia, il capitolo che dà
inizio al racconto della peste, Manzoni traccia un interessantissimo
excursus della storia dei pregiudizi: su come si formano, su come si
mantengono, su come lentamente declinano. E qui, molto giustamente,
egli si chiede se molte delle idee regnanti al suo tempo non siano
anch’esse, un giorno, destinate a "dar molto da ridere alle età
venture": dubbio più che legittimo per chi, osservando la storia
dell’uomo, ne sa vedere in controluce su quali presunzioni molto
spesso si fonda. E in tale excursus di "politica" così dissennata da
far crescere, anziché lenire, l’oggettiva calamità. Nel pieno di
questa follia, giusta le osservazioni già avanzate nell’introduzione
al romanzo, ecco allora campeggiare l’episodio luminoso del padre
Felice Casati, rinvigorito dalla testimonianza del Tadino. Quando
infine la realtà delle cose non può più essere nascosta, accade che
l’inconscio collettivo, favorito dall’irresponsabilità dei politici
si scateni nella crudeltà cieca e perversa: la vendetta
sull’innocente. È il momento dei "delirio", dell’autodistruzione
della ragione. Ma è anche un momento della storia dello "spirito
umano" che per essere storia della sua miseria e della sua
irriflessione, è anche storia che comporta riflessioni sulla miseria
e sulla irriflessione della natura dell’uomo. Qui sono le unzioni e
gli untori; altra volta furono le streghe e i processi per
stregoneria; in futuro potrebbe essere altro. Sempre, pare avvertire
Manzoni, la verità e la ragione sono insidiate e poste in pericolo
dalla congiura della stoltezza e dell’ignoranza, della violenza del
potere e dell’aberrante "logica delle passioni". Dal XXXI al XXXII
capitolo dei Promessi sposi è un crescendo continuo. La
rappresentazione potente del dolore e della sofferenza nasce dalla
critica inflessibile delle responsabilità collettive della società,
del suo modo d’essere e d’essere governata, del suo modo di pensare
e del suo aver trasformato in furore presunte certezze. Qui si
legge, ad un tempo, l’atto di accusa più forte contro l’oppressione
e il dispotismo delle idee dominanti e la difesa della tolleranza e
della ragione. Perché se il delirio delle unzioni nasceva dal povero
senno dell’uomo che cozzava contro i fantasmi che si creava da se
stesso, è pur vero che il buon senso c’era, anche se era costretto a
starsene nascosto per paura del "senso comune". Il senso comune:
l’egemonia del pregiudizio, del fanatismo, della corruzione del vero
pensiero, franco e ragionevole: ecco l’obiettivo polemico di
Manzoni, e, per converso, nella difesa del "buon senso", la difesa e
la celebrazione della tolleranza e del buon pensare. Non per nulla
le ultime pagine del XXXII capitolo dànno prepotentemente la mano a
quelle della Colonna Infame nelle quali, opponendosi alla
"fatalistica" interpretazione del Verri, Manzoni conclude il suo
discorso in difesa della dignità e dell’autonomia della coscienza
non corrotta dalla colpa: "Ma quando, nel guardar più attentamente a
que’ fatti [i processi agli untori], ci si scopre un’ingiustizia che
poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano, un
trasgredir le regole ammesse anche da loro, dell’azioni opposte ai
lumi che non solo c’erano al loro tempo ma che essi medesimi, in
circostanze simili, mostrarono d’avere, è un sollievo il pensare
che, se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere,
fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e
non è una scusa, ma una colpa; e che di tali fatti si può bensì
esser forzatamente vittime, ma non autori" (Storia della Colonna
Infame, Introduzione). Di tali fatti - di tutti i fatti - non si
potrà mai essere "forzatamente autori". Sicché, mentre la storia
viene giustamente interpretata nel suo nesso di responsabilità,
l’esercizio della mente su siffatte responsabilità - la loro
indagine e la loro critica - costituisce veramente la struttura di
quel libro, i Promessi sposi, che per molti versi appare unico nella
letteratura italiana. certamente il più antiromanzesco.
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