Il glottologo genovese Giacomo Devoto
(1897-1974), fondatore e direttore con Bruno Migliorini del
periodico "Lingua nostrali, è stato tra i maggiori animatori della
ricerca linguistica in Italia, particolarmente attento al rapporto
tra fatti linguistici ed avvenimenti storici e sociali. È autore,
fra l’altro, in collaborazione con Gian Carlo Oli, di un Dizionario
della lingua italiana. Fra i primi da noi a praticare, con risultati
cospicui, la critica stilistica (si vd. la raccolta di saggi
Itinerario stilistico, a cura di G.A. Papini, Firenze, Le Monnier,
1975), ha lasciato pagine di esemplare chiarezza sulla lingua del
Manzoni nel suo Profilo di storia linguistica italiana, apparso per
la prima volta nel 1953 e quindi ristampato f no ai giorni nostri.
La lingua del Manzoni
I risultati affermati nella tradizione della lingua poetica dal
Leopardi, furono raggiunti, compiutamente, nella prosa, contro le
stesse sue intenzioni, da Alessandro Manzoni(1785-1873). Raramente
una esperienza umana, complicata, si contrappone a un problema di
storia linguistica con tanta nettezza, e finisce per risolverlo con
tanta decisione. Tradizionale, soprattutto nel ritmo, è la sua
lingua poetica, che si afferma negli Inni sacri e nel Cinque maggio.
Essa si mantiene a un livello notevole, proprio perché la materia di
questo epos particolare si adatta ai suoi ritmi scanditi: quasi una
parata ideale profilasse le sagome di vite e vicende del Vangelo o
tappe successi e sconfitte dell’imperatore. Questo momento, in fondo
pre-leopardiano, nella storia della nostra lingua poetica, si chiude
assai presto, col Manzoni non ancora quarantenne.Il Manzoni si era
affacciato alla tradizione linguistica italiana dal di fuori,
dominandone essenzialmente il solo aspetto espressivo attraverso la
padronanza del dialetto, e quello tecnico sopranazionale attraverso
la conoscenza del francese. La sua familiarità con la lingua
letteraria era modesta e convenzionale. Si dice talvolta che la sua
dottrina linguistica è stata triplice, prima quella di una lingua
letteraria sopradialettale, arieggiante a quella dantesca, poi
quella di un modello toscano, a cui segue quella del modello
fiorentino. In realtà non si tratta di dottrine diverse, ma di una
ascesa progressiva verso una dottrina, passando da forme rudimentali
a forma più compiute. Sue prime riflessioni teoriche sul problema
della lingua sono nelle due lettere a C. Fauriel scritte a distanza
di quindici anni (1806 e 1821), con appena una tenne traccia di
sviluppo teorico. Nella prima l’italiano è detto "lingua morta",
nella seconda "lingua povera", cui bisogna ancora fissare i
significati delle parole’. Nella lettera a G.B. Pagani, del 1808,
egli elogia poi il Botta come "purgato e ottimo", divenuto tale per
il lungo studio dei bravi scrittori.
Uno spunto costruttivo compare in una lettera a L. Rossari (1825)~,
nell’accenno alla "lingua toscano-milanese che vagheggiamo insieme"
e che nel Vocabolario milanese-italiano di F. Cherubini (1814)4,
aveva la sua base. E gli Sposi promessi [= Fermo e Lucia]mai
pubblicati dal Manzoni [...] sono una fonte di lessico forse più
milanese che toscano, più artificioso che parlato, certamente
grigio, convenzionale, demoralizzante. La presentazione di don
Abbondio è diversa, non tanto per la mancanza del nome quanto perché
teneva "socchiuso il libro nella destra mano" e perché a un certo
momento giunse a una "rivolta della strada". Tuttavia gli Sposi
promessi non sono solo un "tesoro lessicale" malamente assortito. La
struttura del periodo appare ormai matura; lo sforzo che il Manzoni
ha compiuto nella successiva elaborazione lessicale, aveva già
avuto, nel campo sintattico, buon successo. Esso consisteva nella
ricerca di una concretezza, per la quale il periodo, breve o lungo
che fosse, contrapponeva alla struttura esclusivamente grammaticale
e formale del periodo tradizionale, dal Boccaccio al Leopardi, un
richiamo costante alle cose. Quel ramo del lago di Como con quel che
segue, non si presta a una analisi logica, a una scomposizione di
proposizioni coordinate e subordinate chiusa in se, ma veramente
gradua montagne e rilievi del terreno, il lago e i piccoli rii, in
un rapporto nel quale la bravura sintattica non è più una meta
raggiunta o un peso sopportato, ma uno strumento padroneggiato
compiutamente, con naturalezza. Il periodo manzoniano che non
indulge né a velleità melodiche né a rotondità classicheggianti,
raggiunge già in questo tempo una armonia interna, concreta. La
prima edizione autorizzata dei Promessi sposi (1827) non si
allontana da queste posizioni. Ma la crisi ulteriore, decisiva,
appare presto nelle due lettere a G. Borghi del febbraio e aprile
18295. Il passaggio dalla precedente tesi contaminatoria a quella
toscana, e poi fiorentina, diventa presto definitivo. Alla crisi
segue un’esperienza umana, il viaggio e il soggiorno a Firenze, e il
lungo periodo di riflessione, alla fine del quale compare la seconda
edizione dei Promessi sposi (1840), radicalmente rinnovata nel
vocabolario. Nel capitolo XXXIII si leggeva nel 1827 e si lesse nel
1840: (1827) "Dopo un lungo battagliare, si addormentò finalmente e
cominciò a fare i più scuri e scompigliati sogni del mondo"; 1840
"Dopo un lungo rivoltarsi, finalmente si addormentò, e cominciò a
fare i più brutti e arruffati sogni del Mondovì Una ricerca
essenziale di concretezza domina queste correzioni particolari e
compie nel campo del lessico lo sforzo precedente svolto nel campo
della sintassi del periodo. Questa aderenza alle cose fa parere
astratto e schematico il periodare altrui. Tale la similitudine del
malato che si rivoltola nel letto e il Leopardi rappresenta,
genericamente, così: "ognuno di noi... è come uno che si corica in
un letto duro e disagiato: dove subito posto, sentendosi stare
incomodamente, comincia a rivolgersi sull’uno e sull’altro fianco, e
mutar luogo e giacitura a ogni poco: e dura così tutta la notte,
sempre sperando... ". Il Manzoni: "L’uomo... è un infermo che si
trova sur un letto scomodo più o meno, e vede intorno a se altri
letti, ben rifatti al di fuori, piani, a livello; e si figura che ci
si deve star Lenone. Ma se gli riesce di cambiare, appena s’è
accomodato nel nuovo, comincia, pigiando, a sentire, qui una lisca
che lo punge, lì un bernoccolo che lo preme: siamo a un dipresso,
alla storia di prima"ó. L’immersione nella lingua viva non è
soltanto di pronuncia e lessico toscano, ma di imagini concrete, di
concreti bernoccoli e lische. L’ideale fiorentino è realizzato
piuttosto nel senso della lingua dell’uso che in quello della
espressività: questo spiega la non-fiorentinità di certi
particolari. Questo spiega però anche come [. . . ] i Promessi sposi
battano con la loro giovinezza perenne, non solo tutti gli scritti
contemporanei, ma anche scritti di mezzo secolo più recenti. La
costrizione linguistica del Manzoni ha dato alla sua scultura
compattezza e non rigidità. La elaborazione della teoria vera e
propria si conclude dopo un trentennio: dal Sentir messa (1836) alla
lettera a G. Carena sul "Prontuario" per un vocabolario metodico
della lingua italiana e alla "Relazione" della commissione
incaricata dal ministro Broglio di proporre i mezzi migliori per
diffondere la buona lingua e la buona pronuncia (1868)7. Ai termini
di confronto vaghi che si chiamavano superamento di dialetti,
aderenza al tempo in cui si vive, fini dello scrittore rivolto ai
posteri e non agli antenati, si sostituisce ora un termine di
confronto, un modello unico, che teoricamente passa dalla etichetta
toscana a quella fiorentina, mentre praticamente si ispira subito,
senza esitazioni e attenuazioni, a Firenze. La visione
aristocratica, nella quale erano accomunati il Cesari e il Monti, è
superata; superato è pure il complesso di inferiorità rispetto al
francese; ma più di tutti sono lontani i principi generali della
grammatica settecentesca. Tutto è rivolto al presente, e cioè
all’avvenire. Ci sono stati solo vantaggi nella accettazione
integrale del fiorentinismo? Evidentemente, chi pensi soltanto alle
ostilità [del M. ] verso il dittongo uo, così spesso sostituito da o
nel tipo bono, rileva un particolarismo sproporzionato. Ma è questo
il lieve prezzo, che si doveva pagare in confronto del vantaggio
nato dalla validità universale e automatica del modello. Questo
agisce costantemente, è sempre pronto a rispondere a qualsiasi
dubbio, a riempire qualsiasi lacuna, non lascia mai il campo per
soluzioni o disquisizioni artificiali, arbitrarie, disarmoniche. Ma,
se ha una importanza polemica decisiva nel trasportare il modello
dal passato al presente, ha l’inconveniente come teoria, di
identificare il presente in una forma eccessivamente ristretta, così
dal punto di vista topografico, Firenze, come dal punto di vista
sociale, l’uso medio di questa città. Una lingua letteraria che
debba valere per tutta la comunità nazionale italiana, deve apparire
sempre diversa a tutti gli italiani, così dal punto di vista
geografico, come da quello sociale. Se a Milano la differenza
obiettiva fra il dialetto e la lingua letteraria è grande e a
Firenze è minima, questo non ha importanza: la letterarietà è, per
definizione, diversa dall’uso, sia pure per sfumature, e i
fiorentini non distinguono né rifiutano meno nettamente il loro
vernacolo di quel che non facciano i milanesi per il loro dialetto.
La posizione manzoniana è stata feconda nelle mani del Manzoni solo
perché è stata mezzo e non fine.
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