Russo: "Il cardinale fraintende sempre don
Abbondio, lo fraintende generosamente: in questa sua sublime
ottusità di magnanimo, che non riesce a rendersi conto dei piccoli
pensieri del piccolo uomo, sta tutta la sua più vera grandezza di
personaggio... Il Manzoni non ha voluto assoggettare ad alcuna
critica la personalità del grande gerarca della Chiesa, ma nella sua
stessa grandezza il cardinale trova il suo limite umano, la sua
debolezza; egli, eroe della grande ragione, non capisce mai l’eroe
della piccola ragione, ed in questa sua debolezza scompare il
simbolo oratorio e subentra l’umano." "...don Abbondio avvicinato al
cardinale ed il cardinale visto dalla piccola mente di don Abbondio
vogliono rappresentare come una specie di equilibrio, di impasto, il
chiaroscuro dell’ideale e del reale accostati insieme. Nella figura
di don Abbondio avviene come un riscatto artistico del cardinale."
[Aggiungerei che don Abbondio, ogni volta che compare, e specie dopo
esser comparso petto a petto col cardinale, sta a ricordare ai
lettori che, al di là della conclusione del romanzo, apparentemente
rugiadosa, i don Abbondio non saranno mai convertiti al vangelo: e
se non ci riesce un Federigo! Anche in questo io vedo la misura
dell’ideale. Noto oggi, 3 gennaio 1992, che quando scrivevo queste
note, negli anni 80, non avevo ancora letto Raimondi e il suo
Romanzo senza idillio, ma ne presentivo le conclusioni.] Russo
prosegue: "E forse, appunto, questo colloquio del cardinale e di don
Abbondio è l’episodio più significativo, per definire il particolare
cristianesimo del Manzoni: un cristianesimo rigoristico, apostolico,
combattivo, intransigente da una parte e dall’altra parte un
cristianesimo un po’ doloroso e sorridente, consapevole della
limitatezza della natura umana, e per la quale ragione l’artista
discende dal suo cielo a mescolarsi di terreno e di umano, a
compatire, ad indulgere, dopo aver rigorosamente condannato. Ciò che
a me sembra.
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