Tra i personaggi "minori" del romanzo, Perpetua
ha acquistato tale popolarità che il suo nome, divenuto da proprio
comune (secondo la figura retorica dell’antonomasia, per cui vd. n.
1), designa ormai familiarmente la domestica di un sacerdote. La
complementarità di Perpetua, risoluta e, a suo modo, coraggiosa,
rispetto a don Abbondio pavido e dubbioso, fu già sottolineata dal
De Sanctis, quando scriveva che "I’uomo pauroso ha bisogno del suo
due, di qualcuno, cioè, che l’incoraggi; e il due di don Abbondio
era Perpetua, tipo che voi potete trovare benissimo, e nelle case di
preti vedete sotto forma di governanti queste "viragini", forti di
corpo, goffe, di buon cuore, che avendo della confidenza col padrone
s’immedesimano con lui, e dicono: - Noi, la casa nostra; - e quando
voi trovate che queste persone hanno buon cuore ed una stima sentita
per il padrone, allora comprendete tutta l’importanza del grido di
don Abbondio: - Perpetua!". Dopo De Sanctis, che vedeva, dunque,
nella donna "il contrapposto poetico di don Abbondio", l’attenzione
dei critici nei confronti del personaggio è stata piuttosto casuale:
basterà ricordare il Donadoni che la considera, insieme ad Agnese,
donna "piena del senso della realtà, ricca di accorgimenti,
vigilante di una sua filosofia tra di pessimismo e di storicismo
volgare" e il Russo che, nel corso del suo commento al romanzo, si
sofferma sulla "retorica plebea, un po’ teatrale" della fantesca. Le
pagine che seguono - nelle quali si mette persuasivamente in risalto
il destino della donna, "anima soffocata" - sono tratte dal saggio
La fedeltà di Perpetua, raccolto in Note manzoniane (1934) di Reto
Roedel, svizzero di origine grigionese, docente universitario e
critico d’arte e di letteratura, nonché autore di teatro e
narratore.
La "verità spirituale" di Perpetua
Perpetua è soltanto la serva di don Abbondio, e come tale non è
investita di nessun ministero. Perpetua, serva di mediocre
scaltrezza e di assennata devozione, negli Sposi promessi [= Fermo e
Lucia] - dove portava il nome di Vittoria - era chiamata addirittura
"la buona". Eppure là, dove era alquanto più impacciata, sapeva
anche servirsi dell’astuzia di una bigottona falsa, tanto che "fece
una voce da piangere" quando volle che il padrone rivelasse il suo
gran segreto. Nei Promessi sposi, per quello stesso scopo, si limita
alla più semplice e più abile "voce commossa e da commuovere" [cap.
1]. Ma nei Promessi sposi l’aggettivo "buona" è scomparso (in questo
punto: ritorna in altra forma più oltre), forse perché sapeva di una
certa tenerezza dichiarata, forse perché al giudizio sul personaggio
deve arrivare il lettore. E al giudizio benigno il lettore giunge, a
dispetto dei torti e dei "mancamenti" di Perpetua, grazie a certe
sue doti di schiettezza e a un suo giusto senso di devozione, meglio
ancora, grazie alla sua interezza di creatura costituita in una
forma equilibrata fra difetti e virtù: "serva affezionata e fedele,
che sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione, tollerare a
tempo il brontolio e le fantasticaggini del padrone, e fargli a
tempo tollerar le proprie, che divenivan di giorno n giorno più
frequenti" [cap. 1]. Fin dal suo primo presentarsi, si rivela intera
la Perpetua per antonomasia. Vedetela quando, volendo far parlare il
povero don Abbondio che trema per le intimazioni dei bravi, riempie
il bicchiere del padrone e lo tiene "in mano come se non volesse
darlo che in premio della confidenza che si faceva tanto aspettare";
vedetela quando imperatoria e monumentale si mette "ritta dinanzi a
lui, con le mani arrovesciate sui fianchi, e le gomita appuntate
davanti, guardando fisso, quasi volesse succhiargli dagli occhi il
segreto"; sentitela quando con trascendentale franchezza afferma
"Lei sa bene che, ogni volta che m’ha detto qualche cosa
sinceramente, in confidenza, io non ho mai..."; notate come è
imponentemente pronta a proferire "un nuovo e più solenne
giuramento". Tutto sembra contribuire a far di lei una creatura
spassosa sì, ma dalla quale diffidare. E invece, quando afferma al
suo padrone, sia pure "con voce commossa e da commuovere", di
essergli "sempre stata affezionata", dice una sua profonda verità.
Quando dà il suo "povero parere", lei serva al curato, colpisce nel
segno, e ce ne produrrà testimonianza niente meno che il cardinale
Federigo [cap. XXVI]. Possiamo contemplarla sicuri intanto che i
termini contrari della sua natura non costituiscono in lei dei
compromessi, ma indicano che la di lei piccola individualità ha una
sua vastità umana.Si veda l’accorta e saccente Perpetua, quando
casca nella rete che Renzo le tende per farla cantare [cap. II]. Ci
casca facilmente, ci vuoi cascare perché il bisogno di certe
ciarlate è in lei molto esigente: ma come ci casca? Negli Sposi
promessi Perpetua pronunciava certe parole "come si usa quando non
si vuoi essere creduto" e di questa sua impertinente astuzia non v’è
più traccia nei Promessi sposi. Là, l’intera seconda metà del
dialogo era rimasta avvolta dall’ombra insidiosa di un grave
giudizio: "fedele ai suoi giuramenti non disse nulla positivamente,
ma trovò un modo per combinare il rigore dei suoi doveri colla
voglia di parlare". Nel testo definitivo, Perpetua dice quanto crede
di poter dire, e nella sua semplicioneria, l’intimo gusto di far
vedere che sa, è più franco, non ubbidiente ad un calcolo ma ad un
intimo impulso. Il dialogo è svolto dalla prima all’ultima parola,
con appena qualche sospensione. C’è una certa franchezza in questa
figura di mezzo calibro. Però, nella precipitazione delle sue
parole, Perpetua è facile a compromettere non soltanto gli altri, ma
persino la sua assodata fama di saggezza: se può gloriarsi d’aver
dato a don Abbondio dei suggerimenti che poi lo stesso cardinale
Federigo avallerà, qui, quando dice che il suo padrone "non ci ha
colpa" e che "se pecca è per troppa bontà", pronuncia giudizi che
non troverebbero più un’approvazione superiore. Ma, poverina, a lei,
chi non li perdonerebbe? E, non ostante i suoi difetti, chi vorrebbe
negare ch’ella sia in essi sincera? Inavveduta sì, ma sempre pronta
ad una sua schietta generosità, è Perpetua: e qui appunto per
impulso di generosità e di schiettezza ella difende, anche troppo,
il suo curato. Infatti, dopo il compromettente colloquio, come
ricomparisce davanti al padrone che è stato gettato in maggiore
imbroglio? "con la faccia tosta, come se nulla fosse stato"; e
quando il misero l’accusa, lei si difende, non si "scusa" come le
avveniva negli Sposi promessi, se mai si "conduole". Condolersi: il
verbo che associa nel duolo lei e don Abbondio è pieno di
incomparabile efficacia; ma non è soltanto umoristico, è anche vero.
Per tale verità, Perpetua non è unicamente la figura caratteristica
che si suoi definire col nome di macchietta 0 con altri del genere.
Accanto alla burlevole-drammatica figura di don Abbondio, questa
donna dai gravi difetti, che gli è sempre vicina e che ne subisce in
parte le vicende, riesce ad emergere con una sua verità spirituale
piccina ma in tutto adeguata alla sua statura, testimoniante
un’effettiva bontà, sufficiente a far bello il personaggio che non
ha grandi "obblighi" cui soddisfare, al quale anzi è gioioso
perdonare qualche "mancamento". Meschina figura, ma che respira più
liberamente di quella del curato legato a un ministero, assai
modesta ma pur vista in tutta la sua possibile vastità vitale [...].
A guardarla nell’assieme, Perpetua è una figura che può dare
tristezza. Destinata a far ridere nei singoli episodi, è di volta in
volta scornata, e in tutta l’esistenza sacrificata. Morirà di peste,
e don Abbondio che si era tormentato con lei, ma che aveva anche
goduto delle di lei costanti cure, quando la ricorderà, lo farà per
burlarsene una volta ancora: "Ha proprio fatto uno sproposito
Perpetua a morire ora; ché questo era il momento che trovava
l’avventore anche lei" [cap. XXXVIII].Certo Perpetua è legata nella
creazione artistica a don Abbondio, e ciò significa non poco: ciò
conferisce una grande coerenza a quel suo destino di insoddisfatta e
incompresa e tuttavia smaniosa di dir la sua. Ella s’avvede - non ci
voleva molto - delle deficienze del padrone, è continuamente tentata
di enunciarle e sottolinearle; ma il padrone è quel singolarissimo
uomo che tutti sanno, uso a barcollare sotto i guai che in gran
parte egli stesso si è cercati, la invoca, se ne fa un ausilio, le
rinnova perpetuamente l’illusione ch’ella conti qualcosa e possa dir
la sua, e perpetuamente chiude l’orecchio ad ogni consiglio. Tale è
il destino di Perpetua, tale in altre evenienze era stato prima
ch’ella raggiungesse "l’età sinodale", tale è nella sua morte
ingloriosa cui nessuno dà qualche attenzione. La strana coerenza
dello sviluppo di questo personaggio ubbidisce ad una legge di
disinganno - mai contraddetta e impressionantemente conclusa. Ella
è, sì, una risibile mediocre figura, ma è anche una seria immagine
di sottinteso sacrificio. Povero essere che visse del suo ristretto
gusto chiacchierone e che fa chiacchierare pettegolamente chi, lei
viva, non avrebbe osato tanto. Qualsiasi compianto dell’autore
sarebbe riuscito stonata retorica, ma a chi ben osservi, da quella
insoddisfazione della di lei vita, da quel suo silenzioso andarsene,
si leva un senso di pietà, un trasporto di simpatia, che senz’altro
commuovono, liricamente commuovono: è commozione non cercata, frutto
della verità artistica del personaggio. La donnetta capace di usar
parolacce, atta a certi duri richiami, assume qualche morbidezza,
senza farsi patetica esce dal significato della mezza figura, per
partecipare a taciti accenti più vasti. In questo mondo di umili,
cui il Manzoni diede tanta vita Perpetua rimane la serva - e tale
deve rimanere - ma anche un’anima soffocata, cioè oltre l’abito, una
povera creatura dalle inappagate - sia pur modeste- aspirazioni
umane.
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