LETTERATURA ITALIANA: PROMESSI SPOSI

 

Luigi De Bellis

 


 

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PROMESSI SPOSI






LA "VERITA' SPIRITUALE" DI PERPETUA
a cura di
Reto Roedel

Tra i personaggi "minori" del romanzo, Perpetua ha acquistato tale popolarità che il suo nome, divenuto da proprio comune (secondo la figura retorica dell’antonomasia, per cui vd. n. 1), designa ormai familiarmente la domestica di un sacerdote. La complementarità di Perpetua, risoluta e, a suo modo, coraggiosa, rispetto a don Abbondio pavido e dubbioso, fu già sottolineata dal De Sanctis, quando scriveva che "I’uomo pauroso ha bisogno del suo due, di qualcuno, cioè, che l’incoraggi; e il due di don Abbondio era Perpetua, tipo che voi potete trovare benissimo, e nelle case di preti vedete sotto forma di governanti queste "viragini", forti di corpo, goffe, di buon cuore, che avendo della confidenza col padrone s’immedesimano con lui, e dicono: - Noi, la casa nostra; - e quando voi trovate che queste persone hanno buon cuore ed una stima sentita per il padrone, allora comprendete tutta l’importanza del grido di don Abbondio: - Perpetua!". Dopo De Sanctis, che vedeva, dunque, nella donna "il contrapposto poetico di don Abbondio", l’attenzione dei critici nei confronti del personaggio è stata piuttosto casuale: basterà ricordare il Donadoni che la considera, insieme ad Agnese, donna "piena del senso della realtà, ricca di accorgimenti, vigilante di una sua filosofia tra di pessimismo e di storicismo volgare" e il Russo che, nel corso del suo commento al romanzo, si sofferma sulla "retorica plebea, un po’ teatrale" della fantesca. Le pagine che seguono - nelle quali si mette persuasivamente in risalto il destino della donna, "anima soffocata" - sono tratte dal saggio La fedeltà di Perpetua, raccolto in Note manzoniane (1934) di Reto Roedel, svizzero di origine grigionese, docente universitario e critico d’arte e di letteratura, nonché autore di teatro e narratore.

La "verità spirituale" di Perpetua

Perpetua è soltanto la serva di don Abbondio, e come tale non è investita di nessun ministero. Perpetua, serva di mediocre scaltrezza e di assennata devozione, negli Sposi promessi [= Fermo e Lucia] - dove portava il nome di Vittoria - era chiamata addirittura "la buona". Eppure là, dove era alquanto più impacciata, sapeva anche servirsi dell’astuzia di una bigottona falsa, tanto che "fece una voce da piangere" quando volle che il padrone rivelasse il suo gran segreto. Nei Promessi sposi, per quello stesso scopo, si limita alla più semplice e più abile "voce commossa e da commuovere" [cap. 1]. Ma nei Promessi sposi l’aggettivo "buona" è scomparso (in questo punto: ritorna in altra forma più oltre), forse perché sapeva di una certa tenerezza dichiarata, forse perché al giudizio sul personaggio deve arrivare il lettore. E al giudizio benigno il lettore giunge, a dispetto dei torti e dei "mancamenti" di Perpetua, grazie a certe sue doti di schiettezza e a un suo giusto senso di devozione, meglio ancora, grazie alla sua interezza di creatura costituita in una forma equilibrata fra difetti e virtù: "serva affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo l’occasione, tollerare a tempo il brontolio e le fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerar le proprie, che divenivan di giorno n giorno più frequenti" [cap. 1]. Fin dal suo primo presentarsi, si rivela intera la Perpetua per antonomasia. Vedetela quando, volendo far parlare il povero don Abbondio che trema per le intimazioni dei bravi, riempie il bicchiere del padrone e lo tiene "in mano come se non volesse darlo che in premio della confidenza che si faceva tanto aspettare"; vedetela quando imperatoria e monumentale si mette "ritta dinanzi a lui, con le mani arrovesciate sui fianchi, e le gomita appuntate davanti, guardando fisso, quasi volesse succhiargli dagli occhi il segreto"; sentitela quando con trascendentale franchezza afferma "Lei sa bene che, ogni volta che m’ha detto qualche cosa sinceramente, in confidenza, io non ho mai..."; notate come è imponentemente pronta a proferire "un nuovo e più solenne giuramento". Tutto sembra contribuire a far di lei una creatura spassosa sì, ma dalla quale diffidare. E invece, quando afferma al suo padrone, sia pure "con voce commossa e da commuovere", di essergli "sempre stata affezionata", dice una sua profonda verità. Quando dà il suo "povero parere", lei serva al curato, colpisce nel segno, e ce ne produrrà testimonianza niente meno che il cardinale Federigo [cap. XXVI]. Possiamo contemplarla sicuri intanto che i termini contrari della sua natura non costituiscono in lei dei compromessi, ma indicano che la di lei piccola individualità ha una sua vastità umana.Si veda l’accorta e saccente Perpetua, quando casca nella rete che Renzo le tende per farla cantare [cap. II]. Ci casca facilmente, ci vuoi cascare perché il bisogno di certe ciarlate è in lei molto esigente: ma come ci casca? Negli Sposi promessi Perpetua pronunciava certe parole "come si usa quando non si vuoi essere creduto" e di questa sua impertinente astuzia non v’è più traccia nei Promessi sposi. Là, l’intera seconda metà del dialogo era rimasta avvolta dall’ombra insidiosa di un grave giudizio: "fedele ai suoi giuramenti non disse nulla positivamente, ma trovò un modo per combinare il rigore dei suoi doveri colla voglia di parlare". Nel testo definitivo, Perpetua dice quanto crede di poter dire, e nella sua semplicioneria, l’intimo gusto di far vedere che sa, è più franco, non ubbidiente ad un calcolo ma ad un intimo impulso. Il dialogo è svolto dalla prima all’ultima parola, con appena qualche sospensione. C’è una certa franchezza in questa figura di mezzo calibro. Però, nella precipitazione delle sue parole, Perpetua è facile a compromettere non soltanto gli altri, ma persino la sua assodata fama di saggezza: se può gloriarsi d’aver dato a don Abbondio dei suggerimenti che poi lo stesso cardinale Federigo avallerà, qui, quando dice che il suo padrone "non ci ha colpa" e che "se pecca è per troppa bontà", pronuncia giudizi che non troverebbero più un’approvazione superiore. Ma, poverina, a lei, chi non li perdonerebbe? E, non ostante i suoi difetti, chi vorrebbe negare ch’ella sia in essi sincera? Inavveduta sì, ma sempre pronta ad una sua schietta generosità, è Perpetua: e qui appunto per impulso di generosità e di schiettezza ella difende, anche troppo, il suo curato. Infatti, dopo il compromettente colloquio, come ricomparisce davanti al padrone che è stato gettato in maggiore imbroglio? "con la faccia tosta, come se nulla fosse stato"; e quando il misero l’accusa, lei si difende, non si "scusa" come le avveniva negli Sposi promessi, se mai si "conduole". Condolersi: il verbo che associa nel duolo lei e don Abbondio è pieno di incomparabile efficacia; ma non è soltanto umoristico, è anche vero. Per tale verità, Perpetua non è unicamente la figura caratteristica che si suoi definire col nome di macchietta 0 con altri del genere. Accanto alla burlevole-drammatica figura di don Abbondio, questa donna dai gravi difetti, che gli è sempre vicina e che ne subisce in parte le vicende, riesce ad emergere con una sua verità spirituale piccina ma in tutto adeguata alla sua statura, testimoniante un’effettiva bontà, sufficiente a far bello il personaggio che non ha grandi "obblighi" cui soddisfare, al quale anzi è gioioso perdonare qualche "mancamento". Meschina figura, ma che respira più liberamente di quella del curato legato a un ministero, assai modesta ma pur vista in tutta la sua possibile vastità vitale [...]. A guardarla nell’assieme, Perpetua è una figura che può dare tristezza. Destinata a far ridere nei singoli episodi, è di volta in volta scornata, e in tutta l’esistenza sacrificata. Morirà di peste, e don Abbondio che si era tormentato con lei, ma che aveva anche goduto delle di lei costanti cure, quando la ricorderà, lo farà per burlarsene una volta ancora: "Ha proprio fatto uno sproposito Perpetua a morire ora; ché questo era il momento che trovava l’avventore anche lei" [cap. XXXVIII].Certo Perpetua è legata nella creazione artistica a don Abbondio, e ciò significa non poco: ciò conferisce una grande coerenza a quel suo destino di insoddisfatta e incompresa e tuttavia smaniosa di dir la sua. Ella s’avvede - non ci voleva molto - delle deficienze del padrone, è continuamente tentata di enunciarle e sottolinearle; ma il padrone è quel singolarissimo uomo che tutti sanno, uso a barcollare sotto i guai che in gran parte egli stesso si è cercati, la invoca, se ne fa un ausilio, le rinnova perpetuamente l’illusione ch’ella conti qualcosa e possa dir la sua, e perpetuamente chiude l’orecchio ad ogni consiglio. Tale è il destino di Perpetua, tale in altre evenienze era stato prima ch’ella raggiungesse "l’età sinodale", tale è nella sua morte ingloriosa cui nessuno dà qualche attenzione. La strana coerenza dello sviluppo di questo personaggio ubbidisce ad una legge di disinganno - mai contraddetta e impressionantemente conclusa. Ella è, sì, una risibile mediocre figura, ma è anche una seria immagine di sottinteso sacrificio. Povero essere che visse del suo ristretto gusto chiacchierone e che fa chiacchierare pettegolamente chi, lei viva, non avrebbe osato tanto. Qualsiasi compianto dell’autore sarebbe riuscito stonata retorica, ma a chi ben osservi, da quella insoddisfazione della di lei vita, da quel suo silenzioso andarsene, si leva un senso di pietà, un trasporto di simpatia, che senz’altro commuovono, liricamente commuovono: è commozione non cercata, frutto della verità artistica del personaggio. La donnetta capace di usar parolacce, atta a certi duri richiami, assume qualche morbidezza, senza farsi patetica esce dal significato della mezza figura, per partecipare a taciti accenti più vasti. In questo mondo di umili, cui il Manzoni diede tanta vita Perpetua rimane la serva - e tale deve rimanere - ma anche un’anima soffocata, cioè oltre l’abito, una povera creatura dalle inappagate - sia pur modeste- aspirazioni umane.


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