Storico della letteratura (Aosta, 1901-Roma,
1990), ha insegnato letteratura italiana nelle università di Palermo
e di Roma. Sulla giovanile formazione crociana ha innestato
l’esempio di impegno morale e civile di Piero Gobetti, così che è
gradualmente approdato ad un più concreto storicismo che, nella
maturità, ha messo a frutto la lezione del materialismo storico e,
soprattutto, dei Quaderni del carcere di Gramsci. Autore di un
Compendio di storia della letteratura italiana (1936-37), che è
un’opera nel suo genere tuttora insuperata, e direttore con Emilio
Cecchi della grande Storia della letteratura italiana edita da
Garzanti (1965-1969), si è dedicato in particolare alla letteratura
trecentesca (Il Trecento, 1934; Poeti minori del Trecento, 1952) ed
ha pubblicato un fondamentale commento alla Divina Commedia. Le
pagine che seguono sono tratte dalla raccolta del 1966, Ritratto di
Manzoni e altri saggi. In esse il Sapegno sottolinea, tra l’altro,
come l’intento polemico del Manzoni, espressione di una "alta e
combattiva tensione morale,> investa "tutta la struttura del libro e
ogni particolare" e come la religiosità dello scrittore sia "lo
strumento di una interpretazione critica, straordinariamente nuova e
attiva in quel tempo e in quella società" e ponga le premesse per la
"nascita di un’arte realistica in senso moderno".
La novità dei "Promessi sposi"
Non a dispetto, come si dice, dei suoi presupposti morali e
polemici, sì proprio in virtù di quei presupposti, il romanzo è una
grande opera di poesia, la cui validità si commisura, come è proprio
dei capolavori, in rapporto all’ampiezza dell’orizzonte culturale e
alla sua attitudine a comprendere e a modificare la complessa realtà
di un’epoca e di una civiltà determinata. Polemico è già il nucleo
primo dell’invenzione: quel porre al centro del racconto ed elevare
a simboli della dignità umana conculcata, ma insopprimibile, un
filatore e una contadina, quello spostare l’attenzione dai
personaggi degli eroi e dei grandi alla gente umile e anonima, che a
molti dei contemporanei, e perfino a un Tommaseo,apparve
atteggiamento paradossale e deprecabile; e un lievito di insistente
polemica, in cui riaffiorano tenaci i motivi antifeudali e
antiumanistici della cultura lombarda settecentesca, accompagna e
sottolinea, ora ironica ora sdegnosa, la rappresentazione sempre
calda di affetto e di pietà della vita dei poveri, svela, sotto il
fasto pesante del cerimoniale, gli idoli di orgoglio e di crudeltà,
di boria e di violenza che ispirano la condotta e regolano il
costume dei ceti dominanti; scopre illuminandolo di luce cruda,
l’oscuro fondo di cupa tetraggine, di simulazione, di aridità o di
vigliaccheria, dei personaggi d’autorità, tirannelli e politiconi,
prelati di mondo e avvocati azzeccagarbugli, nobili puntigliosi e
ridicoli pedanti, bigotte con la loro smania di filantropia
invadente ed inutile e grandi signore depravate e perverse; suscita
ad ogni passo la satira pungente di una società con i suoi
pregiudizi e le sue superstizioni, i suoi riti artificiosi e la sua
cultura scolastica, nonché della politica in se e di coloro che
l’incarnano, dell’immortale ragion di stato, dei "motivi d’interesse
e di riputazione", a cui i governanti ubbidiscono, procedendo ora
con grossolana violenza, ora con imperizia, con stoltezza sempre,
incuranti della miseria, della fame, del "sangue de’ poveri".Né
questo fermento polemico è da considerare come elemento secondario,
marginale ed episodico, o peggio ancora come un’arbitraria e
fastidiosa intrusione dell’ideologia religiosa dello scrittore, che
costringa e raffreni la sostanza poetica in funzione di un’apologia
angustamente confessionale; è vero invece che esso investe tutta la
struttura del libro e ogni particolare; in esso convergono e si
compongono fantasia e sentimento invenzione e riflessione; si
accordano, in un ritmo alterno, temperandosi a vicenda, i momenti e
i toni umoristici e comici e quelli tragici eloquenti o solenni. Un
medesimo impulso di alta e combattiva tensione morale ispira la
vivacissima commedia del personaggio di don Abbondio, e, su un piano
diametralmente diverso, la psicologia sottile penetrante,
spietatamente rivelatrice di Gertrude; anima la mossa, incalzante
descrizione, tutta in chiave ironica, dei tumulti milanesi e la
drammatica presentazione della carestia e della peste. Il moralismo
giovanile dello scrittore, traducendosi in una alta e severa
concezione religiosa, si riconosce ora e si articola in una materia
ben altrimenti ricca e concreta, ma senza perder nulla del suo
rigore e della sua forza battagliera. E quella religiosità, che è
stata fin dal principio ed è tuttora per molti lettori ragione di
scandalo, di diffidenza e di tenace antipatia, quando la si
consideri nella sua genesi e nella sua situazione storica, in quella
fase della cultura e della vita italiana, appare per quello che
veramente è, nella storia della creazione poetica, al di fuori e al
di sopra dell’ideologia particolare dello scrittore, lo strumento di
una interpretazione critica, straordinariamente nuova e attiva in
quel tempo e in quella società, la condizione e l’avvio al sorgere e
al maturarsi, in Italia, di un’arte realistica in senso moderno.
Proprio per il tramite della conversione e dell’adesione al
cattolicismo, l’ideale morale del giovane Manzoni si riempie di un
contenuto vero e acquista una forza espansiva, riconoscendosi nella
faticata saggezza e nella secolare esperienza degli umili; e,
inversamente, il principio egualitario cristiano per la prima volta
scende con lui dal cielo sulla terra e diventa criterio di
interpretazione e discriminazione delle vicende storiche e degli
atteggiamenti umani. I limiti, che pur si palesano evidenti a
un’indagine retrospettiva, di quella posizione mentale, servono
tutt’al più a definire il grado di evoluzione di una società, quando
appunto i Promessi sposi si leggano in funzione meramente
documentaria; non toccano e non attenuano la sostanza poetica del
libro, né il suo evidentissimo significato storico. Talché, se il
confronto con altre situazioni, altrimenti progressive e mature,
dell’Europa contemporanea, può riuscire illuminante per lo storico
che si proponga di illustrare le insufficienze e le debolezze della
nostra rivoluzione nazionale e borghese; diventa poi assurdo, e
precisamente antistorico, quando lo si assume come criterio di
giudizio in sede letteraria. Nell’ambito della civiltà del
Risorgimento, non è possibile scorgere altra opera più
rappresentativa, sul piano dell’arte, né più nuova e feconda, che i
Promessi sposi, se non forse le musiche congeniali di Verdi
(Leopardi sta a se, e a quella civiltà si contrappone con un virile,
e pur sommario, rifiuto, lacerando bruscamente il velo delle
consolanti illusioni metafisiche e inaugurando il regno dell’arido
vero". Un rapido sguardo alla trama ed ai personaggi del libro
(vivi, del resto, nella mente di ogni lettore) potrà servire di
conferma a quanto s’è detto riguardo alla novità e alla forza del
suo contenuto. Al centro della storia stanno i due popolani, i
"promessi sposi", la cui esistenza passerebbe su questa terra
inavvertita, senza lasciarvi traccia, se essi non finissero proprio
per caso, e senza volerlo, a capitar fra i piedi dei grandi e dei
prepotenti e ad inciampare così nelle loro trappole. Uno è Renzo,
che sembra davvero riassumere in se tutte le doti di un certo mondo
contadino: la bontà generosa, la giustizia istintiva, la religiosità
schietta, la laboriosità ilare e serena, la freschezza non corrotta
dei sentimenti; Renzo, la cui vicenda è tutta una coperta
ininterrotta battaglia contro l’orgoglio e le stregonerie dei dotti,
di quelli che san leggere e scrivere e servirsi a tempo del latino
dei decreti e della scrittura, contro le ingiustizie dei signori che
han fatto la legge e l’adoperano secondo i loro lini e il loro
capriccio, e questa battaglia egli la combatte senz’altra arma che
le sue idee chiare e non artefatte, la sua fiducia tetragona2 nel
trionfo del bene, la forza sana delle sue braccia e delle sue spalle
addestrate da sempre alla dura fatica: è la figura più lieta e
franca, la più cordiale e convincente che il Manzoni abbia saputo
inventare. E poi c’è Lucia, in cui la fede ha creato una sensibilità
più alta, più delicata e sottile; un pudore, una ritrosia, una
superiore gentilezza d’affetti, che reca con se una luce ineffabile
e la proietta su tutte le cose e persone con cui s’incontra: una
creatura che non sembra di questa terra, e pur rimane una contadina,
con il suo modo di sentire semplice e quadrato, ben circoscritto in
una precisa misura di tempi e di luoghi e di educazione. Intorno ai
due protagonisti brulica tutto un mondo di umili; contadini,
artigiani, barcaioli, barocciai, povera gente tormentata
dall’ingiustizia degli uomini e dalla crudeltà della sorte, ma non
distorta e soffocata, tuttavia umana e solidale: sempre pronta al
bene nei pensieri e nelle opere. E c’è la vita del villaggio, con i
suoi interni squallidi e le sue magre cene e i suoi focolari spenti;
e la chiesetta, la canonica, il convento dei cappuccini; e le
campagne bruciate dalla siccità, devastate dalle invasioni
soldatesche, spopolate dall’epidemia; e le lunghe strade che corrono
il mondo pieno di sorprese e di malincontri;e le osterie; e infine
anche la città, ma come la vede il contadino, stupenda e vasta, ma
irta di insidie e di tranelli, la città del popolo, stremata e
atterrita dal contagio, ovvero eccitata e fremente nei giorni di
gazzarra. E nello sfondo, il paesaggio familiare di Lombardia, con i
suoi cieli, i suoi monti, le sue acque, la sua mite luce autunnale.
Questo fondo popolano tiene una parte grande, più grande che a volte
non si pensi, e predominante, nella struttura del romanzo. Anche il
quadro storico, in cui tutta la vicenda s’inserisce, non tocca se
non di passata gli eventi politici, diplomatici, bellici, quelli
insomma che formano essenzialmente e quasi esclusivamente la trama
di una storia nel senso corrente del termine, e si specifica
piuttosto in una serie di quadri d’ambiente e di costume, per cui si
delinea, non il corso solenne dei fatti, sì il colore, la fisionomia
minuta e variegata di un’epoca. E quando un avvenimento di vasta
portata il malgoverno spagnolo, la carestia, la guerra, la peste-
penetra nel racconto, è visto non in una considerazione astratta e
disinteressata da storico professionale, bensì in quanto aderisce
alla vita degli uomini, li agita, li fa soffrire, reca un improvviso
sconquasso nelle loro abitudini e nelle loro coscienze.
Naturalmente, in quella rappresentazione vasta e complessa di un
periodo storico visto nei suoi riflessi umani e quotidiani, debbono
penetrare anche i grandi, i personaggi illustri, i rappresentanti
dei ceti e degli ordini privilegiati; ma vi entrano, come è giusto,
in funzione subordinata: o per antitesi, come le ombre che hanno il
compito di delimitare e porre in rilievo le zone di luce; ovvero
come elementi di sostegno e di conforto del concetto che regola la
rappresentazione nel suo complesso, in quanto si tratti di potenti
che s’adeguano al mondo degli umili e si mettono al loro servizio.
Forse soltanto a proposito dei personaggi di quest’ultimo tipo (il
cardinale, fra Cristoforo, per certi aspetti anche l’innominato, con
la sua vicenda esemplare e lievemente stilizzata) è lecito parlare
di un residuo irrisolto di intenzioni moralistiche (quasi un’eco e
un riflesso della splendida oratoria dei predicatori francesi del
gran secolo3, trasferita su un piano di persuasione popolare e
raccontata): solo la sapienza e la discrezione infinita
dell’artista, e il freno dell’ironia, riescono quasi sempre a
salvarli, trattenendoli in un difficile equilibrio sull’orlo
dell’oleografia4. Ma quanto agli altri personaggi, che abbiamo detto
antitetici, sono proprio quelli in cui il lievito polemico opera più
direttamente e in modo più palese, sia che incarnino gli aspetti
ridicoli, tronfi, artefatti, barocchi, le forme vuote di una civiltà
pomposa e puntigliosa; o sia che impersonino i malvagi, i violenti
che ignorano il timor di Dio, gli esclusi per i quali è presso che
impossibile ogni redenzione, prostrati nel fango della loro viltà,
della loro abiezione, dei loro delitti; e qui la polemica stimola, e
non impaccia, la libertà della fantasia, l’orrore o il disprezzo si
mutano in drammatica perplessità e aiutano a penetrare più a fondo,
onde la grandezza del male è sentita in termini di tragedia,
investita dalla commozione, riscattata dalla pietà del poeta (storia
di Gertrude, morte di don Rodrigo), e il comico non ha nulla di
piccolo e di caricaturale, anzi si distende in pagine luminose, che
son tra le più ilari e cordiali ed umane del romanzo (don Abbondio,
don Ferrante, donna Prassede).Un alto sentimento religioso circola
in ogni parte di quel mondo, penetra in ogni vicenda, sfiora anche i
personaggi più tristi e i più vili. L’intervento di Dio negli
accadimenti piccoli e grandi è in ogni momento così forte che ti
sembra di poterlo toccar con mano: è una presenza paterna, amorosa
con la fede semplice e intatta dei suoi contadini, della povera
gente: "quel che Dio vuole. Lui sa quel che fa! c’è anche per noi";
"lasciamo fare a Quel lassù"; "tiriamo avanti con fede, e Dio ci
aiuterà". E in questo mondo basso, più triste che lieto, l’opera di
Dio la senti soprattutto nelle tribolazioni, negli affanni, e in
quegli spiragli di luce che s’aprono improvvisi in mezzo alle
tenebre dell’angoscia e chiudon le porte alla disperazione. La
provida sventura del coro d’Ermengarda, il "Dio che atterra e
suscita / che affanna e che consola" dell’ode napoleonica, sono
anche il filo conduttore, la trama segreta del romanzo, ma espressi
in termini più semplici, familiari, popolareschi. È il tema che
palpita nelle parole di fra Cristoforo ai due sposi finalmente
ricongiunti: "Ringraziate il Cielo che v’ha condotti a questo stato,
non per mezzo dell’allegrezze turbolente e passeggere, ma co’
travagli e tra le senserie, per disporvi a un’allegrezza raccolta e
tranquilla Cap. [XXXVI] . Ed era già nella chiusa dell’addio ai
monti: "chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai
la gioia de’ suoi figli se non per prepararne loro una più certa e
più grande" [cap. Vlll]. E ritornerà anche nelle meditate
conclusioni, in cui Lucia e Renzo condenseranno alla fine il frutto
e il "sugo" di tutta la loro esperienza. Il pessimismo cristiano
dell’Adelchi s’è schiarito e intenerito in questo dono di fiducia e
di attesa, in questa luce di "allegrezza raccolta e tranquilla".
Questa morale, con quel che comporta di rassegnato e di umbratile, è
il limite in cui si appuntano le diffidenze e le riserve dei lettori
più restii (suonava ostica già a qualche democratico dell’Ottocento,
che l’applicava con visione alquanto miope alla lotta politica in
corso, e vi fiutava un invito, tutt’altro che conforme ai sentimenti
dello scrittore, alla rassegnazione e alla non violenza di fronte
all’Austria e al clericalismo retrivo). Limite, ad ogni modo, come
s’è già detto, d’ambiente e di situazione storica, d’ideologia
storicamente condizionata, insomma, non di arte. Perché la moralità
non si sovrappone al racconto, ma lo compenetra e l’illumina dal di
dentro: la senti anche nei paesaggi e negli oggetti e nelle
peripezie più naturali (nel gran "notturno" drammatico e musicale
del capitolo VIII, nella fuga di Renzo da Milano all’Adda [capp.
XVI-XVII], nella descrizione dell’afa e del temporale che mette fine
al contagio [capp. XXXV-XXXVII]), ma appunto la senti come un
elemento e una luce delle cose e degli avvenimenti, una nota che li
completa, e li arricchisce. La sua funzione è, non di fine, bensì di
strumento, che fa più penetrante ed intensa l’analisi psicologica e
asseconda la ricerca del naturale, del concreto, del vero, nella
scelta degli oggetti e nel modo di rappresentarli. Parallela alla
novità del contenuto, si accampa l’altra, fors’anche più vistosa,
della forma e del linguaggio, quell’incomparabile apporto di
invenzioni verbali e stilistiche, per cui col romanzo manzoniano
nasce la letteratura moderna d’Italia; e tale novità della forma
deriva anch’essa, riprendendo in modi di gran lunga più maturi e
concreti le esigenze della generazione dei Verri e del Parini, dallo
stesso fondo morale e polemico: come la vita "non è già destinata ad
essere un peso per molti e una festa per alcuni, ma per tutti un
impiego" [cap. XXII], così anche la letteratura non può proporsi
"soltanto per fine di divertire quella classe d’uomini che non fa
quasi altro che divertirsi", non può ridursi a privilegio di una
minoranza. Anche qui al senno dei posteri, con tutto il tesoro delle
successive esperienze letterarie europee e anche italiane, riesce
abbastanza facile scorgere certi limiti e timidezze del realismo
manzoniano; ma sarebbe stolto rifiutarsi di vedere l’enorme
importanza di quella svolta storica. Sta di fatto che solo con molto
stento, e con alterne fasi di superficiale adesione e di
ripiegamenti involutivi, la cultura italiana è giunta a prender
coscienza della sua portata e a maturarne i frutti; né l’efficacia
esemplare di quell’insegnamento può dirsi a tutt’oggi veramente
esaurita.
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