LETTERATURA ITALIANA: PROMESSI SPOSI

 

Luigi De Bellis

 


 

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PROMESSI SPOSI






IL PAESAGGIO NEI "PROMESSI SPOSI"
a cura di Mario Marcazzan


Notava il De Sanctis a proposito del celebre inizio del primo capitolo: "Quando comincia il racconto, ti è innanzi una lunga descrizione, che spesso pare scritta da un geografo o da un naturalista, anzi che da un poeta: cos’ preciso è il colore locale f n ne’ minimi particolari. Per lo più nelle descrizioni di scrittori italiani la grande preoccupazione è di trovare l’effetto estetico con tali ingegnose combinazioni di ombre e di luce, con tale lavorio d’immaginazione, che si abbia non la veduta, ma la "bella veduta". Non basta il paese, ci vuole il paesaggio [...]. Qui la preoccupazione è di rendere accessibili all’immaginazione anche più infingarda le figure e le disposizioni del sito [luogo], con esse le impressioni che naturalmente producono, se e quando; e l’effetto estetico non si cerca, ma s’incontra, in dati momenti, quando il sito stesso lo porta, e consegue più il suo f ne, perché i suoi colori non sono fregi [ornamenti] dell’immaginazione, ma parte anch’essi del luogo, colori locali. Vedi uomo che descrive dal vero, quello che gli è innanzi all’occhio, e nota tutto, e tutto comprende, e tutto ti vuol far comprendere, con la curiosità paziente e attenta d’intelligente osservatore, anzi che con l’animo concitato [eccitato] e distratto di artista ".Il critico insiste quindi sulla novità costituita dal "realismo" della descrizione manzoniana contrapponendolo alle rappresentazioni "decorative" del paesaggio tipiche della tradizione letteraria italiana. Muovendo dalla pagina di De Sanctis, molto persuasivamente, Attilio Momigliano ha sottolineato nel romanzo l’oggettivazione del paesaggio naturale che acquista così dignità di "personaggio": "Il paesaggio nella prosa del Settecento e del primo Ottocento, o non ha vita, o ha quella sola che vive il poeta: la natura riflette ed allarga le malinconie e le gioie di chi la descrive. L’artista osserva la natura o la assorbe in se stesso: il Manzoni invece la contempla. Questa è la sua novità. In lui la natura ha una vita sua, e talora anche un suo dominio; egli scopre la poesia nella natura in quanto essa ha una sua propria esistenza e una sua capacità, non di colorarsi dell’anima degli uomini, ma di modificarla. Questa concezione è più reale e nel medesimo tempo, quando sia espressa con efficacia, più profonda. L’uomo comune non attribuisce alla natura i sentimenti che prova egli stesso, ma la contempla sentendo confusamente che essa ha un’esistenza sua, un suo signifi cato, e che egli potrà subire il suo fascino, fondersi in essa, sentirla vivere della sua stessa vita, ma non infondere in lei le proprie passioni, vedere in lei uno specchio della sua anima". Di seguito alcune pagine sul paesaggio manzoniano dovute ad uno dei più attenti studiosi del romanticismo, Mario Marcazzan (1902-1967), tratte dalla raccolta di saggi Nostro Ottocento (1956).

Il paesaggio nei "Promessi sposi"

Tiene del crepuscolo, nel Manzoni, anche l’aurora, ha una stanchezza autunnale anche quel cielo di Lombardia, così bello quand’è bello, così splendido, così in pace [cap. XVII]. Si apprende anche alla natura quel senso di soave mortificazione, di accettata penitenza che percorre il mondo manzoniano e lo chiude in un palpito di intimità religiosa. Chi non ricorda il mattino di padre Cristoforo, la breva ma intensa descrizione colla quale si inizia il capitolo IV? È una delle pagine più intimamente manzoniane. Cielo sereno, e terra coltivata di fresco. "La scena era lieta, ma ogni figura d’uomo che vi apparisse rattristava lo sguardo e il pensiero". Anche se il Manzoni non avesse insinuato questa didascalia, il senso doloroso di quel paesaggio ci verrebbe pur sempre offerto dalle sue note esterne di colore. Il paesaggio manzoniano non è mai fine a se stesso, non si appaga di fissare un aspetto della natura, trascrive un aspetto dell’umanità. Preme su questa pagina la mestizia severa della gente che porta in volto i segni della dura carestia, e la natura si intride del loro cruccio e della loro mestizia. Ma preme, anche su questa pagina, una mestizia più grave che ha più remote e lontane ragioni di quella che incide sugli uomini e sulle cose il suo segno: quella mestizia che padre Cristoforo porta con se dal giorno in cui s’è umiliato dinnanzi a Dio, come condizione abituale della sua austera vita di penitente; la consapevolezza della grave presenza di Dio, che sovrasta quell’ora come ogni ora della vita dell’uomo. In quell’apertura di cielo non è solo trascritta la gravità melanconica di un personaggio; c’è, al di là del personaggio, il poeta, e il personaggio vive come un momento lirico della sensibilità dolorosa di questo, e pur così ricca di caritativa comprensione, tesa verso un limite di affaticata ma invitta fiducia. È una pagina raccolta, e come pagina di paesaggio ripete, sebbene in misura più sobria e per accenni più rapidi, la tecnica consueta al Manzoni nella descrizione dei luoghi. Riferimenti precisi ("è Pescarenico una terricciola, sulla riva sinistra dell’Adda o vogliam dire del lago, poco discosto dal ponte... Il convento era situato - e la fabbrica ne sussiste tuttavia - al di fuori e in faccia all’entrata della terra, con di mezzo la strada che da Lecco conduce a Bergamo") ma straordinariamente sommari, e subito umanamente accentuati, e indirizzati a introdurre la nota angosciosa che nella descrizione gradualmente s’insinua. Quando l’occhio del Manzoni si ferma su quel "gruppetto di case, abitate la più parte da pescatori, e addobbate qua e là di tramagli e di reti tese ad asciugare", è già fuor della descrizione obbiettiva, e sottolinea una condizione di povertà e di umiltà sulla quale la sopravvenuta carestia pesa con strazio più doloroso e più vivo. I particolari di colore sono accettati per quel tanto di squallido che si specchia in uno squallore più vasto e se ne fa simbolo ("un venticello d’autunno, staccando dai rami le foglie appassite del gelso, le portava a cadere qualche passo distante dall’albero"). Nulla di esteriormente descrittivo insomma, bensì accordi che preludono a un’animazione umana attraverso la quale il paesaggio si interiorizza, prende forma nell’anima dei mendichi laceri e macilenti, nell’anima di padre Cristoforo, nell’anima del Manzoni. Dalla prima alla seconda stesura la rielaborazione è nel senso di un maggiore raccoglimento, di una più commossa intensità di emozioni. È rielaborazione che non tanto opera in superficie quanto in profondità. Si metta a confronto l’inizio:

"Era un bel mattino di novembre; la luce era diffusa sui monti e sul lago; le più alte cime erano dorate dal sole non ancora comparso sull’orizzonte, ma che stava per ispuntare dietro a quella montagna che dalla sua forma è chiamata il Resegone, quando il padre Galdino a cui fra Canziano aveva esposta fedelmente l’ambasciata, si avviò dal suo convento per salire alla casetta di Lucia".

Così negli Sposi promessi [= Fermo e Lucia]. Sarà inutile insistere sull’avvio impacciato e scolastico, sulle precisazioni superflue che coll’evidente proposito di saldare il passo alla vicenda, la descrizione al racconto, finiscono per tenermela estranea. Di tutto questo non si salva nei Promessi sposi che il sole non ancora del tutto apparso sull’orizzonte, e la casetta dove padre Cristoforo era aspettato. Ma sono due tocchi che rapidamente accostati fanno aderire la natura alla vita, così intimamente saldate in questo passo, nel quale la terra e gli uomini assumono lo stesso volto, attristati come sono la natura e il paesaggio della tristezza dell’uomo. Affiora anche, in questa tonalità, un motivo più profondo: perché essa non solo traduce una dolorosa realtà, ch’è in tutto e in tutti, ma si colora di una tristezza inguaribile e immobile ch’è nell’anima di padre Cristoforo, ch’è la sua stessa intuizione della vita, ch’è la sua stessa coscienza, ch’è alla radice della sua volontà d’azione e del suo desiderio di bene: retaggio di quel peccato che in ogni momento egli sconta in se, e che tutta l’umanità egli sa esser chiamata a scontare con lui. Di qui nasce anche il suo amore pei poverelli, la sua compassione, la sua comprensione, poiché sa che essi gli sono, nel mondo, più che compagni nel dolore e fratelli nel patire: che gli alleggeriscono, col loro dolore e col loro patire, il fardello della colpa di cui deve rispondere al tribunale di Dio. Il paesaggio tiene di quella religiosità raccolta e austera di cui il frate s’ammanta nei Promessi sposi con tanto maggiore evidenza, quanto più intensa è la luce di spiritualità della quale s’illumina la sua figura nei confronti di quella che pur così efficacemente lo caratterizza negli Sposi promessi. Chi non ricorda il mentale monologo di padre Cristoforo quando, informato da Agnese e da Lucia del punto a cui stanno le cose, si raccoglie a pensare come possa trarre d’impaccio i due giovani e indurre don Abbondio al dovere, o trovar modo di piegar don Rodrigo?

"Poffare, che quell’anima (di cattivone) dovesse giungere a questo segno! Eh, non è il primo purtroppo! Ma non ci sarà chi possa farlo stare? Vediamo. Quello che più importa sarebbe di far succedere subito il matrimonio. Per...dinci: il signor Curato fa una gran villania e io gli parlo fuor dei denti... ciarle, ciarle, egli sa che io non do pugnalate, e mi lascerà dire o mi risponderà bravamente".

Ben altro è il tono dei Promessi sposi, dove padre Cristoforo nulla perde della sua energia irruenta e marziale, ma dove il linguaggio esprime la forza della santità più che l’impazienza dell’uomo d’azione. "Se potessi mettere in moto le mie barbe a Milano..." medita padre Cristoforo negli Sposi promessi. Più compostamente nei Promessi sposi: "Se potessi tirar dalla mia tutti i frati di qui, que’ di Milano...,. E il ritocco formale non è che un indizio fra i tanti d’una più uniforme mortificazione del pensiero, un fatto di stile che investe una diversa concezione del personaggio, che si configura più distaccato, nell’aureola di carità e di santità che lo illumina, da quel mondo che con tanta efficacia ancora incalza suoi spiriti combattivi. La stessa differenza di tono, che non altera sostanzialmente le linee, ma che fa testimonianza di una maturità più intensamente e compostamente raggiunta, troviamo nella rappresentazione del paesaggio. Lo spettacolo di quella miseria s’avvolge di ben altra suggestione umana e poetica. Negli Sposi promessi l’animazione di quel mondo non è meno commossa ma si svolge su un piano narrativo, discorsivo, è come diluita nel dialogo:

"Ad ogni tratto s’incontravano sulla via mendichi laceri e macilenti invecchiati nel mestiere, ma fra i quali molti si conoscevano per forestieri che la fame aveva cacciati da luoghi più miserabili, dove la carità consueta non aveva mezzi per nutrirli; e che passando a canto ai pitocchi indigeni del cantone gli guardavano con diffidenza e ne erano guardati in cagnesco come usurpatori. Di tempo in tempo si vedevano alcuni i quali dal volto dal modo e dall’abito mostravano di non aver mai tesa la mano e di essere ora indotti a farlo dalla necessità. Passavano cheti accanto al padre Galdino, facendogli umilmente di cappello, senza dirgli nulla, perché la sola parola che indirizzavano ai passeggeri era per chiedere l’elemosina, e un cappuccino, come ognun sa, non aveva niente. Ma il buon padre Galdino si volgeva a quelli che apparivano più estenuati, più avviliti, e diceva loro in aria di compassione: - Andate al convento, fratello; finché ci sarà un tozzo per noi, lo divideremo. I contadini sparsi pei campi non rallegravano più la scena di quello che facessero i poverelli. Salutavano essi umilmente il padre Galdino e quelli a cui egli domandava come l’andasse: - Come vuole, padre? - rispondevano: la va malissimo.- Alcuni che in tempi ordinari non avrebbero osato fermar e interrogar il padre Guardiano, fatti più animosi per la miseria dei tempi, gli dicevano:

Come anderà questa faccenda, padre Galdino?

Sperate in Dio che non vi abbandonerà. Povera gente! il raccolto è proprio andato male?Grano non ne abbiamo che per due mesi, le castagne sono fallate e il lavoro cessa da tutte le bande".

Nei Promessi sposi il senso di quella miseria è meno articolato analiticamente espresso con pochi tratti profondamente scavati; è, più che un quadro, una suggestione che emana da pochi tratti efficacemente significativi:

"S’incontravan mendichi laceri e macilenti, o invecchiati nel mestiere o spinti dalla necessità a tender la mano. Passavano zitti accanto al padre Cristoforo, lo guardavano pietosamente, e benché non avessero nulla a sperare da lui, giacché un cappuccino non toccava mai moneta, gli facevano un inchino di ringraziamento per l’elemosina che avevan ricevuta, o che andavano a cercare al convento".

In poche linee è condensata, in gesti irrevocabili, in sguardi di muta eloquenza, in silenzi che dicon più d’ogni parola, quell’umanità che il testo precedente stemperava con emozione così diffusa: lo scarno disegno è più reale della primitiva aderenza. Ma non è tutto qui. Con tecnica affatto nuova, risparmiando discorsi e parole, il Manzoni concreta ed esemplifica quel diffuso corale senso di miseria in alcune figurazioni umane, semplici, parche, meravigliosamente vive, concepite in una dolorosa luce d’idillio che sta tra il Parini e il Leopardi:

"Alcuni andavano gettando le loro sementi, rade, con risparmio e a molta cura come chi arrischia cosa che troppo gli preme; altri spingevan le vanghe come a stento, e rovesciavan svogliatamente la zolla. La fanciulla, scarna, tenendo per la corda al pascolo la vaccherella magra e stecchita, guardava innanzi, e si chinava in fretta a rubarle, per cibo della famiglia, qualche erba, di cui la fame aveva insegnato che anche gli uomini potevan vivere".

Non si potrebbe dire con meno parole e con efficacia più plastica: figure che si stagliano accoratamente su uno sfondo di miseria e di dolore. Nella pagine degli Sposi promessi senti lo scrittore, qui senti il poeta; che non solo vuoi tradurre in note di emozione, ma in tratti di bellezza, la materia che prende il suo animo, la verità che lo possiede. Possiamo domandarci che cosa rimanga, alla fine, di ciò che noi siamo soliti chiamare paesaggio. Ben poco, per non dir nulla. Il paesaggio diventa un sentire dell’anima più che un modo di essere della natura; vive totalmente perché non è oggettivato in un rilievo che rimarrebbe inevitabilmente delimitato e frammentario, ma è il respiro stesso, l’anima della realtà in cui si compenetra, diventa un sottinteso, ma un sottinteso mirabilmente presente che traluce tutt’intero nei momenti di commozione più piena.


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