Il tardo Settecento è un momento particolarmente felice per la vita
culturale di Milano: la Lombardia, infatti, è passata nel 1713, con
il trattato di Utrecht, sotto il controllo dell’Austria, liberandosi
dal malgoverno spagnolo. Sovrani aperti alle riforme, come Maria
Teresa e suo figlio, Giuseppe II d’Asburgo, introducono innovazioni
che danno, nel decennio 1770-80, i primi risultati positivi.
Ricordiamo in particolare l’istituzione del Catasto geometrico della
proprietà fondiaria che pone la proprietà terriera su basi sicure,
regola il gettito fiscale, accorda facilitazioni agli agricoltori
più intraprendenti, senza danneggiare l’aristocrazia, che poggia la
sua ricchezza sul razionale sfruttamento della fertile pianura
Padana.
Gli intellettuali, per lo più di estrazione nobiliare o
alto-borghese, sono chiamati a collaborare: ricevono incarichi di
responsabilità e a volte sono accreditati consulenti per migliorare
la legislazione e controllare l’opportunità di scelte fondamentali,
in ambito monetario o nei rapporti commerciali.
Pietro Verri (1728-1797) è un esempio convincente di questa figura
di intellettuale calato nella vita civile: chiamato a far parte nel
1770 della Giunta per la riforma fiscale, ottiene l’abolizione degli
appalti privati nella riscossione delle imposte. Come presidente del
Magistrato camerale (l’equivalente della direzione finanziaria), si
sforza di riorganizzare meglio l’apparato fiscale. Intanto si
diffondono in Europa nuove idee che egli enuclea nelle Meditazioni
sull’economia politica (1771).
Il movimento culturale dell’Illuminismo (così chiamato perché gli
intellettuali confidano unicamente nel lume della Ragione) nasce in
Inghilterra e si sviluppa rapidamente in Francia, Italia e nel resto
dell’Europa. Gli illuministi esaltano una cultura operativa, che
propugna lo sviluppo della scienza e delle tecniche. Ricordiamo che
l’opera più significativa di questo movimento, l’Enciclopedia (in 17
volumi pubblicati tra il 1751 e il 1772, più altri volumi successivi
di tavole), riceve dai suoi ideatori e organizzatori, Denis Diderot
(1713-1784) e Jean Baptiste d’Alembert (1717-1783), un significativo
sottotitolo: Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei
mestieri, da parte di un’associazione di letterati. Ad essa
collaborano, con articoli e interventi sulle varie voci, i nomi più
prestigiosi della Francia del tempo: Voltaire (1694-1778),
Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), Charles de Secondat, barone di
Montesquieu (1689-1755), Claude-Adrien Helvétius (1715-1771),
Étienne de Condillac (1715-80), Paul-Henry D’Holbach (1723-89), il
naturalista George-Louis Buffon (1707-88), gli economisti Robert
Turgot (1727-81) e François Quesnay ( 1694-1774).
Si diffondono i giornali, sul modello dello Spectator (1711)
dell’inglese John Addinson, strumento di informazione destinato al
largo pubblico, e dello spregiudicato "Tatler" ("Il Chiacchierone")
di Richard Steele.
A Milano questa cultura, proiettata verso il progresso, attenta ai
problemi concreti dell’uomo, pronta a intervenire nella gestione del
pubblico interesse, trova attenti interlocutori. Nasce, così la
Società dei Pugni e un periodico, "Il Caffè", edito dal giugno 1744
al maggio1766. Si distinguono, per impegno e numero di interventi, i
fratelli Pietro e Alessandro Verri (1741-1816), ma il collaboratore
più prestigioso è Cesare Beccaria (1738-1794), l’autore di un vero
best-seller, il trattato Dei delitti e delle pene (1764) in cui
dimostra l’inefficacia della pena di morte e delle torture nella
prevenzione dei delitti.
Il Romanticismo entra in Italia attraverso la garbata mediazione di
una grande "operatrice culturale", madame de Stäel (1766-1817). Il
suo articolo, Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni, esce nel
gennaio del 1816 sulla Biblioteca italiana, periodico milanese
promosso e divulgato a cura del governo austriaco.
La scrittrice francese invita gli italiani ad aprire i propri
orizzonti, a guardare anche alla produzione d’oltr’Alpe e, in
particolare, agli sviluppi della cultura in Inghilterra, Germania e
Francia, dove ormai si sta diffondendo il Romanticismo. Subito si
infiamma il dibattito fra i critici della proposta della Stäel e i
suoi sostenitori, come Pietro Borsieri (1786-1852), autore
dell’articolo Intorno all’ingiustizia di alcuni giudizi letterari
italiani (1816) e Ludovico Di Breme (1780-1820) che scrive Avventure
letterarie di un giorno (1816), ma non mancano in primo piano gli
amici del Manzoni, come Ermes Visconti e Giovanni Berchet. Questi,
nella Lettera semiseria di Giovanni Grisostomo (dicembre 1816),
elabora il manifesto del Romanticismo italiano. In tono elegante e
vivace polemizza contro i classicisti, che ripetono sempre gli
stessi moduli poetici, imitando i modelli antichi, fanno della
poesia mezzo di diletto, piuttosto che di educazione, ignorano il
sentimento, si rivolgono a una categoria ristretta di "addetti ai
lavori".
Invece il Romanticismo propugna un’arte diretta a un ampio pubblico
borghese, mira a riprodurre i problemi degli uomini, calati nella
realtà, si propone una funzione importante, perché vuole educare le
menti e i cuori.
Anche Alessandro Manzoni vi aderisce con entusiasmo, ma non si
pronuncia per iscritto. Conosciamo le sue idee sul questo movimento
dalla lettera Sul Romanticismo, inviata al marchese Cesare D’azeglio
nel 1823 e pubblicata senza il suo consenso nel 1846. Egli ritiene
assurdo l’uso della mitologia, massicciamente presente nella poesia
neoclassica, perché crea una letteratura d’evasione, elaborata
secondo l’imitazione acritica, pedissequa e anacronistica dei
classici. Invece l’opera d’arte deve essere educativa, cioè deve
aiutare l’uomo a conoscere meglio se stesso e il mondo in cui vive.
In questo testo Manzoni elabora una formula che mette a fuoco la sua
concezione poetica: l’opera letteraria ha "l’utile per iscopo, il
vero per oggetto e l’interessante per mezzo".
È questa un’affermazione non nuova nella forma, ma certamente nuova
nella sostanza. L’utile coincide con la moralità in senso cristiano
ed è il fine stesso della poesia tesa alla formazione delle
coscienze; l’interessante viene a coincidere con la scelta stessa
dell’argomento da trattare, che deve restare nell’ambito della
meditazione sull’uomo, sulla sua vita e sul suo rapporto con la
Divina Provvidenza; mentre il vero coincide con la ricerca del vero
storico.
In pratica considera il Romanticismo come un rinnovamento dei moduli
espressivi e dei temi propri della letteratura, poiché si indirizza
a un pubblico vasto. In modo particolare sottolinea le peculiarità
del Romanticismo lombardo‚ che, erede dell’Illuminismo, non lo
sconfessa ma ne approfondisce e sviluppa le tematiche. Aperta
all’Europa, Milano, ex capitale della napoleonica Repubblica
Cisalpina, ospita intellettuali e periodici che non intendono
sconfessare la Ragione, ma, semmai, vogliono affiancarle il
sentimento, per rendere più completa la visione dell’uomo. In nome
della Ragione si cerca di svecchiare la letteratura, liberandola da
regole assurde, come le tre unità aristoteliche, che hanno
condizionato la produzione teatrale italiana sino al Settecento.
I classici sono letti con ammirazione e costante interesse, ma non
più imitati, perché l’opera d’arte nasce strettamente congiunta con
lo spirito di un’epoca, che è irripetibile. Infine anche la
Religione è vissuta in sintonia con il vaglio della Ragione.
L’esempio più evidente delle strette interrelazioni tra i due
movimenti culturali, in Lombardia, è proprio Manzoni, un grande
romantico, nipote di un grande illuminista, Cesare Beccaria. Ma c’è
di più: il Romanticismo lombardo porta avanti, senza nasconderlo, un
preciso intendimento patriottico-risorgimentale che emerge dalle
pagine del periodico Il Conciliatore.
È un foglio azzurro che viene pubblicato due volte la settimana a
Milano, dal 3 settembre 1818 al 17 ottobre 1819: viene sostenuto
economicamente dal conte Luigi Porro Lambertenghi (1780-1860) e dal
conte Federico Confalonieri (1785-1846), che collaborano anche con
interventi redazionali. Lo dirige il piemontese Silvio Pellico e
scrivono articoli Giovanni Berchet, Ludovico Di Breme, Pietro
Borsieri, Ermes Visconti. Collaboratori occasionali sono grandi nomi
dell’economia, come Melchiorre Gioia, Gian Domenico Romagnosi
(1761-1835) e Giuseppe Pecchio (1785-1835), storici come il
ginevrino Sismonde de Sismondi (1773-1842), scienziati come il
medico-letterato Giovanni Rasori (1766-1837).
Manzoni ne rimane estraneo, troppo assorbito dalla sua attività
creativa, che in quegli anni è davvero intensa. Segue, però, con
attenzione e partecipazione, condividendone il programma. Il titolo
del periodico, Conciliatore, non è casuale: nasce dall’intenzione di
mettere in comune gli sforzi dei circoli intellettuali milanesi per
dare alla letteratura forza ed efficacia, per elaborare un valido
progetto culturale, sociale e politico: inevitabile, quindi, proprio
alla luce dell’evidente intento patriottico, che intervenga l’occhio
vigile della censura austriaca, la quale lascia ben poca vita al
giornale. L’impegno sociale del Conciliatore, che mira alla
"pubblica utilità", istruendo i Milanesi sulle innovazioni che in
Europa segnano il progresso in tutte le branche del sapere (dalla
pedagogia all’agricoltura, dalle istituzioni alla medicina, dalle
scienze naturali alle loro applicazioni tecniche), lo pongono sulla
linea del Caffè, del quale, peraltro, i "conciliatori" si
considerano eredi e prosecutori.
Naturalmente il giornale si presenta come espressione di una cultura
italiana. Per esempio, il problema della coltivazione della vite in
Toscana non risulta meno interessante di quello dei bachi da seta in
Lombardia. C’è quanto basta per indurre l’Austria a sopprimere il
giornale e costringere al silenzio i collaboratori con
l’intimidazione o la deportazione: tra questi ricordiamo Silvio
Pellico, il quale riporta le memorie della sua prigionia nel carcere
asburgico dello Spielberg nel libretto Mie prigioni (1832), che fece
grande scalpore e rappresentò per l’Austria una notevole sconfitta.
Gli anni del "periodo creativo" del Manzoni sono caratterizzati da
grandi eventi storici che si ripercuotono sulla Lombardia, lasciando
tracce profonde. Il crollo di Napoleone, e la restaurazione sui
troni degli antichi sovrani, "spazzati via" dalla conquista
francese, porta la Lombardia nuovamente sotto la dominazione
austriaca. Anche qui, come in altri Paesi europei, si formano
società segrete; in Lombardia sorge la Carboneria, che organizza
moti insurrezionali, destinati a fallire prima ancora di
realizzarsi.
Manzoni abbraccia gli ideali patriottici e risorgimentali,
auspicando l’indipendenza e l’unificazione delle regioni italiane:
esprime le sue idee soprattutto nelle quattro appassionate Odi
civili.
Proprio il Cinque maggio, che non ha un carattere militante
patriottico, perché non invita all’azione, rappresenta una
riflessione sul rapporto fra l’uomo e la storia. Manzoni introduce
il concetto di provvida sventura, affermando che le sconfitte, come
l’esilio di Napoleone, avvicinano l’uomo alla fede e gli fanno
conquistare qualcosa di molto più alto e prezioso, la salvezza
dell’anima.
Con la scrittura delle tragedie, Il conte di Carmagnola e l’Adelchi,
si rafforzano proprio due concetti che diventeranno il fondamento
della poetica manzoniana: la provvida sventura e il vero storico.
Nella Lettre à monsieur Chauvet sur l’unité de temps et de lieu dans
la tragédie, pubblicata nel 1823, il Manzoni offre un vero saggio di
metodologia. Egli sostiene che l’unità d’azione non corrisponde a un
singolo avvenimento, ma a molti avvenimenti, anche lontani nel tempo
e nello spazio; essi, però, sono collegati da rapporti interni (come
quello di causa ed effetto). Collante che garantisce l’unità
dell’azione è, per Manzoni, il vero storico ossia rispetto per i
fatti e riproduzione fedele delle caratteristiche dei personaggi,
così come ci sono state tramandate dalla storia e puntualizzate in
seguito a una severa ricostruzione preliminare. Sentiamo l’eco
dell’insegnamento dello Schlegel che costituisce il punto
fondamentale della poetica manzoniana: il rispetto della verità
storica è garanzia della validità morale ed estetica dell’opera
d’arte: l’unità d’azione, dunque, nasce dalla capacità dello
scrittore di cogliere i nessi tra gli eventi e rintracciarne il
senso più alto. Si noterà anche che non è estranea, soprattutto in
quest’ultima implicazione, la visione religiosa dell’autore.
Siamo arrivati al punto da cui eravamo partiti. All’inizio abbiamo
detto che Manzoni ìdea I Promessi Sposi leggendo una grida del
Seicento, riportata da Melchiorre Gioia. È la stessa trascritta nel
terzo capitolo del romanzo, circa le pene a cui va incontro chi
impedisca la celebrazione di un matrimonio.
"Sai che cos’è stato che mi diede l’idea di fare I Promessi Sposi? È
stata quella grida che mi venne sotto gli occhi per combinazione, e
che faccio leggere, appunto, dal dottor Azzecca-garbugli a Renzo
dove si trovano, tra l’altro, quelle penali contro chi minaccia un
parroco perché non faccia un matrimonio. E pensai, questo sarebbe un
buon soggetto per farne un romanzo (un matrimonio contrastato), e
per finale grandioso la peste che aggiusta ogni cosa!", scriverà il
Manzoni, anni dopo, al figliastro Stefano Stampa.
Sono anni di lavoro intenso. Così Pietro Citati lo immagina intento
nel suo sforzo creativo: "Fu il periodo più felice della sua vita:
l’unico, forse, felice ch’egli conobbe... Era incuriosito e
divertito da quello che raccontava, e per la prima volta scoprì la
gioia di proporre avventure, di sciogliere intrighi, di giocare con
i fatti... persino la nevrosi e gli incubi sembrarono allentare per
qualche tempo la loro presa sopra di lui" (da Pietro Citati, La
collina di Brusuglio, in Immagini di Alessandro Manzoni, Milano,
Mondadori, 1973, p. XXXIX).
Come arriva al romanzo? Quali sono le urgenze interiori che lo
avvicinano a questo tipo di produzione, pressoché assente in Italia,
considerata anzi con una sorta di sufficienza dagli intellettuali,
perché orientato verso un pubblico borghese di non "addetti ai
lavori"?
In realtà Manzoni capisce che né la lirica civile né il teatro
soddisfano quel bisogno di comunicare "ad ampio raggio" che è una
sua aspirazione profonda. Anzi, i personaggi del teatro si
trasformano quasi in simboli, si innalzano in una sfera astratta che
coinvolge la meditazione esistenziale: Adelchi è un eroe, chiuso nel
cerchio sublime del suo pessimismo. Quanti lettori possono
riconoscersi in lui, pur condividendone, i princìpi e le
aspirazioni?
Il romanzo, invece, si presenta al largo pubblico con un linguaggio
più semplice, una narrazione avvincente, personaggi verosimili per
le loro umanissime reazioni. Il genere del romanzo è l’immagine
letteraria della classe borghese che rappresenta un pubblico non
d’élite e tuttavia desideroso di letture.
Grazie a Fauriel, durante il secondo soggiorno parigino, Manzoni ha
conosciuto le opere dello scozzese Walter Scott: con lui si parla di
romanzo storico perché le vicende sentimentali dei protagonisti sono
calate in periodi storicamente ben definiti e per lo più nel
Medioevo, ricostruito con una certa attendibilità. Ivanhoe è,
all’interno della feconda vena narrativa dello Scott, il romanzo più
celebre, pubblicato nel 1820. Se vogliamo comprendere in quale
misura il Manzoni ne rimane influenzato, ma anche se ne distacca per
costruire I Promessi Sposi all’insegna di una straordinaria
originalità, bisognerà soffermarci un poco su di esso.
La vicenda di Ivanhoe è ambientata nell’Inghilterra del XII secolo.
I Normanni hanno imposto la loro supremazia sui Sassoni e re
Riccardo Cuor di Leone cerca di amalgamare i due popoli. Partito per
una crociata, il sovrano ha affidato l’amministrazione del regno al
fratello Giovanni, incapace e sleale.
La narrazione comincia con la descrizione di un grande torneo, in
cui si distingue un misterioso cavaliere, che poi si scoprirà essere
Wilfred d’Ivanhoe, figlio di Cedric il Sassone, tornato dalla
Terrasanta. Egli viene ripudiato dal padre, perché vorrebbe trovare
un accordo con i Normanni. Per questo non può sposare lady Rowena,
pupilla di Cedric, deciso a maritarla soltanto a un Sassone fedele
ai suoi principi. Nella storia intervengono vari personaggi. L’ebreo
Isacco di York e la figlia Rebecca aiutano Ivanhoe quando si trova
in difficoltà, mentre Robin Hood, con i suoi uomini, fuorilegge
abitanti la foresta di Sherwood, che rifiutano di pagare le tasse,
non esitano a dare man forte al cavaliere, circondato da nemici. Tra
questi è accanito il templare Brian de Bois-Guilbert che, alla fine,
viene ucciso in duello. La storia, naturalmente, è a lieto fine:
Ivanhoe e Rowena si sposano, il misterioso personaggio che ogni
tanto compare, denominato "il cavaliere nero", non è altri che re
Riccardo, tornato a riportare il buon governo. La giustizia e
l’amore trionfano.
Come si può notare, il romanzo è impostato sulla contrapposizione di
buoni perseguitati e di cattivi persecutori, i quali troveranno il
giusto castigo. L’amore, a lungo mortificato e quasi annullato dalla
prepotenza dei "cattivi", alla fine si risolve in nozze benedette.
Alessandro Manzoni comprende le enormi potenzialità letterarie
contenute nel romanzo. In Italia questo esperimento non è ancora
compiuto. Circola solamente il romanzo epistolare di Ugo Foscolo
Ultime lettere di Jacopo Ortis (1817), dal carattere parzialmente
autobiografico, dove al tema dell’amore si unisce quello della
patria asservita allo straniero. Jacopo, deluso nelle speranze di
sposare l’amata e deluso perché con il trattato di Campoformio del
1797 la Repubblica di Venezia è caduta in mano agli Austriaci, si
uccide.
Nell’Europa del primo Ottocento, invece, il romanzo si è affermato
pienamente da circa un secolo. Compare in Francia nel 1678 con la
commovente vicenda della Princesse de Clèves narrata da madame de La
Fayette: ambientato a metà del Sedicesimo secolo, alla corte di
Enrico II, è la storia di una passione tenuta a freno dal senso
dell’onore e del dovere.
Avventura e ricerca filosofica sono abbinate nel romanzo di Voltaire
Candide(1759) in cui un giovane, dopo mille peripezie, sposa la sua
amata, ormai vecchia e brutta, ma scopre anche il senso della vita.
Nei Promessi Sposi le partenze i viaggi, le separazioni, le
ricerche, gli incontri fortuiti sono piuttosto frequenti e, alla
base, sta il meccanismo tipico dei romanzi d’avventura.
D’altra parte il filosofo francese Jean-Jacques Rousseau, nel
romanzo La nouvelle Eloïse (1761), riprende il tema dell’amore
contrastato dal senso del dovere, costruendo un modello insuperabile
di eroina romantica nella figura di Giulia, figlia obbediente e
moglie fedele al quale, fatte le debite riserve, potremmo accostare
quello di Lucia. Il tema del viaggio, del naufragio, delle
difficoltà a cui l’uomo, con la scienza, sa porre rimedio, tornano
in Robinson Crusoe (1719) dell’inglese Daniel De Foe, mentre il
motivo dell’ingiustizia e della malvagità del nobile che si
accanisce su un giovane povero emerge in Tom Jones (1749) di Henry
Fielding.
Inutile dire che tutti questi romanzi si risolvono con un lieto
fine: l’intrigo viene smascherato e il perseguitato riceve la giusta
dose di ricompensa, proprio come nei Promessi Sposi, benché nel
romanzo manzoniano esista una componente che manca in tutti gli
altri: la visione religiosa. Abbiamo dovuto anticipare questa
osservazione per evitare false interpretazioni. Nel Settecento,
all’interno del filone "gotico", compaiono romanzi "neri", in cui
gli eroi si muovono su sfondi tenebrosi di castelli popolati da
forze misteriose e sovrumane, ostacolati da malvagi che evocano
potenze ultraterrene: è questo il contenuto del Castello di Otranto
(1764) dell’inglese Horace Walpole, in cui emerge la figura della
fanciulla che, a causa della persecuzione del nobile prevaricatore,
non può sposare il giovane che ama. La monaca (1796) del francese
Dénis Diderot, narra le peripezie di una giovane che entra in
convento, forzata dalla famiglia: non possiamo non pensare alla
celebre vicenda manzoniana della monaca di Monza, anche se la storia
di questo personaggio è recuperata dalle cronache secentesche del
Ripamonti. Il monaco (1796 ), di Mattew Gregory Lewis, rappresenta
il tipico esempio di romanzo gotico in cui orrore, erotismo,
suspense e violenza si mescolano, avvincendo il lettore. Non
dimentichiamo che anche nei Promessi Sposi non mancano rapimenti e
colpi di scena, compaiono personaggi che potrebbero ben essere
definiti "oppressori".
Il grande scrittore tedesco Wolfgang Goethe (1739-1842) suggerisce
al Foscolo il tema dell’amore infelice nelle Ultime lettere di
Jacopo Ortis con il romanzo I dolori del giovane Werther (1774), che
racconta la storia di un amore impossibile per la bella Carlotta.
Tuttavia nell’altro suo romanzo, Gli anni di apprendistato di
Wilhelm Meister (1795) offre un valido spunto anche per Manzoni.
L’analisi goethiana della formazione del giovane, infatti, non è
estranea all’ideazione del personaggio di Renzo che, nel corso del
romanzo, matura e arricchisce la sua esperienza, sino a consolidare
una personalità sicura.
La prima stesura dei Promessi Sposi è molto diversa dall’edizione
definitiva, che vedrà la luce quasi vent’anni dopo, nel 1840.
L’autore, nell’arco di due anni scrive il romanzo in quattro tomi,
intitolandolo provvisoriamente Fermo e Lucia, dal nome dei
protagonisti.
La composizione inizia nel 1821 e termina nel 1823, con alcune
interruzioni. Le sue fonti sono quelle già citate: oltre ai romanzi
che circolano in quegli anni e che vengono pubblicati intorno al
1820, come quello di Walter Scott, il Manzoni attinge alle cronache
e alle opere di storiografia del Seicento: ricordiamo: De peste
Mediolani quae fuit anno MDCXXX (La peste che scoppiò a Milano nel
1630), e Historiae Patriae (Le storie della patria, in 23 libri) di
Giuseppe Ripamonti (1573-1643), il Raguaglio di Alessandro Tadino
(1580-1661), medico milanese che diagnosticò la peste e le sue
cause, nonché le già citate opere dell’economista Melchiorre Gioia,
contemporaneo del Manzoni.
La novità che balza subito all’occhio è il fatto che sono
protagonisti personaggi di origine umile e l’ambientazione è di tipo
rurale. Niente cavalieri né damigelle, tornei, imboscate e duelli
all’ultimo sangue, ma solo situazioni che, trasposte in epoche
diverse, potrebbero vedere coinvolto chiunque. Certo non mancano
vicende eccezionali, come la peste, la guerra, il rapimento della
protagonista, una clamorosa conversione: tuttavia Manzoni le
presenta con estrema verosimiglianza. Infatti crede nella necessità
di rifondere, nel romanzo, il vero storico e l’invenzione poetica:
lo scrittore pensa che la letteratura, per avere carattere
educativo, non può rinunciare a proporsi come momento di conoscenza
e stimolo alla riflessione. Perciò deve prospettare personaggi,
vicende, situazioni, considerazioni, scene, dialoghi e soliloqui in
cui il lettore si possa riconoscere.
Come mai la scelta degli umili come protagonisti? E perché proprio
un romanzo storico? Sicuramente non è estranea la concezione
cristiana del Manzoni e la sua opinione che la storia sia fatta
dalla gente comune, dalla massa popolare, piuttosto che dalle élites
al potere. Naturalmente si tratta di una narrazione, nella quale una
vicenda d’amore è inserita in un contesto illustrato con precisione
e sul quale l’autore si documenta con cura puntigliosa. A questo
punto torniamo ancora una volta al felice binomio di verità e
fantasia che dà al romanzo realismo e universalità.
Spieghiamoci meglio: l’ambientazione rigorosamente studiata e i tipi
umani scelti dall’autore rimandano alla realtà. I protagonisti non
sono creature eccezionali, ma gente semplice come se ne trova
ovunque e in ogni epoca. I personaggi "storici", ossia quelli
ricavati dalle cronache, sono riprodotti senza che mai siano falsate
(o "romanzate") le fonti storiche, ma proprio questi personaggi
acquistano una suggestione straordinaria quando l’autore cerca di
illuminare la loro psicologia e immagina ciò che le cronache non
possono dire, ossia il loro dramma interiore, il fastello di
irrequietezze, di paure, di contraddizioni, le riflessioni, i
compromessi che li portano a scelte e decisioni sofferte. L’autore
li ricostruisce dall’interno, inventa il processo spirituale che li
ha resi quelli che tramandano gli storici. Per questa operazione
letteraria deve fare appello alla sua arte poetica, alla sua
sensibilità, e, perché no?, anche alla sua esperienza personale: chi
potrebbe negare che, per ricostruire la faticosa conversione
dell’innominato, Manzoni non abbia ripensato alla "sua" conversione?
Un’altra domanda: perché proprio il Seicento? Si può rispondere,
ricordando il patriottismo profondo del Manzoni. Nel secolo della
dominazione spagnola sul Milanese, egli ravvisa molte analogie con
il suo tempo, in cui la Lombardia è sottomessa agli Austriaci e
ancora compaiono prevaricazioni e violenze. Come a quei tempi gli
umili erano in balìa delle forze politiche, così ora i diritti dei
cittadini sono violati e le loro giuste esigenze di libertà sono
soffocate. La vicenda è ambientata nel territorio del Ducato di
Milano e dura per due anni, dal 1628 al 1630. Protagonisti sono due
giovani borghigiani che non possono sposarsi perché il signorotto
della zona si è incapricciato della promessa sposa. Dopo lunghe
peripezie (i fidanzati devono separarsi ma si ritrovano, poi, in
circostanze drammatiche) le nozze vengono celebrate.
Il romanzo non soddisfa affatto l’autore che lo dà in lettura agli
amici Visconti e Fauriel. Quest’ultimo gli suggerisce alcuni tagli
sostanziali, per modificare una struttura poco equilibrata, in
alcune parti prolissa e fuorviante.
A questo punto, però, l’autore comprende che non si tratta soltanto
di scrivere una bella storia capitata in passato, di comporre un
romanzo che sappia divertire e intrattenere il lettore: sente dentro
di sé l’urgenza di trasmettere un messaggio universale e di dare
alla sua opera quella funzione educativa, già obiettivo dei suoi
capolavori precedenti. Occorre, quindi, guadagnare in sobrietà e
chiarezza, dando ai personaggi quel carattere particolare che
consente di farsi portavoce di un’esperienza di vita.
Nel 1825 i quattro volumi sono ridotti a tre, dall’intreccio più
agile e organico. Nel 1827 ecco l’edizione (detta "ventisettana")
dei Promessi Sposi. Storia milanese del secolo XVII scoperta e
rifatta da Alessandro Manzoni: duemila copie sono esaurite nell’arco
di due mesi. Già il titolo è notevolmente suggestivo: l’autore,
infatti, si presenta nelle vesti di scopritore e rifacitore, nel
milanese in uso ai suoi tempi, di un antico manoscritto secentesco,
composto da un misterioso autore Anonimo: non è un espediente molto
originale, se pensiamo che già Ludovico Ariosto l’ha usato per
l’Orlando furioso (1532) e Miguel de Cervantes se ne è servito per
il Don Chisciotte (1605-16015).
- La storia
Vediamo ora, in sintesi, la storia che inizia la sera del 7 novembre
1628.
Don Abbondio, parroco di un paesino sulle colline presso Lecco,
viene minacciato dai bravi di don Rodrigo, affinché non celebri il
matrimonio fra Renzo e Lucia. I malviventi, al servizio del
signorotto, sanno incutere una gran paura al pavido curato che, con
mille pretesti, l’indomani convince lo sposo a rimandare la
cerimonia. I due giovani cercano una soluzione: Renzo si reca a
Lecco per chiedere aiuto all’avvocato Azzecca-garbugli, Lucia
confida nell’intervento di padre Cristoforo, un cappuccino che non
esita ad affrontare don Rodrigo in persona.
Ma questi è irremovibile; anzi, progetta il rapimento della ragazza.
I fidanzati devono fuggire la notte del 10 novembre. Qui la
narrazione si biforca: la storia di Lucia porta il lettore in un
convento di Monza. Qui la ragazza trova protezione presso una
potente monaca, di cui l’autore ci racconta la storia.
Successivamente Lucia viene rapita dal convento, con la connivenza
della suora, e portata in un castello sul confine con il territorio
veneziano; è in quest’occasione che fa un voto alla Madonna:
rinunciare a Renzo in cambio della salvezza e della libertà. Lì il
rapitore, l’innominato, un potente malfattore che ha voluto
assecondare don Rodrigo, commosso dalla ragazza, decide di cambiare
vita: già da tempo si sentiva stanco di commettere delitti e
violenze. Alla "conversione" lo aiutano anche le buone parole
dell’arcivescovo di Milano Federigo Borromeo. Lucia, liberata, trova
ospitalità presso la nobile famiglia milanese di don Ferrante e
donna Prassede.
Frattanto Renzo giunge a Milano e si fa coinvolgere nei tumulti
scoppiati in seguito alla scarsità di pane. A stento sfugge alla
polizia, che lo crede un sobillatore, e raggiunge il cugino Bortolo
a Bergamo, dove lavora in un filatoio, sotto falso nome. Trascorre
così un anno. Nel 1630 le truppe imperiali dei lanzichenecchi
scendono in Italia, attraversano il ducato di Milano, per andare ad
occupare Mantova: infatti è in corso la guerra dei trent’anni, che
coinvolge molti Stati europei. Francia e Spagna sono in lotta per il
controllo del ducato di Mantova e del Monferrato. Le truppe
diffondono la peste che falcia migliaia di vite umane e mette in
ginocchio la ricca e prosperosa Milano. Renzo si ammala, ma guarisce
e decide di tornare in cerca di Lucia. La trova al lazzaretto, un
centro di raccolta degli appestati di Milano: anche lei ha preso la
peste ma l’ha superata ed ora è convalescente e assiste una ricca
vedova di Milano.
Nel lazzeretto si trova anche don Rodrigo è malato, ma la sua
situazione non lascia sperare, ed è stato oltretutto reso folle
dalla malattia e dal tradimento del suo fedele Griso. Non lasciano
sperare neanche le condizioni di Fra’ Cristoforo che con totale
abnegazione assiste i malati: a lui si rivolge Renzo per la
questione del voto, che viene cancellato perché non valido in quanto
fatto in condizione di pericolo. Ottenuta la nuova promessa di
Lucia, Renzo torna al paesello per preparare le nozze: un violento
acquazzone fa terminare il contagio. I due giovani si riuniscono al
paesello e, finalmente, don Abbondio celebra le nozze. Risolti tutti
i problemi, compresa la pendenza con la giustizia relativo al
tumulto di San Martino, la famigliola si trasferisce a Bergamo, dove
Renzo impianta un filatoio con il cugino. La storia finisce
serenamente.
Che cosa è cambiato dal Fermo e Lucia ai Promessi Sposi? Qualcosa di
molto sostanziale. Non solo, infatti, i personaggi modificano il
loro nome (Fermo Spolino diventa Renzo Tramaglino, filatore di seta,
come ricorda il cognome; Lucia Zarella si chiama Lucia Mondella; fra
Galdino, il cappuccino che protegge i fidanzati, assume il nome di
padre Cristoforo; il Conte del Sagrato riceve la misteriosa
denominazione dell’innominato, Marianna De Leyva diventa l ‘anonima
monaca di Monza), ma sono introdotti tagli decisi alla narrazione.
Le vicende dei due personaggi storici per eccellenza (perché sono il
frutto di una pignola consultazione delle cronache del tempo), ossia
l’innominato e la monaca di Monza, sono sfumate e ridotte. Di queste
figure il lettore non conosce tutti gli antefatti, ma soltanto le
notizie fondamentali: in compenso è approfondito lo scandaglio
psicologico, a tutto vantaggio della poeticità e suggestione della
loro personalità. Infatti la storia della fanciulla monacata per
forza nel Fermo e Lucia è così vasta da costituire davvero "un
romanzo nel romanzo", che spiazza il lettore e gli fa dimenticare il
filo centrale della narrazione. Inoltre, subito dopo l’interminabile
odissea della monaca, ecco apparire il tenebroso Conte del Sagrato,
anche lui con una lunghissima biografia alle spalle, vero excursus
in cui il lettore si immerge nel mondo violento dei sicari
secenteschi. Però ne deriva un grosso inconveniente: quando, dopo
pagine e pagine, ricompare il povero Fermo, che poi è il
protagonista, sembra quasi un intruso piovuto non si sa da dove. A
ciò si aggiunge, come osservano gli amici di Manzoni, che emerge un
eccessivo compiacimento per gli aspetti truculenti, torbidi,
violenti dei personaggi. Per esempio l’autore illustra con esagerato
realismo l’agguato del Conte a un nemico sul sagrato della chiesa,
oppure si dilunga nel descrivere l’assassinio di cui la monaca si
rende complice tra le mura del convento.
Tacendo i torbidi retroscena della monaca e lasciando intuire
solamente il passato dell’innominato, il romanzo acquista maggiore
eleganza e omogeneità stilistica, mentre i personaggi risultano più
misteriosi, interiormente ricchi, sfaccettati, verosimili e forti di
una incredibile capacità di ricreare la suspense.
Solo don Rodrigo rimane immutato, anzi, risulta peggiore. Sembra che
Manzoni voglia davvero fare di lui l’incarnazione del male di tutto
un secolo. Nel Fermo e Lucia, infatti, egli è scosso da una vera
passione per la ragazza e vive una tremenda crisi di gelosia nei
confronti di Fermo. La sua persecuzione, in fondo, nasce da un
sentimento che potrebbe, se non giustificarla, renderla umanamente
comprensibile. Nella redazione successiva, invece, gli ostacoli che
frappone alle nozze nascono da una futile scommessa stipulata con il
cugino Attilio, superficiale e prepotente come lui.
Alcune scene ad effetto, come la morte di don Rodrigo, che
impazzisce per il contagio della peste e si getta in una furibonda
cavalcata nel lazzaretto, vengono riequilibrate, smorzate nella
suspense, a tutto vantaggio dell’armonia della narrazione.
Anche dal punto di vista strutturale I Promessi Sposi risultano in
parte modificati, con lo spostamento di alcuni blocchi narrativi: i
due episodi della monaca di Monza e dell’innominato vengono
distanziati con l’inserimento delle avventure di Renzo nei tumulti
di Milano.
Nell’edizione del Ventisette il Manzoni attua anche tagli decisi
nelle parti più specificatamente metodologiche e storiografiche:
abolisce la dissertazione sul problema della lingua del romanzo e
toglie tutta la documentazione dei processi agli untori (presunti
responsabili della diffusione della peste a Milano) che ha rinvenuto
negli atti riportati dalle cronache milanesi. Questa documentazione,
peraltro di grande interesse, verrà enucleata e rielaborata nella
Storia della colonna infame, pubblicata nel 1842 in appendice
all’ultima e definitiva edizione del romanzo.
Non mancano, infine, le aggiunte: poche, ma utili per infondere al
romanzo quel tono di realismo, arricchito da un umorismo sottile che
tempera la drammaticità di alcuni episodi. Per esempio l’autore
inventa il soliloquio di Renzo che, in fuga verso Bergamo, sta
cercando un facile guado dell’Adda. È un capolavoro di introspezione
psicologica: chi non ha mai parlato da solo, in maniera concitata e
aggressiva, quando ha rimuginato fra sé un torto subito?
Uno dei primi entusiasti recensori del romanzo è Wolfgang Goethe, ma
seguono rapidamente giudizi molto positivi di scrittori francesi
come Stendhal (1783-1842), Alphonse de Lamartine e di autori che
languiscono nelle carceri austriache, come Silvio Pellico ("quanto
consola il vedere in Manzoni il cristiano senza pusillanimità, senza
servilità, senza transazioni co’ pregiudizi dell’ignoranza", scrive
dallo Spielberg nel 1829).
Gli anni compresi tra il 1827 e il 1840 sono dedicati a una attenta
revisione linguistica dell’opera. L’autore è da tempo interessato
alla questione della lingua , che in Italia è dibattuta sin dal XIII
secolo: se ne occupa Dante Alighieri (1265-1321) nel De vulgari
eloquentia, se ne occupano importanti trattatisti del Cinquecento.
Infatti gli Italiani, divisi politicamente, si sentono uniti nella
cultura e nell’Ottocento aspirano a una lingua letteraria che sia
nazionale. La tradizione addita nel fiorentino l’idioma più
raffinato della penisola.
Perciò il Manzoni, che vuole fare del suo romanzo un’opera italiana,
e non lombarda, mobilita la famiglia, per trasferirsi a Firenze
qualche tempo. Ha bisogno di "orecchiare" il toscano parlato dalle
classi colte, per frequenti e determinanti correzioni al linguaggio
della narrazione.
- L’edizione del 1840 e il linguaggio
Tredici persone, tra cui cinque domestici, stipate in due carrozze,
nel luglio 1827 intraprendono il viaggio per quella che il Manzoni
chiama una "risciacquatura in acqua d’Arno".
Nel capoluogo toscano Manzoni riceve un’accoglienza festosa, mentre
lo stesso granduca Leopoldo II lo convoca a corte.
Gli intellettuali che si raccolgono nel Gabinetto
scientifico-letterario di Giampiero Viesseux vedono nel Manzoni il
rappresentante più accreditato del Romanticismo nostrano.
Il suo romanzo non è l’unico nel panorama italiano, poiché negli
anni di pubblicazione dei Promessi Sposi sono dati alle stampe altri
romanzi storici, scritti sul modello delle opere di Walter Scott:
proprio a Firenze escono, di Francesco Domenico Guerrazzi
(1804-1873), La battaglia di Benevento, L’assedio di Firenze e
Beatrice Cenci. Ricordiamo anche Marco Visconti, di Tommaso Grossi
(1790-1853), Ettore Fieramosca, di Cesare D’Azeglio, Margherita
Pusterla di Cesare Cantù (1804-1895).
Eppure nessuno si sognerebbe di negare il primato ai Promessi Sposi.
A Firenze Alessandro Manzoni si lega d’amicizia con Giuseppe Giusti
e Gino Capponi, mentre conosce, senza trarne grande piacere, Giacomo
Leopardi (1798-1837) e Giambattista Niccolini (1782-1861). Conosce
anche una fiorentina "verace", Emilia Luti, che lo segue a Milano,
come istitutrice della nipotina Alessandra D’Azeglio, diventa la sua
più fedele collaboratrice nel faticoso lavoro di revisione
linguistica che porterà all’edizione del 1840. Quando uscirà
l’edizione illustrata dei Promessi Sposi, il Manzoni gliene regalerà
una copia con questa dedica: "Madamigella Emilia Luti gradisca
questi cenci da lei risciacquati in Arno, che Le offre, con
affettuosa riconoscenza, l’autore" (da Citati, Immagini di
Alessandro Manzoni, pag. 120).
Fermo restando che nella Quarantana rimane inalterata la trama e non
sono affatto modificati i personaggi, vediamo di mettere a punto in
che cosa consiste questa revisione linguistica.
Nel Fermo e Lucia il Manzoni ha usato una lingua derivata dalla sua
abitudine a scrivere in poesie e in parte anche tradotta dal
francese. Ne è derivato (sono parole sue!) un "composto indigesto di
frasi un po’ lombarde, un po’ toscane, un po’ francesi, un po’ anche
latine" cui, nella Ventisettana, viene sostituito il toscano
letterario, con l’aiuto del Vocabolario milanese-italiano di
Francesco Cherubini, il Dizionario francese-italiano e il
Vocabolario della Crusca, nell’edizione 1729-38. È un toscano
libresco che non soddisfa l’autore, il quale crede nel romanzo come
genere letterario che si orienta a un lettore dinamico, calato nella
sua epoca, operativo, incisivo nella società e non certo "topo di
biblioteca". Il viaggio a Firenze e la collaborazione della Luti
hanno proprio lo scopo di "insegnare" al Manzoni l’uso del
fiorentino "borghese", parlato dalle persone colte, con le sue
sfumature ironiche, la sua spigliatezza, la sua armonia e
musicalità. L’autore vuole superare il divario tra lingua parlata e
lingua scritta. Non è un capriccio, ma sente che è in gioco un
elemento importante circa il futuro del popolo italiano: "per nostra
sventura" aveva scritto anni prima al suo amico Fauriel (in una
lettera del 9 febbraio1806) "lo stato dell’Italia divisa in
frammenti, la pigrizia e l’ignoranza quasi generale hanno porto
tanta distanza tra la lingua parlata e la scritta che questa può
dirsi quasi morta". Si tratta di portare a dignità letteraria la
lingua d’uso.
Il suo obiettivo, si è detto, è di raggiungere un pubblico vasto, di
non elevata cultura ma sinceramente interessato. D’altra parte è
proprio per questo pubblico che ha scritto il romanzo, genere
letterario tenuto in scarsa considerazione dagli intellettuali
italiani che, prima dei Promessi Sposi, ancora lo ritengono proprio
di persone poco acculturate.
L’opera del Manzoni mostra l’assurdità di questo pregiudizio, ma
l’autore deve compiere il grosso sforzo di aprire una strada, anche
sul piano del linguaggio, poiché deve inventarlo.
Dopo tredici anni di rimaneggiamenti, finalmente l’editore Redaelli
di Milano può far uscire I Promessi Sposi a dispense, nella sua
redazione definitiva. La pubblicazione si conclude nel 1842,
riscuotendo un grande successo grazie, ovviamente, anche alla forma
linguistica, in cui Manzoni riesce a superare la discrepanza tra
lingua scritta e lingua parlata e appronta lo strumento espressivo
tanto atteso dai Romantici per una letteratura nazional-popolare.
Non di rado l’autore dialoga con il pubblico, chiamandolo "i miei
venticinque lettori" o interrogandolo giovialmente su qualche
problema, presentato in modo ironico. È un modo di costruire un
rapporto immediato, che contribuisce a sottolineare l’intento
educativo del romanzo, finalmente riconosciuto nella sua dignità di
genere letterario a tutti gli effetti.
I critici sottolineano la vivacità dei dialoghi, la pluralità dei
registri, che passano dal tono amichevole e colloquiale a quello
solenne e persino oratorio (per esempio del cardinal Borromeo).
Manzoni sa introdurre una garbata ironia laddove la tensione emotiva
si fa troppo opprimente, ma sa anche assumere la severità dello
storico che riferisce avvenimenti con l’indicazione delle fonti. Non
meno importante è la capacità mimetica dell’autore che sa mettere in
bocca ai personaggi esattamente le parole e il tono giusto, quasi
suggerendo al lettore anche l’intuizione del gesto che lo
accompagna. Quando il conte, zio di don Rodrigo, un "pezzo grosso"
del Consiglio segreto, accoglie nel suo studio il padre provinciale,
responsabile dei cappuccini del ducato, per decidere la sorte di
padre Cristoforo, il Manzoni dice che "il magnifico signore fece
sedere il padre molto reverendo" (cap. XVIII) e l’ampollosità della
frase sottolinea la cerimoniosità dei due interlocutori.
Quando don Ferrante, nobile e ricco intellettuale milanese che
ospita Lucia, viene presentato al lettore, l’autore sottolinea,
circa i rapporti con la moglie impicciona : "Che, in tutte le cose,
la signora moglie fosse la padrona, alla buon’ora; ma lui servo, no"
(cap. XXVII), sottolineando, con la vivacità della negazione, la
dimensione patetica in cui si inserisce il personaggio.
E così, tanto per sottolineare un toscanismo, è da notare questa
espressione: alla domanda di Lucia se rivelerà a padre Cristoforo il
progetto di forzare don Abbondio con il matrimonio "a sorpresa", "-
Le zucche! -" (cap. VII), risponde Renzo, frase che equivale a un
"Fossi matto!", ma ha sicuramente un’incisività, una pregnanza e
un’arguzia molto maggiori.
La lingua manzoniana sa adattarsi alla psicologia dei personaggi: sa
farsi allusiva laddove due "politiconi" organizzano una piccola
congiura; sa diventare appassionata ma non priva di humour quando
narra le peripezie di Renzo in fuga; sa assumere il tono severo di
chi, senza giudicare, non condivide scelte educative improntate
all’orgoglio e all’egoismo; sa rispettare talune caratteristiche del
personaggio, come la reticenza di Lucia a corrispondere verbalmente
al fidanzato; sa evocare l’allucinazione dell’incubo, nel sogno di
don Rodrigo appestato, sa trasmettere il sollievo di chi ha
finalmente ritrovato chi cercava; sa riportare con lucidità cronache
del passato; sa descrivere, con pochi tratti sobri e aggettivi
"mirati", paesaggi che sono lo specchio dello stato d’animo dei
personaggi.
È necessario sottolineare l’importante scelta artistica che sta alla
base di questa "nuova" lingua manzoniana. Prima dei Promessi Sposi
il linguaggio veniva modulato secondo l’imitazione dei classici,
sulla base della loro autorità. Il romanzo, invece, propone nella
redazione definitiva una lingua viva che ha, però, dignità
letteraria. Il criterio che il Manzoni segue per coniare questa
lingua è quello, per usare le sue parole, dello "scrivere come il
parlare", per la realizzazione di una prosa duttile, comunicativa,
attuale e... italiana. Sì, perché nelle intenzioni più riposte del
"patriota" Manzoni c’è anche questa esigenza, che costituisce un
significativo contributo nel processo di unificazione nazionale. Se
con la "Ventisettana" lo scrittore presenta un romanzo indirizzato
al pubblico milanese, con la "Quarantana" realizza l’ambizioso
progetto di parlare a un pubblico italiano.
- La struttura
Potremmo definire "a cannocchiale" la struttura dei Promessi Sposi,
per l’ampliamento della prospettive che, dai primi capitoli chiusi
nell’ambito ristretto del paese dei protagonisti, coinvolge spazi
sempre più ampi e fatti storici di portata europea.
I primi otto capitoli (I-VIII) costituiscono la sezione borghigiana,
perché luogo dell’azione è il borgo dove vivono Renzo e Lucia. Qui
la storia prende inizio con la mancata celebrazione delle nozze, qui
risiedono i personaggi d’invenzione, che sono presenti per tutto lo
svolgimento della storia: i promessi sposi, la madre della ragazza,
Agnese, il parroco del paese, don Abbondio e, naturalmente, il
persecutore don Rodrigo, che vive in un palazzotto poco distante.
Cronologicamente la sezione borghigiana presenta una narrazione
molto lenta e un numero assai elevato di fatti, concentrati in
quattro giorni, dal 7 al 10 novembre 1628.
La seconda sezione e la terza sezione del romanzo comprendono
rispettivamente i capitoli IX-XVII e XVIII-XXVI. Le storie dei
fidanzati divergono: Lucia viene a contatto con i personaggi
"storici" (la monaca di Monza, l’innominato, il cardinal Borromeo,
dopo la sua liberazione). La ragazza svolge, del tutto
inconsapevolmente, il ruolo di strumento della Provvidenza, perché
ha una parte significativa nella conversione dell’innominato. Le
scene che la vedono protagonista si svolgono in spazi chiusi (il
convento, il castello, la casa del sarto dove viene ospitata dopo la
liberazione). Il tempo in cui vive le sue avventure è decisamente
indeterminato.
Renzo, invece, si muove in spazi aperti: Milano, la campagna
lombarda, l’Adda, il territorio di Bergamo. Egli rimane coinvolto
nei tumulti contro il carovita nel capoluogo lombardo, dove,
nell’arco di due giorni (11 e 12 novembre) partecipa alla rivolta,
si ubriaca, litiga con un ospite, si fa credere un rivoltoso, cade
nella trappola di una spia, si fa arrestare, ma riesce a scappare.
Il 13 novembre eccolo libero in territorio bergamasco, alla volta
del cugino Bortolo, presso cui si ferma una quantità di tempo non
specificata.
La quarta e quinta sezione sono costituite rispettivamente dai
capitoli XXVII-XXXII e XXXIII-XXXVIII. Vi sono descritte, seguendo
le cronache del tempo, senza risparmiare dettagli e particolari, la
carestia nel Milanese, la guerra per il possesso di Mantova
(episodio "italiano" della guerra dei trent’anni che insanguina
l’Europa) e la peste che i soldati imperiali (i famigerati
lanzichenecchi) diffondono nel ducato e nelle zone circostanti.
Renzo guarisce dalla malattia e torna a Milano in cerca di Lucia.
Dopo che l’ha trovata , si reca al paese. I loro destini si
ricongiungono e finalmente ecco celebrate le nozze. I personaggi
essenziali alla storia ci sono tutti: i fidanzati, in primo luogo,
la madre Agnese e poi don Abbondio.
Il respiro narrativo si fa ampio e compare anche una lunga ellissi
(infatti non viene raccontato nulla di ciò che accade ai nostri eroi
nell’anno 1629) che fa scorrere velocemente il racconto. Però le
parti in cui vengono illustrate le cause dei tre flagelli sono molto
dense e asciutte, veri resoconti storiografici che appesantiscono il
ritmo e hanno indotto il critico e filosofo Benedetto Croce
(1866-1952) a considerarle pagine assolutamente prive di poesia, se
non addirittura superflue (il critico Benedetto Croce, nel saggio
Alessandro Manzoni. Saggi e discussioni, Bari, Laterza, 1952, nega
decisamente il carattere poetico del romanzo, sostenendo che troppo
rigido e intransigente è il moralismo manzoniano, mentre lo stile
indulge all’oratoria e le parti storiche risultano pesanti).
Potremmo aggiungere che la struttura a cannocchiale implica anche
una struttura "ad anello", poiché la storia parte dal borgo, si
snoda lungo una serie di direttrici spaziali che coinvolgono
l’intero ducato di Milano, ma ritorna al borgo‚ dove le nozze
vengono finalmente celebrate, con due anni di ritardo sul programma
iniziale.
Proviamo a visualizzare il percorso:
nozze mancate al BORGO Renzo: Milano e poi Bergamo Guerra - Carestia
- Peste ritorno al BORGO
I-VIII IX-XVII XVIII-XXXVI XXXVII-XXXVIII
Lucia a Monza Lucia al castello dell’innominato Lucia a Milano e al
lazzaretto nozze al BORGO
Come si può notare l’intreccio‚ (ossia la disposizione degli
avvenimenti scelta dall’autore) è piuttosto complesso, perché tiene
conto della necessità di elaborare flash-back che illustrino al
lettore alcuni antefatti. Perciò non sempre coincide con la naturale
sequenza dei fatti, che si chiama fabula. Lo vediamo, ad esempio,
nei punti in cui l’autore racconta la vita di alcuni personaggi. Nel
IV capitolo viene illustrata la giovinezza di padre Cristoforo e un
tragico episodio, fondamentali per comprenderne il carattere e le
scelte importanti che stanno alla base del suo atteggiamento in
difesa degli umili. Allo stesso modo due capitoli (il X e l’XI)
raccontano la lunga serie di maneggi che riescono a costringere
Gertrude alla clausura nel convento di Monza; la storia
dell’innominato viene sintetizzata (cap. XIX) per meglio illustrare
la portata della sua "conversione", mentre la vita del cardinal
Borromeo viene proposta (cap. XXII) quasi come il modello di
comportamento cristiano. Si aggiungono le digressioni circa le
condizioni del Milanese nel Seicento, la situazione sociale, le
classi e il sistema di governo. Ancora la narrazione viene
interrotta per spiegare la causa dei tumulti per il caro-pane, la
causa della calata dei lanzichenecchi, il diffondersi della peste
tra l’ignoranza, l’incompetenza e la superstizione sia della
popolazione che degli addetti alla tutela della salute pubblica.
Nei confronti della vicenda l’autore si propone come narratore
onnisciente, ossia al di sopra della storia, già al corrente di
"come andrà a finire" e quindi in grado di formulare giudizi,
sdrammatizzare con toni pacati, intervenire ironizzando sulle
reazioni emotive dei personaggi. La sua è una focalizzazione zero,
in quanto, essendo al di fuori degli avvenimenti, e osservandoli
criticamente, come un regista che dirige l’allestimento di una
scena, non assume il punto di vista di alcun personaggio, ma valuta
con imparzialità.
Talvolta l’autore interviene direttamente, apostrofando il pubblico:
"Pensino ora i miei venticinque lettori..." (cap. I) oppure
esprimendo un chiaro giudizio morale: "Il principe (non ci regge il
cuore di dargli in questo momento il titolo di padre)..." (cap. X);
o ancora come quando introduce l’ironia (che corrisponde a un
giudizio, pur sfumato e temperato) per sottolineare la denuncia di
Agnese all’arcivescovo delle scuse addotte da don Abbondio per
rimandare le nozze: "non lasciò fuori il pretesto de’ superiori che
lui aveva messo in campo (ah, Agnese!)" ( cap. XXIV).
Quella dell’autore però, non è l’unica voce narrante del romanzo:
non dimentichiamo la finzione del manoscritto. Infatti Manzoni
immagina di trascrivere un libro elaborato da un Anonimo e,
all’occasione, si trincera dietro le responsabilità di quello.
Per esempio, quando non vuole rivelare il nome dell’innominato (che,
in tal modo, risulta più misterioso e suggestivo), dice, riferendosi
anche alla località in cui sorge il castello: "Tale è la descrizione
che l’anonimo fa del luogo: del nome, nulla; anzi, per non metterci
sulla strada di scoprirlo, non dice niente del viaggio di don
Rodrigo...". Infatti il signorotto sta recandosi dall’innominato per
chiedergli di rapire Lucia dal convento di Monza.
Capita, però, che l’autore si cali nei personaggi, assumendone il
punto di vista: non è la posizione prevalente, ma ogni tanto succede
che il narratore adotti una focalizzazione interna. Lo notiamo nei
monologhi di Renzo in fuga: "Io fare il diavolo! Io ammazzare tutti
i signori! Un fascio di lettere , io!..." (cap. XVII).
- Il sistema dei personaggi
I rapporti fra i personaggi si uniformano a quello che è lo schema
consolidato nel romanzo storico e nel romanzo d’avventura: accanto
all’eroe (Renzo) compare l’antagonista (don Rodrigo) e l’oggetto del
desiderio (Lucia) che li contrappone. Ecco, poi, una folta schiera
di sostenitori, dell’una o dell’altra parte, i "buoni" e i
"cattivi". Tuttavia, il discorso si complica perché la notevole
capacità di penetrazione psicologica del Manzoni impedisce ai
personaggi di assumere connotazioni nette, definite, unilaterali:
nessuno (salvo, forse, don Rodrigo e il suo luogotenente, il bravo
Griso) è "completamente cattivo", mentre nemmeno un sant’uomo come
il cardinal Federigo risulta perfetto: anche lui, infatti, ha
qualche difettuccio e commette errori. Così troviamo dei "cattivi"
che si trasformano, come l’innominato che assume, agli occhi della
popolazione, l’aspetto d’un santo energico, grande nel bene come lo
è stato nel male.
Analogamente la condotta di eroi positivi come Renzo non va immune
da errori e da ambiguità (si ubriaca, parla a vànvera...), mentre
nel passato di un campione della carità e del perdono come padre
Cristoforo campeggia... un omicidio.
Inoltre non è semplice stabilire "da che parte stanno" alcuni
aiutanti, perché la loro personalità si evolve nel corso della
storia. Tornando all’innominato, notiamo che inizialmente è aiutante
di don Rodrigo (rapisce Lucia per lui!), ma poi, ravvedutosi, non
vede l’ora di liberare la ragazza!
E la monaca di Monza? Comincia schierandosi a difesa della sicurezza
di Lucia e poi, per cause di forza maggiore, si fa complice del suo
rapimento! Quanto a don Abbondio, nonostante i suoi sforzi di essere
neutrale, di fatto sostiene gli squallidi propositi di don Rodrigo.
Osserva questo schema:
EROE: Renzo ANTAGONISTA: don Rodrigo OGGETTO DEL DESIDERIO: Lucia
Aiutanti dell’Eroe:
Padre Cristoforo, Agnese, Perpetua, Bortolo, don Ferrante, donna
Prassede, il sarto e sua moglie, Federigo Borromeo, l’innominato,
ecc. Aiutanti dell’Antagonista:
Griso, conte Attilio, Nibbio, l’innominato, conte zio, monaca di
Monza , ecc.
Potremmo comunque raggruppare i personaggi secondo le schema
vittima-oppressore, anche questo molto usato nel romanzo del
Settecento e dell’Ottocento: le azioni sono collegate secondo la
logica che regge tutto l’intreccio dei Promessi Sposi: Renzo e Lucia
sono le vittime, mentre Don Rodrigo l’oppressore. I suoi "alleati"
(innominato, cugino Attilio, conte zio) con i bravi e tutti i
"parassiti" (Azzecca-garbugli, podestà di Lecco) che siedono alla
sua tavola, sono gli aiutanti dell’oppressore.
Invece figure come padre Cristoforo, il cardinal Borromeo, Agnese e
persino l’energica Perpetua, governante di don Abbondio, o gli amici
al paese, come Tonio e il fratello "tocco" Gervaso, possono
annoverarsi fra gli aiutanti delle vittime. Renzo e Lucia, infine,
hanno anche dalla loro alcuni personaggi che li ospitano, danno
protezione, lavoro, sicurezza, come il cugino Bortolo che abita a
Bergamo e la coppia di nobili milanesi (don Ferrante e donna
Prassede, anche se molto a modo loro) che accoglie Lucia dopo la sua
liberazione.
Possiamo visualizzare quanto si è detto in questo schema:
VITTIME: Renzo,
Lucia OPPRESSORI:
Don Rodrigo,
Innominato
AIUTANTI OPPRESSORI:
Griso, Nibbio,
Don Abbondio, Monaca di Monza
AIUTANTI VITTIME: Padre Cristoforo,
Tonio e Gervaso,
Cardinal Borromeo,
Agnese
OSPITI DELLE VITTIME:
Bortolo,
Don Ferrante,
Donna Prassede
I personaggi, poi, possono essere ulteriormente suddivisi in due
categorie: statici e dinamici, da intendere non solo nel senso che
nel corso della storia non mutano e restano fedeli a se stessi nel
corso del tempo, ma anche della staticità o dinamicità rispetto allo
spazio, se cioè restano fermi in un determinato luogo o sono portati
dalle vicende a decidere autonomamente di spostarsi (in questo senso
Lucia è statica perché "viene spostata" contro la sua volontà e
diviene dinamica solo alla fine quando decide insieme al marito di
abbandonare il paesello per andare a Bergamo, ma anche qui con una
buona dose di staticità, perché in fondo segue il marito).
Sono personaggi statici‚ (o piatti) quelli che non modificano la
propria personalità nel corso della narrazione, come don Abbondio,
definito "eroe della paura" e considerato da Luigi Pirandello (in
Saggi, Milano, Mondadori, 1939, pp. 153 e segg.) veramente
"umoristico". Egli, infatti, proprio perché si comporta in una
maniera diversa da come si dovrebbe comportare un normale parroco,
non solamente diverte il lettore, che sorride alle sue eccessive
paure, alla sua pavidità di coniglio, al suo egocentrismo, alle sue
ansie per la propria tranquillità, alle meschinità messe in atto per
non compiere scomodi doveri, ma anche riflette sulle proprie
piccinerie: in fondo don Abbondio è il personaggio nel quale meglio
si riflettono i difetti degli uomini e, soprattutto, le paure e gli
egoismi dei mediocri.
Lucia è un altro personaggio che rimane fedele a se stessa. Il
Manzoni ne fa, riguardo a talune vicende, una specie di strumento
della Provvidenza Divina. La sua presenza al castello
dell’innominato, alcune parole che dice impulsivamente, circa il
perdono di Dio, che viene concesso anche solo per un’opera di
misericordia, hanno un effetto dirompente sul truce signore, in
crisi di identità e, ancora inconsciamente, desideroso di mutar
vita, stanco di commettere violenze contro innocenti. Lucia, con la
sua umiltà, sembra veicolo della luce della Grazia Divina, ma non
tutti i personaggi sanno accoglierla. Anche la monaca di Monza,
infatti, si affeziona alla ragazza e si consola al pensiero di
poterle fare del bene, lei che conduce, benché religiosa,
un’esistenza colpevole. Tuttavia non ha il coraggio di andare fino
in fondo nel suo sforzo di rinnovamento e, a differenza
dell’innominato, non riesce a far tesoro del buon influsso che emana
la presenza della fanciulla.
Anche don Rodrigo è un personaggio statico: lo troviamo sempre nel
suo palazzotto, dal quale dirige le operazioni per far capitolare
Lucia; a un certo punto, vista la sua impotenza, è costretto a
spostarsi nel castellaccio dell’innominato per chiedere aiuto, e
alla fine viene letteralmente trascinato al lazzaretto, dove finisce
la sua miserabile esistenza: in questo senso lo possiamo definire
come il simbolo dell’eterna staticità del male nella sua essenza.
Ai personaggi statici (o piatti), si contrappongono i personaggi a
tutto tondo‚ (o dinamici), ossia quelli che si evolvono e cambiano
nel corso della narrazione, come l’innominato oppure Renzo. Il
dinamismo di Renzo non riguarda soltanto la sua trasformazione da
giovane ingenuo in accorto imprenditore, attraverso le numerose
peripezie a Milano, durante i tumulti e poi all’epoca della peste.
Renzo è dinamico anche perché le circostanze lo portano a
percorrere, a piedi, chilometri e chilometri.
Attraverso la sua persona, l’azione narrativa stessa acquista
dinamismo e si sposta da un luogo all’altro del Milanese: è
legittimo definire una vera odissea, quella del giovane che,
convinto di lasciare il paesino per trovare ospitalità a Milano per
qualche tempo, si trova al centro di fatti più grandi di lui.
Inseguito dagli sbirri, che lo credono una spia responsabile dei
tumulti, fugge in direzione di Bergamo. Non è un percorso facile, il
suo! Ricercato dalla polizia, deve "dribblare" astutamente la
curiosità di osti e avventori nelle taverne dove si ferma a
riposare, deve trovare un riparo per la notte e guadare l’Adda. Poi,
quando l’anno successivo torna al paese in cerca di Lucia, viene a
sapere che si trova a Milano, ospite di una nobile famiglia. Eccolo
ancora nel capoluogo lombardo, scambiato prima per un untore e poi
per un monatto, e in questa veste raggiunge Lucia che è ricoverata
al lazzaretto: anche in questo luogo di dolore non mancano
avventure. Ritrovata la fidanzata, comincia un andirivieni tra il
paese, Bergamo (dove torna per allestire la casa) e Pasturo, dove
Agnese si è rifugiata per evitare il contagio.
Quanto camminare! Ma non è soltanto un espediente per dare movimento
all’azione. I viaggi di Renzo hanno un significato più profondo,
perché questo personaggio è davvero una guida‚ per il lettore. In
sua compagnia subisce l’ingiustizia di don Rodrigo e del dottor
Azzecca-garbugli, si cala nei tumulti di Milano e vi partecipa come
testimone oculare, con lui si commuove e inorridisce di fronte alla
condizione degli appestati, e gioisce della forza della pioggia
purificatrice, come se vivesse in prima persona gli avvenimenti,
osservando i fatti attraverso gli occhi del giovane. Lo notiamo da
molte osservazioni di Renzo: "Spiccava tra questi, ed era lui stesso
uno spettacolo, un vecchio mal vissuto, che, spalancando due occhi
affossati e infocati, contraendo le grinze a un sogghigno di
compiacenza diabolica... agitava in aria un martello, una corda,
quattro gran chiodi, con che diceva di voler attaccare il vicario a
un battente della sua porta, ammazzato che fosse" (cap. XIII). La
rappresentazione non è soltanto viva e interessante, ma trasmette
anche l’indignazione del giovane, che emerge dal giudizio contenuto
nelle espressioni "mal vissuto" e "compiacenza diabolica". Inoltre
la commozione del giovane, di fronte alle sofferenze dei malati,
contagia il lettore e gli fornisce le coordinate per "muoversi"
anch’egli, in quella tragedia, con un preciso stato d’animo.
Un’ultima osservazione circa i personaggi storici. Sono figure
fortemente suggestive: l’innominato è modulato sull’immagine di
Bernardino Visconti, feudatario di Ghiara d’Adda, di cui parlano le
cronache milanesi del Seicento. Si sa che, per merito di Federigo
Borromeo, cambiò vita e, dopo aver congedato i suoi bravi, visse
onestamente gli ultimi anni della sua esistenza.
La monaca di Monza era Marianna De Leyva, figlia di don Martino,
costretta alla monacazione con il nome di suor Virginia. Anch’ella
si pentì, come narrano gli storici e, dopo aver subito un processo a
causa delle sue malefatte (tresche amorose e un omicidio), venne
murata viva e morì in odore di santità. Questi due personaggi sono
"rivisitati" liricamente dal Manzoni. Ciò che di loro tramandano le
cronache viene illuminato poeticamente e viene messo in luce quanto
la storia non può dire: le segrete speranze, i timori, le pressioni
psicologiche, il disagio esistenziale, il bisogno di amore, di
bontà, di chiarezza nella vita, di dialogo aperto con i propri
simili, lo sforzo di non lasciarsi sopraffare dalla prepotenza
altrui.
Anche il gran cancelliere Antonio Ferrer, protagonista di una delle
più vivaci sequenze durante i tumulti di Milano, viene presentato
con le sue caratteristiche storiche ma anche nelle sue connotazioni
psicologiche. Operando con la fantasia l’autore immagina il suo
atteggiamento umile e cortese di fronte alla folla in rivolta e gli
pone in bocca frasi in due lingue: in spagnolo dice ciò che pensa
veramente, in italiano pronuncia frasi di circostanza per ammansire
i Milanesi inferociti: "è vero, è un birbante, uno scellerato" dice
alla gente, ma subito, chinato sul vicario di provvisione che sta
portando in salvo, mormora in spagnolo: "Perdone, usted" (cap.
XIII).
Le cronache non riportano questo particolare che colora di tinte
fortemente ironiche tutta la vicenda: l’autore ha fatto appello alla
sua immaginazione, a quella che chiama invenzione e che serve a
compenetrare il vero storico per dare ai personaggi l’umanità che
non rimane impressa nelle pagine delle fonti.
Il critico ottocentesco Francesco De Sanctis (1817-1883), in
particolare nel saggio I Promessi Sposi, pubblicato nella rivista
Nuova Antologia dell’ottobre 1873, ha notato un particolare curioso:
il protagonista del romanzo è tutto il secolo, il Seicento‚
illustrato nel suo carattere di epoca piena di contraddizione, dove
i nobili ostentano sfarzo, ma anche sudiciume, dove i sentimenti più
umani e profondi cedono all’orgoglio, dove possono avvenire le più
incredibili prevaricazioni, nonostante le leggi parlino chiaro, dove
un giovane onesto che vuole difendere un suo diritto, viene cacciato
dall’avvocato abituato a difendere soltanto malfattori (questo
accade a Renzo in visita all’avvocato Azzecca-garbugli nel capitolo
III). Il Seicento viene "illustrato" attraverso alcune descrizioni
che hanno il fascino delle stampe d’epoca. Manzoni è maestro nel
ritrarre gli usi dei nobili, riuniti per assistere a una cerimonia e
intanto sfoggiare i loro abiti sontuosi, le scene di duello per le
strade, i banchetti e le conversazioni, i discorsi dove non si dice
ma si sottintende un accordo che, per allusioni, viene siglato (lo
puoi notare nel capitolo XVIII, dove si narra l’incontro fra il
conte zio e il padre provinciale).
La riflessione sul Seicento, però, non è solamente dettata
dall’interesse di Manzoni per la storia. Manzoni vuole aiutare i
suoi contemporanei a prendere coscienza degli squilibri
politico-sociali, delle gigantesche ingiustizie e dell’inefficienza
burocratico-amministrativa che ha frenato in passato, ma frena anche
al presente, il processo di crescita economica della Lombardia
insieme all’unificazione nazionale degli stati italiani. È un invito
agli intellettuali del primo Ottocento a riflettere sulla necessità
di un ricambio di classe al potere: la borghesia sembra la più
idonea a superare la crisi, a promuovere una nuova realtà, nella
quale i diritti civili siano rispettati e le energie popolari
possano proficuamente esplicarsi, senza soprusi, violenze, privilegi
mortificanti, intrallazzi.
- Il paesaggio
L’uso del paesaggio nei Promessi Sposi è un elemento tecnico molto
importante che porta alla soluzione di un problema fondamentale:
come far capire al lettore in profondità l’anima dei personaggi
dando nel contempo una collocazione spaziale in campo aperto alla
vicenda (il campo aperto si contrappone al campo chiuso
rappresentato da una casa o addirittura una stanza), ed è descritto
sempre con molta sobrietà. Rappresenta spesso il commento alle
vicende e lo specchio dello stato d’animo dei personaggi. La celebre
descrizione di Quel ramo del lago di Como offre al lettore le
coordinate spaziali della vicenda e la inquadra in un alone di
poesia. I segni della carestia, che ha aggredito anche gli abitanti
delle campagne, sono evidenziati all’inizio del capitolo IV con la
rappresentazione dei contadini che seminano con parsimonia e
preoccupazione, con la ragazzetta che conduce una mucca magra e le
sottrae erbe commestibili, da portare alla famiglia.
L’Addio ai monti, a conclusione del capitolo VIII sottolinea la
struggente nostalgia di Lucia che si allontana da luoghi cari,
prendendone congedo con strazio, mentre il cielo luminoso, che
accoglie Renzo dopo aver guadato l’Adda all’alba e aver conquistato
la libertà (cap. XVII), sembra la promessa di un futuro sereno. La
valle cupa e le montagne brulle su cui incombe il castello
dell’innominato sono un’introduzione alla comprensione della sua
violenza, mentre il cielo che lo sovrasta pare fungere da
interlocutore, quasi da coscienza per il tiranno (cap. XX). E quando
egli, dopo la notte drammatica in cui le parole di Lucia gli hanno
suggerito una possibile soluzione al disagio della sua vita, si
affaccia alla finestra, vede la valle chiara allietata dallo
scampanio e il cielo grigiastro percorso da nuvole leggere: paiono
simboleggiare il suo passato che si va sfaldando, per lasciar spazio
alla luce della Provvidenza Divina (cap. XX).
Molte sono le indicazioni di paesaggio che sembrano configurare
aspetti della vita degli uomini. Quando Renzo torna al suo paese,
devastato dalla peste e dalla calata dei lanzichenecchi, trova la
sua vigna distrutta e infestata dalle erbacce: segno tangibile del
disordine morale dei tempi (cap. XXXIII). Invece il paesaggio greve,
oppresso dall’afa nella Milano distrutta dalla peste e l’acquazzone
gioioso che toglie il contagio (cap. XXXVI), non soltanto
sottolineano un’atmosfera, ma traducono in termini concreti un
diffuso stato d’animo: al languore e alla spossatezza della
disperazione si sostituisce una gioiosa speranza, quasi un senso di
purificazione e di rinnovamento.
In alcuni casi, più che di paesaggio si può parlare di
ambientazione. Lo notiamo nelle scene di villaggio, nella
descrizione dell’interno delle case, in quel "brulichio" che riempie
le strade al crepuscolo e dà la misura della vita, la sera in cui
Renzo organizza il matrimonio a sorpresa (cap. VII). Anche il
palazzotto di don Rodrigo, cui si arriva per una stradetta che
attraversa il villaggio dei bravi, pare visualizzare il male come
frutto di mediocrità, egoismo, opacità intellettuale, piattezza
morale e staticità spirituale. A guardia della massiccia costruzione
stanno due bravi e due carcasse di corvi, mentre le finestre
sbarrate, l’urlo dei mastini all’interno e il vociare dei convitati
al banchetto del padrone non sono meno volgari dell’aspetto degli
abitanti del villaggio: "... omacci tarchiati e arcigni... vecchi
che, perdute le zanne, parevan sempre pronti... a digrignar le
gengive; donne con certe facce maschie, e con certe braccia
nerborute..." (cap. V). Non è propriamente una descrizione di
paesaggio, ma rimanda a un ambiente con una precisa connotazione
spirituale e, dunque, è coerente col modo in cui il Manzoni intende
il paesaggio, come riflesso e elemento per capire le alterne vicende
umane.
- Le tematiche della visione religiosa della vita
Numerose sono le tematiche del romanzo: spicca, in primo piano, il
tema del rapporto fra libertà e condizionamento, in cui si innestano
i motivi dell’amore, della prevaricazione, della paura, che
concorrono a sviluppare quello unificante del matrimonio mancato. La
libertà è il valore su cui si incardina la morale cristiana, ma
viene cancellata da disvalori, primo fra tutti il conformismo (come
quello di don Abbondio e di Gertrude, per i quali si parla
giustamente di "cadute senza riscatto", e soprattutto di donna
Prassede, alla quale Manzoni riserva alla fine una stoccata cattiva:
"Di donna Prassede, detto che è morta, è detto tutto").
Importante è anche il tema del contrasto fra ideale e reale, ossia
fra come dovrebbe essere la società e come, invece, di fatto è.
Ecco, allora, comparire i motivi del privilegio che tocca solo a una
piccola categoria di persone, dell’ingiustizia che colpisce tutti
coloro che patiscono l’oppressione dei privilegi altrui, della
violenza nell’ambito sociale, politico e anche familiare, della
mancanza di moralità che nasce dal mancato rispetto delle più
elementari norme evangeliche.
A questo punto il pessimismo di Manzoni, insieme a un certo senso
latente e sommesso di condanna si allenta nel tono bonario
dell’ironia, soprattutto nei punti in cui smaschera le piccole
astuzie degli umili (che non sortiscono effetto, come il matrimonio
a sorpresa) oppure si colora di amarezza quando denuncia le
ipocrisie dei politici come il conte zio o Ferrer e diviene denuncia
aspra quando constata come anche i valori più sacri, quali la
paternità, siano inquinati dall’orgoglio, che porta alla menzogna,
alla coercizione (si pensi al padre di Gertrude), allo
stravolgimento dei valori della famiglia e della società.
Il tema più significativo, però, quello su cui poggia il messaggio
manzoniano, si riferisce alla visione religiosa della vita, in cui
domina il leit-motiv del romanzo, ossia l’opera della Provvidenza di
Dio nella storia e nelle umane vicende.
Il pessimismo manzoniano emerge nella constatazione della presenza
del male, dell’irrazionalità dell’agire umano, della forza
dirompente degli egoismi in contrasto. Pure la Grazia di Dio non
abbandona gli uomini che lo cercano e confidano in Lui. Per chi ha
fede nella Provvidenza il succedersi dei fatti acquista un senso,
una logica. Naturalmente Dio non è colui che punisce i malvagi e
premia i buoni, come un giustiziere. Il Suo giudizio e la Sua opera
riescono per la maggior parte delle volte insondabili agli uomini
che devono accettare i fatti con umiltà e fiducia.
Sbaglia don Abbondio quando, esultante, definisce la Provvidenza
come una "scopa" (cap. XXXVIII) che finalmente ha fatto piazza
pulita di don Rodrigo e dei suoi scagnozzi. È più corretta la
riflessione di padre Cristoforo che, di fronte a don Rodrigo
agonizzante e sofferente al lazzaretto, afferma: "Può essere gastigo,
può essere misericordia" (cap. XXXV). La peste, infatti, non deve
essere semplicisticamente ridotta a una punizione dei malvagi e la
morte di don Rodrigo, tra gli spasimi della malattia, può essere
intesa come l’ultima possibilità offerta a lui dalla Misericordia
divina perché si ravveda e salvi la sua anima.
In questo senso, anche se termina con la celebrazione delle nozze,
il romanzo di Manzoni non presenta l’idilliaco "lieto fine" dei
romanzi storici tradizionali. Infatti, a ben vedere, la conclusione
della storia si pone al capitolo XXXVI, quando padre Cristoforo
scioglie Lucia dal voto che ha fatto la notte trascorsa nel castello
dell’innominato, secondo il quale rinuncia alle nozze. In tal modo
la ragazza può seguire la voce del cuore e anche Renzo vede
finalmente rimosso l’ultimo ostacolo. I due si congedano da padre
Cristoforo, commossi dalle sue ultime parole, che suonano alle loro
orecchie come un testamento spirituale e che invitano a perdonare
"sempre, sempre! tutto, tutto!".
Gli ultimi due capitoli, con i preparativi del matrimonio, la
celebrazione e la sintetica narrazione degli anni di vita coniugale,
sono un completamento della storia: il momento essenziale, invece, è
rappresentato dal ritrovarsi dei due giovani con sentimenti immutati
e una capacità rafforzata di accettare la volontà di Dio nella loro
vita.
Il "lieto fine" dei Promessi Sposi, semmai, non consiste nel rito
delle nozze, ma in quella sorta del "decalogo" con cui Renzo, ormai
marito, padre e imprenditore di successo (ha impiantato, come
abbiamo detto, un redditizio filatoio a Bergamo) attua un bilancio
di quei due anni travagliati e avventurosi. Constata che si è fatto
una dura esperienza di vita che lo mette in grado di dare buoni
consigli ai figli, quando cresceranno. Invece Lucia osserva che, per
quanto la riguarda, non si è mai messa nei guai, ma "son loro che
son venuti a cercar me".
Allora, insieme, gli sposi giungono alla conclusione che, di fronte
alle tribolazioni, bisogna confidare in Dio e sperare che le
sofferenze migliorino la vita. È un finale senza idillio, come
osservano i critici, ma coerente con la tensione religiosa che
percorre tutta la narrazione.
Il tema religioso, insieme con la scelta di porre gli umili ("genti
meccaniche e di piccolo affare", li definisce l’Anonimo) a
protagonisti della storia, rappresenta sicuramente l’elemento di
grande novità del romanzo. Non solo balzano alla ribalta due
contadini, ma anche le figure importanti (un arcivescovo, un potente
feudatario, politici ed esponenti delle gerarchie ecclesiastiche, un
avvocato, un podestà, un nobilotto con parenti importanti) sono
valutati sulla base della posizione che assumono nei confronti di
quelli. Infine flagelli e pubbliche calamità (come peste, rivolte,
guerra e carestia), assumono rilievo perché creano il contesto in
cui si pongono le avventure dei protagonisti. È una scelta
rivoluzionaria e un coraggioso rovesciamento di valori letterari,
che il Manzoni attua, convinto e sorretto dal messaggio evangelico.
Questo, d’altra parte, appare diluito tra le pagine come il tessuto
connettivo della narrazione; affiora spesso ma con discrezione e a
volte si incarna in personaggi "minori" di notevole interesse.
Valga, tra tutti, quella modesta ma splendida figura che è il
servitore di don Rodrigo: compare nel V capitolo ad accogliere padre
Cristoforo in visita al palazzotto di don Rodrigo. L’aiuto che egli
dà al frate è fondamentale anche per lo svolgimento della storia,
perché lo informa del progetto di rapire Lucia, in seguito al quale
il cappuccino organizza la fuga dei giovani dal paese e innesca il
meccanismo che dà luogo alle vicende della seconda sezione. Non a
caso padre Cristoforo lo definisce "un filo" della Provvidenza.
- La fortuna letteraria del Manzoni
La fortuna del Manzoni nelle pagine di critica letteraria comincia
già all’epoca della sua giovinezza, quando Vincenzo Monti e Ugo
Foscolo apprezzano il poeta in erba. I Promessi Sposi riscuotono un
grande successo e nell’arco di un anno sono stampate tredici
edizioni, alcune delle quali in tedesco, francese, inglese.
Il critico che contribuisce a far conoscere veramente l’opera del
Manzoni in Italia è Francesco De Sanctis che dedica all’autore un
intero corso nel 1877. Detrattore del Manzoni è il poeta Giosue
Carducci, che lo taccia di conformismo borghese, mentre il filosofo
e critico Benedetto Croce afferma che il romanzo manzoniano non
contiene poesia, ma è opera oratoria, Antonio Gramsci (1891-1937)
accusa Manzoni di paternalismo nel suo atteggiamento verso gli
umili, nel saggio Letteratura e vita nazionale (1950), conglobato
nei Quaderni dal carcere (1972).
I prosecutori della ricerca di De Sanctis e di Croce sono, a tutt’oggi,
gli interpreti più acuti dell’opera manzoniana. Attilio Momigliano,
Luigi Russo e molti altri, cercano di evidenziare, accanto ai vari
temi e al significato dei personaggi, l’unità poetica e il messaggio
fondamentalmente umano dell’opera manzoniana. Michele Barbi progetta
nel 1939 un’edizione nazionale delle opere del Manzoni e, negli anni
Cinquanta, attua un’edizione critica delle tre redazioni del
romanzo, per consentire ai critici utili esami comparativi.
Gli studiosi più recenti (G. Petrocchi, L. Firpo, L. Caretti, G.
Vigorelli, D. De Robertis, V. Spinazzola, D. Isella, E. Raimondi, M.
Vitale, M. Corti, U. Eco) si sforzano di illustrare anche i rapporti
fra Manzoni e la cultura italiana ed europea del suo tempo,
valutando in quale misura essi siano filtrati attraverso l’opera
letteraria.
Natalia Ginzburg, ne La famiglia Manzoni (1983), ha ricostruito,
attraverso gli epistolari, il complesso e variegato "ambiente"
manzoniano, costituito dai familiari, dagli amici e dai
collaboratori.
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