Fiorenzo Forti (1911-1980),filologo e docente
dell’Università di Bologna, storico della letteratura, si impegnò
con scrupolo erudito nello studio della cultura bolognese del
Duecento e di autori quali Muratori e Alfieri. Dopo essersi occupato
della gestazione linguistica dei Promessi sposi (L’"eterno lavoro" e
la conversione linguistica di A.M., 1954, poi in Fra le carte dei
poeti, 1965), ha affrontato il problema dell"’idillio" del romanzo e
della controversa interpretazione del finale nello scritto Manzoni e
il rifiuto dell’idillio del 1973, raccolto successivamente nel
postumo Lo stile della meditazione (1981).
Il rifiuto dell’idillio
Non ostante l’opinione concorde di tanti lettori di gusto e non
ostante la straordinaria ampiezza e duttilità conferita alla
definizione d’idillio dagli studiosi più vicini, a mio avviso,
sussiste più di un motivo per dubitarne.
Per cominciare, il "paese natio", usualmente evocato attraverso il
celebre addio di Lucia [cap. VIII], si configura negli accenni dei
critici come se fosse ispirato da una disposizione analoga a quella
dei "laghisti" inglesi~; ma è proprio tale il paese dei promessi
nella figurazione del Manzoni? In realtà, la sua quiete è soltanto
apparente dominato com’è dalla mole torva del palazzotto di don
Rodrigo, simbolicamente incombente sul villaggio, non senza qualche
coloritura scottiana [...]. Abbiamo nominato don Rodrigo: è davvero
curioso come si metta in parentesi ciò che non si vuoi contare.
Così, quando si parla di "storia piccola" e di personaggi
d’invenzione, il discorso s’indirizza Immancabilmente ai due
promessi, ad Agnese, ai cosiddetti "umili", insomma; ma don Rodrigo
nasce dallo stesso parto fantastico che genera Renzo e Lucia, e con
lui il Griso, [...] quel macchinatore d’imbrogli legali che è
Azzecca-garbugli, quel campione di servilismo che è il podestà, quel
fatuo esponente della nobiltà oziosa e libertina che è il conte
Attilio. La tavola di don Rodrigo potrà apparire indulgente a
modulazioni bozzettistiche - il Giordani avrebbe detto pitture
fiamminghe - ma non lascia campo a prospettive idilliche, anche se
aduna solo personaggi d’invenzione [...]. Il male non è, dunque,
soltanto nel "certo" della storia, ma anche nel "vero"
dell’invenzione manzoniana; intendo dire che non soltanto
nell’accaduto della guerra di Casale o della peste di Milano: il
male è essenziale alla stessa finzione e ben presente
all’immaginazione del poeta che lo radica materialmente sulle rive
del lago, in quel castello fitto nel paese come un verme in un pomo.
Né gli umili, gli oppressi, sono presentati in luce idillica, ma
piuttosto come preda passiva degli interessi del loro piccolo mondo:
veramente essi sono più impotenti che innocenti, pronti a
disinteressarsi della sorte di Agnese e Lucia, strappate alla
propria casa, alla prima voce anonima che ne fornisce il pretesto [cap.
VIII], pronti a far legna nell’orto di "quel poverino" [cap.
XXXIII], a profittare del suo triste esodo dal paese per ottenerne
la casa e l’orto "per un pezzo di pane" [cap. XXXVIII], e non
lontani, per istinto, dal sistema cui è giunto don Abbondio per
riflessione: "che a un galantuomo, il quale badi a se, e stia ne’
suoi panni, non accadono mai brutti incontri [cap. 1].
Dove regnano la sopraffazione e la violenza, il male dilaga e il
torto subito induce spesso al "pervertimento [...] gli animi degli
offesi" [cap. II]; detta a proposito di Renzo, la profonda
osservazione del Manzoni si estende necessariamente a tutto il
paese. Sotto questo aspetto appare molto più "oggettiva" del pianto
di Lucia l’esclamazione di Renzo appena passata l’Adda: "Sta lì,
maledetto paese" [cap. XVII].
Anzi, in un certo senso, la sofferenza e il pervertimento delle
povere "genti meccaniche" apparivano al Manzoni più terribili e
inesplicabili del dramma dei "personnages imposants" campeggianti
con le loro passioni nelle tragedie della storia: quel dolore
anonimo di sterminate moltitudini che il poeta sentiva, con pietà e
terrore, destinato fatalmente a degenerare in prostrazione vile o in
un vano tumulto, e che il tragico aveva dovuto comprimere nella
misura lirica dei cori (intesi schlegelianamente come commento dello
spettatore ideale e non come espressione delle forze attive nel
dramma), il romanziere poteva ora rappresentarlo in figure che
significavano non Da miserabile politica di pochi uomini", ma lo
stato reale di una società, cioè un quadro in cui l’idillio è ben
lontano, se la società è, come scrisse poco prima di accingersi al
romanzo [...], un mistero di contraddizioni in cui la mente si perde
se non lo considera come uno stato di prova e di preparazione ad
un’altra esistenza.
Quando la guerra e la peste attraversano il paese di Renzo e Lucia,
non vi trovano uomini diversi da quelli che rendono tragiche le
strade di Milano: le rive del lago manzoniano non hanno nulla di
comune con la valletta del Decamerone. La buona Agnese, certo, si
guarda dai nuovi venuti con minore aggressività del cittadino che,
in Milano appestata, punta il bastone contro il petto di Renzo [cap.
XXXIV], ma mostra pari diffidenza pei visitatori, e nulla fa credere
che gli abitanti del borgo fossero meno disposti a sospettare nel
prossimo l’untore di quanto lo erano i milanesi. I gesti di bontà,
di generosità, che ogni tanto intervengono nel racconto, non sono
gratuite colorazioni idilliche - tanto meno borghigiane -;
riflettono, invece, il proposito della fedeltà alla storia, cioè a
un tempo che, come scriveva il Manzoni al Fauriel, "a donné de l’exercice
à la scélératesse la plus consommoeet la plus débontée, aux préjugés
les plus absurdes et aux vertus les plus tonchantes" (29 maggio
1822). Ma la santità, lo sapeva troppo bene il Manzoni, è rara tra
gli uomini e sovente nasce proprio dalla colpa: nasconderlo sarebbe
una violazione vile e, in fondo, sacrilega del vero, come il poeta
ammonisce in Ognissanti: "Un timido ossequio non veli / le piaghe
che il fallo v’impresse: / un segno divino sovr’esse / la man che le
chiuse lasciò".
La sua rappresentazione è rivolta all’essere nel mondo e se qualcosa
il poeta tralascia (e relega in una nota frettolosa per puro
rispetto, appunto, della storia) è la vita "santa" di Virginia de
Leyva.
Ma non è certo possibile, qui, ripercorrere tutto il romanzo per
scandagliarne il fondo nascosto sotto la superficie levigata e
luminosa: limitiamoci, perciò, al punto forte, all’Achille, direbbe
don Ferrante [cap. XXXV11], dei sostenitori dell’idillio nei
Promessi sposi: il lieto fine, flagrante contraddizione di quanto il
Manzoni stesso aveva deprecato nella già ricordata lettera al
Fauriel, parlando di una "unite artificielle que l’on ne trouve pas
dans la vie réelle", imposta dai narratori alla vicenda, quando,
alla fine, riconducon tutti i personaggi insieme sulla scena ed
escogitano avvenimenti che influiscono in modo diverso sul destino
di tutti.
Anzitutto bisogna riflettere che, quando il Manzoni scriveva quelle
parole al Fauriel, la "storia" del matrimonio contrastato ma non
impedito era già fissata nella sua mente, tanto che avrebbe voluto
farla "ingoiare" tutta all’amico: perciò l’"esprit romanesque"
gradito al lettore, ma da evitarsi attraverso la considerazione
puntuale dell’agire degli uomini nella realtà, non poteva riguardare
la conclusione in se, ma il comportamento morale dei protagonisti. E
poi la tesi di una resa finale allo spirito romanzesco se ha un
apparente fondamento quantitativo, perché nel Fermo e Lucia il
racconto precipitava in qualche modo alla fine, mentre nei Promessi
sposi il finale si distende lentamente come in dolci volute,
contrasta con la considerazione qualitativa dei fatti. Basta
giustapporre la fine di don Rodrigo [cap. XXXV] nell’una e
nell’altra stesura, per constatare che il Manzoni tenne fede
all’assunto antiromanzesco: a quella fine da ballata berchettiana,
dell’invasato che attraversa furioso il lazzaretto come preda di un
demonio che lo trattiene fino alla morte sulla groppa di un cavallo
senza freno, che sembra uscita da una raccolta di exempla
medioevali, il Manzoni sostituisce la visione marmorea dell’uomo
immoto, privo ormai di coscienza, miserando sotto la cappa di
gentiluomo, vano segno di una distinzione mondana che dilegua.
Tuttavia la fine di don Rodrigo, a mio avviso, resta la fine di un
dannato, nonostante l’ammonimento teologicamente ineccepibile in cui
fra Cristoforo muta l’esclamazione del Fermo: giudizi di Dio! Quegli
occhi spalancati sono senza sguardo, non cercano il cielo come
quelli di Ermengarda, lo stringere adunco delle dita livide è come
un inconscio, disperato aggrapparsi alla terra; da quel terribile
disfacimento della carne non si leva lo spirito: la pietà e la
speranza di Cristoforo urtano contro il silenzioso diniego
dell’assistente e la resipiscenza non giunge, nel racconto del
Manzoni, a toccare quell’anima [...].
A guardar bene, l’indugio sulla vita di Renzo e Lucia dopo il
matrimonio è proprio l’inverso delle strutture favolistiche, nelle
quali la conclusione coincide colla risoluzione delle difficoltà e
con una sospensione degli eventi che è una vera fuga dal reale; al
Manzoni preme precisamente l’opposto, mostrare cioè il riaccamparsi
del quotidiano e le insospettate spine che la vita non risparmia
anche dopo la tempesta, perché lo domina la preoccupazione di non
mistificare la realtà dei costumi del tempo e la verità delle cose
di ogni tempo. L’eroe fantastico dell’ultimo capitolo, nella
redazione definitiva, è don Abbondio: e anche qui non riesce facile
capire come si sia potuto parlare di Provvidenza che accomoda le
cose dei buoni promessi: accomoda anche le cose di don Abbondio
salvo che, sotto questo aspetto, non osiamo chiamarla Provvidenza ma
fortuna, come suggerisce il Manzoni in un luogo del Fermo [...].
Don Abbondio, lui sì, ha la religione dell’idillio e col suo sistema
è quasi sempre riuscito ad ottenerlo, da quel campione del proprio
particulare che egli è, tutto ben chiuso nel finito terrestre,
capace di un Te Deum alla rovescia, come disse bene il Momigliano,
alla certezza della morte di don Rodrigo. La festosa agitazione in
cui il Manzoni lo immerge scioglie in commedia la satira acre che
scaturisce dall’invitta incomprensione del personaggio per la fede
che pur dice di professare ("tornando il caso, farebbe lo stesso",
dice benissimo di lui, senza malignità, Agnese al cardinale [cap.
XXIV]). Ma basta paragonare il parroco del Manzoni agli ingenui e
generosi pastori degli idilli inglesi e tedeschi per ricavarne un
contrasto stridente, una vera opposizione di negativo a positivo.
Tuttavia non è nel gioco degli eventi e dei personaggi che bisogna
cercare la "diversità" del Manzoni: egli aveva accettato fin da
principio questa vicenda, con ciò che essa poteva avere di
"artificiale", appunto perché doveva essere soltanto l’ordito che
gli consentisse di tessere la trama dei costumi di un’epoca, di
rappresentare, come aveva detto allo Chauvet, ipoteticamente ma
realisticamente, ciò che gli uomini avevano sentito, voluto,
sofferto entro quei costumi.
Sotto questo profilo, non dovrebbe apparire strano ed inadeguato il
"sugo di tutta la storia" che i critici si rifiutano di accettare
come tale proprio perché appare loro una chiusa troppo sommessa e
sedata per la grande vicenda di fame e di rivolta, di guerra e di
peste, quasi uno stanco congedo non dal romanzo, ma da quella
appendice postuma al romanzo, già idealmente concluso con l’ultimo
fatto davvero storico, il diluvio che parve spazzar via la peste [cap.
XXXVII], donde più coerentemente, a loro avviso, il Fermo correva
alla conclusione. Se non che anche la prima stesura terminava col
dialogo tra i due sposi e con quella conclusione ostica ai critici
al punto che, anche i più sensibili, per trovarle un pregio, parlano
di "colloquio domestico, la sera, al guizzo del focolare" cioè
d’idillio. Anzi, nel Fermo, commentario perpetuo al proprio lavoro
d’artista, il Manzoni, abbandonando per un attimo il gioco di
specchi con l’anonimo, parlava dell’acquisto munifico dei beni di
Renzo da parte dell’erede di don Rodrigo come di un "ripiego"
escogitato "da uno scrittore che voglia terminare lietamente una
storia inventata per ozio" e avviava così, garbatamente, il lettore
alla necessaria correzione riflessiva di quel fortunato giro di
eventi espressa poi dalla chiusa [...].
Così i due "umili" trovano da se [...] l’assioma agostiniano della
sostanza meramente morale del male. i guai vengono anche senza
colpa, ma la fiducia in Dio li raddolcisce e li rende utili per una
vita migliore.
Espressa in altro registro, la conclusione di povera gente combacia
ideologicamente con le gravi parole del Discorso sui Longobardi
sulle contraddizioni della società e della storia, in cui la mente
si perde se non le considera uno stato di prova per un’altra
esistenza. Il Manzoni ha compiuto il miracolo di trasferire nel modo
più spontaneo sulle labbra di povera gente quelle verità che la
lunga meditazione sulla storia gli aveva suggerito, dandoci un
esempio forse insuperato di quella poesia popolare che i suoi amici
romantici inseguivano con i più disparati accorgimenti retorici. A
leggerla in trasparenza la chiusa del romanzo ispira, sì, sentimenti
di quiete, ma non certo di quella "quiete di perfezione" di cui
parlava Schillerl8 a proposito del vagheggiato idillio borghese,
bensì di coraggiosa accettazione del finito, nella fiduciosa attesa
di una "vita migliore" [...]. È la felicità di speranza che si
sovrappone, nelle parole di conclusione, al lieto fine terrestre, lo
corregge, [...] insinuando, nella scena raccolta, un sottile senso
di esilio [...].
Il Manzoni "sliricato" non è idealmente "altro" dal poeta di
Adelchi: resta lo scrittore profondamente compreso del senso di
finito, dell’imperscrutabilità misteriosa del trascendente [...]. Di
qui il carattere e il limite invalicabile di ogni suo impegno
terrestre, che è vano tentar di forzare.
La conversione religiosa, invece di attenuare quel contrasto fra
ideale e reale, che il Manzoni sentì vivissimo nei suoi giovani anni
(fino a scrivere al Fauriel, nel 1806, che "la meditazione di ciò
che è, e di ciò che dovrebb’essere, l’acerbo sentimento che nasce da
questo contrasto..." erano le sorgenti della più alta poesia
moderna), tracciò tra l’uno e l’altro termine un insuperabile solco:
nessuna realtà terrestre potrà celare la propria fragilità dietro lo
schermo illusorio di una "consolazione temporale e mondana, la
quale, anche se potesse essere intera e senza mistura di alcun
dispiacere, dovrebbe finire in un gran dolore".
La fortunata conclusione degli eventi, dipinta con meravigliosa
serenità formale, non deve ingannare: se il grande romanzo di guerra
e di peste, di fame, di tribolazione e di rivolta pare schiudersi
per un momento all’idillio nel quieto interno domestico in cui Renzo
e Lucia ragionano dei tempi passati, è solo per far nascere sulle
labbra di quella "povera gente" la ferma conclusione che dissolve
ogni fede nell’idillio terrestre.
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