Poeta e narratore, Eurialo De Michelis
(1904-1990) come critico si è esercitato sulla letteratura italiana
e straniera dell’Otto e Novecento (dalla Deledda al Verga, da
Dostoevskij a D’Annunzio), ma le sue attenzioni si sono rivolte
soprattutto a Manzoni con Studi sul Manzoni del 1962 cui hanno fatto
seguito un ottimo commento al romanzo (1964) e la raccolta La
vergine e il drago (1968), donde sono tratte le pagine che seguono,
volte a mettere in evidenza le implicazioni drammatiche dei Promessi
sposi contro le interpretazioni "provvidenzialistiche" e a scoprire,
sul comune terreno del Pessimismo mondano’), significative analogie
fra l’atteggiamento di Manzoni e quello di Leopardi.
Pessimismo mondano e ottimismo provvidenziale nei "Promessi
sposi"
Amaro pessimismo rispetto alle cose del mondo, questo in sostanza
l’atteggiamento da cui muove di romanzo, e [...] mai ne deflette;
per questa parte, proprio nell’Adelchi, dove morendo sconfitto altra
consolazione il protagonista non sapeva porgere al padre e a se
stesso:
Godi che re non sei, godi che chiusaall’oprar t’è ogni via... |
E se qualcosa di men negativo poteva rivolgere il coro con disperata
dolcezza a quell’altra sconfitta, Ermengarda, immortalmente
travagliata dalle speranze terrene, era a prezzo di strappargliele:
fuor della vita è il termine del
lungo tuo martir;
|
cioè incorandola alla medesima abdicazione dalle cose di giù, a cui
era arrivato il Carmagnola nella tragedia precedente: quando sul
punto di muovere innocente al patibolo si vietava di tornare ancora
ad "affacciarsi alla vita", come cosa che il pensiero della morte,
nonché un suo gelido tocco, subito cancella. "Dov’è silenzio e
tenebre / la gloria che passò"; ma non soltanto la gloria, tutto
quanto qua giù è "silenzio e tenebre", il negativo, il nulla
assoluto, al confronto delle ragioni che costituiscono l’ultimo
approdo di Napoleone, come del Carmagnola, e di Ermengarda, di
Adelchi. Nessun modo dl fare unità del due mondi che reciprocamente
si elidono, il mondo della Storia il mondo di Dio, impensabile un
intervento provvidenziale che sani il contrasto fuorché abolendo con
uno dei due termini la necessità d’intervenire: trasportare nel
mondo di là tutti i valori, e in loro nome far leva contro il mondo
di qua [...]. Ripetiamo, bene sta accentrare il poeticamente vitale
dei Promessi sposi dalla parte del pessimismo di Adelchi; ma con
juicio, sennò sorgono dubbi. Per esempio: come nacque la vulgata
interpretazione del romanzo stucchevolmente ottimista? Oppure: com’è
che leggendo non si avverte la contrapposizione che dovrebbe
risultare, fra la zona del romanzo dove si afferma la pessimistica
considerazione del Vero storico dall’angolo visuale di Dio, e le
zone dove invece si afferma l’ottimismo intenzionale l’idealismo del
cuore? Nella diversità anzi contrasto degli atteggiamenti lì e costi
riscontrabili, quale dunque il principio motore che permette la loro
trascolorante unità? Unità del tono bensì, ma da nient’altro può
derivare, fuorché da un atteggiamento interiore che contenga gli
atteggiamenti fra loro nemici, e ne componga il dissidio.
Pressappoco negli anni del Carmagnola e dell’Adelchi, un altro dei
nostri grandissimi per cui la poesia fu un modo di cercare la
Verità, il Leopardi, ribellandosi in nome del nulla alla Natura che
gli teneva il posto di Dio, era arrivato anche lui a rifiutare la
Storia; testualmente nella Sera del dì di festa (1820):Tutto è pace
e silenzio, e tutto posa il mondo, e più di lor non si ragiona...
cancellato il fragorio "di que’ popoli antichi", tranne nell’eco che
si lascia dietro prima di spegnersi, e che soltanto perciò viene
dolorosamente seguita, perché eco e si spegne. Oppure, coincidenza
ancora più puntuale, rileggete del Leopardi il primo dei Pensieri
accolti postumi nell’edizione fiorentina delle Opere, 1845: "Dico
che il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini da bene,>,
ecc. Pari pari la sentenza messa in bocca a Renzo nel cap. XIV dei
Promessi sposi, circa il buon volere del re e di "quelli che
comandano" affinché "i birboni fossero gastigati; ma non se ne fa
nulla, perché c’è una lega"; sentenza sorridevole come l’esprime il
personaggio, non tanto però, che non contenga in succo tutta
l’esperienza del mondo sociale patita dal giovine inesausto a
credere, a voler la giustizia. Succo amaro anzitutto al Manzoni,
talché non è arbitrio rileggervi in filigrana il disperato
pessimismo di Adelchi morente:
... Una feroce
forza il mondo possiede, e fa nomarsi
dritto; |
consentaneo a sua volta con altri luoghi del Leopardi, per esempio
quei versi della Palinodia (1835):
Sempre il buono
in tristezza, il vile in festa sempre
e il ribaldo... |
Oppure, dello stesso Leopardi nello stesso Pensiero, vedete la
differenza segnata fra ciò che vi è d’inerme, di senza presa sui
terzi, anche nel coraggio dell’uomo da bene, in confronto a un
birbante anche pauroso: "perché le vie dell’uomo coraggioso e da
bene sono conosciute e semplici, quelle del ribaldo sono occulte e
infinitamente varie". Che richiama la malfidata sospensione di don
Abbondio, nel cap. XXIV dei Promessi sposi, fra le benefiche
disposizioni del cardinale arcivesco in pro di Lucia, e la rabbia
vendicativa che ne conseguirà in don Rodrigo deluso: "Quelli che
fanno il bene, lo fanno all’ingrosso (...); ma coloro che hanno quel
gusto di fare il male, ci mettono più diligenza, ci stanno dietro
fino alla fine, non prendon mai requie", ecc. Luoghi topici del
romanzo, espliciti nella direzione indicata, tanto fermo si appunta
lo sguardo del Manzoni a cogliere ciò che di negativo s’impasta
nell’uomo a farlo uomo. "Che carattere singolare, eh?, tale il
commento agrodolce sull’oste del cap. VII, amico a parole dei
galantuomini, dei birboni in atto pratico; e nel cap. XXIV, in tali
termini la bonaria Agnese scusa il comportamento di don Abbondio
dopo essersene sfogata col cardinale: "non lo gridi, perché già quel
che è stato è stato; e poi non serve a nulla: è un uomo fatto così:
tornando il caso, farebbe lo stesso". Cioè, senza accorgersi di
affermarlo chiuso irrimediabilmente alla voce di Dio, cioè senza
forza per raggiungerlo la voce di Dio. Più sottilmente disperato e
disperante sulla natura dell’uomo ricordate nel cap. X il "così
fatto è questo guazzabuglio del cuore umano", a proposito della
"tenerezza in gran parte sincera" che prova il principe verso la
figlia Gertrude nell’atto stesso che trionfa di averla moralmente
costretta a collaborare con lui per sacrificarla; e nel cap. XXV, a
proposito dei paesani che si offrono a proteggere Lucia e Agnese,
adesso che le assiste la presenza del cardinale, quel proverbio
perfino acre a forza di amaro, in aspetto di arguzia: "volete aver
molti in aiuto? cercate di non averne bisogno,>. Ovvero lì stesso, a
proposito dell’indignazione di coloro contro don Rodrigo, intera
solo quando il tiranno è sconfitto: "... perché gli uomini,
generalmente parlando, quando l’indegnazione non si possa sfogare
senza grave pericolo, non solo dimostran meno, o tengono affatto in
se quella che sentono, ma ne senton meno in effetto". Una sentenza,
che spinge ben addentro il pessimismo mondano del Manzoni più in là
di dove i don Abbondio dànno ragione alla forza sapendo che "non si
tratta di torto o di ragione; si tratta di forza" (cap. Il); lo
spinge dove, a loro insaputa, chinando il capo a subirla,
l’accettano almeno in parte come ragione. E quanto ai tradimenti
perpetrati contro il Vangelo: "una sapienza così antica, e sempre
nuova", commenterà l’autore nel cap. V alla sentenza
dell’Azzecca-garbugli, che altro vale predicato sul pulpito, altro
si applica nelle dispute cavalleresche; cioè mettendo in rilievo, in
quel caso non più di oggi, una blasfema condotta che è di allora e
di sempre. Infine, dal recinto della coscienza a tu per tu con se
stessa, uscendo di nuovo alla vita di relazione con gli altri,
potrebbe bastare il commento, endemico 2 in tutto il romanzo,
esplicito nel cap. VIII a proposito di don Abbondio oppressore in
veste di vittima, e Renzo vittima m veste di oppressore: "Così va
spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo decimo
settimo". Più stringente dove il romanzo si costruisce come storia
di signori e di poveri, il "Mala cosa nascer povero>, di Perpetua a
Renzo nel cap. 11; che anch’esso affiora molte volte più o meno
variato nel corso del romanzo. In bocca all’oste del cap. XV,
arrovellato contro Renzo, in realtà contro se stesso che soggiace a
collaborare coi birri per perderlo: "Lo so anch’io che ci son delle
gride che non contan nulla (...). Ma tu non sai che le gride contro
gli osti contano"; l’impaurito don Abbondio nel cap. XXIV: "I colpi
cascano sempre all’ingiù; i cenci vanno all’aria"; Agnese nello
stesso capitolo: "I poveri, ci vuoi poco a farli comparir birboni",
a cui il cardinale consente: "È vero pur troppo ".Nella situazione
narrativa propria del romanzo, sono tutti sviluppi deducibili dal
pessimismo che suggerì al Leopardi il Pensiero citato di sopra. Non
basta ancora; più in là della zona dove l’uomo si arrabatta con la
sua coscienza e col prossimo, ricordate la frase di Tonio appestato,
nel cap. XXXIII: "A chi la tocca, la tocca", ermetica di cupa
sfiducia in nessuna Provvidenza regolatrice delle cose del mondo,
che non sia quella che nel Bruto minore (1821) fu detta "la ferrata
/ necessità", e il "cieco / dispensator de’ casi" nell’Ultimo canto
di Saffo (1822):
.. i destinati eventi
move arcano consiglio. Arcano è tutto,
fuor che il nostro dolor...
|
Coincidenze innegabili, da sorprendere a primo colpo chi sia solito
mettere ai poli opposti il credente Manzoni, l’ateo Leopardi; uniti
invece, come nel pessimismo mondano (anche il Manzoni), così
nell’energia moralmente attiva che ne porge la spinta (anche al
Leopardi), trattenendoli "dall’abbandonarsi alla provvisoria euforia
delle illimitate speranze, alla commovente ma anche sprovveduta e
ben presto disarmata fiducia nelle magnifiche sorti progressive".
Son parole di un altro studioso recente, Lanfranco Caretti, che per
codesta via dichiara il senso positivo che assume l’esperienza
religiosa del Manzoni perché non chiusa "nell’accettazione
rassegnata delle contraddizioni e del male del mondo"; e sembrerebbe
contraddire le deduzioni dei sopra citati, se non si trattasse di
una positività, diciamo così teleologica, che lascia sussistere il
suo contrario, anzi proprio nel suo contrario si attua. Precisamente
come nell’ateo Leopardi. Tuttavia, indipendentemente dalla carica
attiva che un tale pessimismo contiene nell’uno e nell’altro, e
tenendoci sul piano dove pessimismo si afferma, balza agli occhi che
l’autore dell’Adelchi è quasi a un parto l’autore della Pentecoste,
in cui, testimoniata dalla Storia, la Chiesa è storia pur essa; lì
la molla per cui nella Pentecoste le antinomie drammatiche
dell’Adelchi si ricomponevano in unità, addirittura trionfale nello
slancio di preghiera in cui culmina l’inno. In altre parole: il
Manzoni non dice di no al mondo in nome del nulla, come il Leopardi,
lo dice in nome di Dio, ferma realtà che sta oltre quella fuggevole
del mondo nemico, però come un Assoluto che in tanto è Assoluto, in
quanto già nel mondo che lo nega vige nascosto. Tale e non altro il
fondamento su cui poggia l’universo lirico-ideologico del Manzoni; e
certo, il suo pessimismo mondano non resta meno pessimismo perché si
sublimi di abdicazione in Dio, e fra le lacrime del mondo di qua
trovi forza di affisarsi nel mondo di là, dove non avran più luogo
le lacrime. La provvidenza è Provvidenza anche se, nelle vicende
terrene, sembri non curare i "poveri tribolati"; come dice Lucia con
strenua logica nel cap. XXXVI, a proposito della sorte riserbata da
Dio a don Rodrigo: "S’io fossi morta quella notte, non gli avrebbe
dunque potuto perdonare?" Religiosità "tragica e apocalittica",
definisce il Bàrberi-Squarotti. Sennonché, codesta fede eroica e
quasi disumana, dopo averla contemplata con occhi fermi nella folta
parte del romanzo dove trionfa il male, il Manzoni fa come se la
chiudesse in fondo a se stesso; e negli umili personaggi della
favola indulge a un senso della Provvidenza quasi in misura umana,
adatta al debole cuore che ama consolarsi di una Provvidenza, che ci
sia materna anche qua giù, nelle traversie della vita [...].Nascono
così i luoghi del romanzo che abbiamo detto, dove i guai non
infierisco no contro Renzo e Lucia, senza svoltare in un modo o
nell’altro a buon esito, concludendo tutto per il meglio. La
Provvidenza, di diretta assistenza ai suoi buoni, come il cuore
vorrebbe, conduce questa parte del romanzo, il quale perciò poté
assumerne aspetto di un manuale di edificazione religiosa, ben altra
cosa dal poema religioso che è e anche chi, come il Momigliano, non
patì mai dubbi ad ammirarvi un’opera di alta poesia anziché di
oratoria (così si disse), cioè di parenesi chiesastica, definirlo "I’epopea
della Provvidenza". [...]Materna Provvidenza, in verità poco atta a
metter pace in quel tormentato esaminatore di codesti problemi che è
il credente Manzoni; il cui animo in proprio, anche sotto il
molteplice impasto di pensieri l’uno nell’altro sfumati, che forma
il non so che divino dei Promessi sposi, non saprebbe non
riconoscersi nelle parole con cui nel Fermo e Lucia, tomo IV, cap.
IX, scioglieva le ultime difficoltà dei protagonisti come vendere i
loro beni in quel di Lecco prima di emigrare nel Bergamasco: "... ma
la fortuna - non osiamo dire la provvidenza - la fortuna che voleva
favorirli in tutto, come uno scrittore che voglia terminar
lietamente una storia inventata per ozio, trovò un ripiego anche a
questo". Insomma, poco s’intende del romanzo, a non tenere ben fermo
che la sua impostazione ottimistica, dove la fortuna non è fortuna
ma Provvidenza, se sicuramente vi opera non soltanto nella struttura
esterna, non ismentisce l’opposta, a cui accanto convive; la quale è
di peso tanto maggiore a stabilire il tono che risulta dalla
mistione dei due, in quanto la parte ottimistica è favola: "una
storia inventata per ozio", l’altra invece, dove più apocalittica, è
materiata di Storia. La Storia, il Vero, sempre oggetto di serissima
e quasi affascinata meditazione da parte del Manzoni, non ai
margini, nel centro più centro del suo universo poetico. Così, sarà
il ragazzesco Renzo, in chiusa del romanzo, cap. XXXVIII,
ricapitolando i tanti guai passati, a proiettarli sullo schermo di
un’idea del mondo in tutto fiduciosa e ottimistica [...].Più
attinente all’immediato contesto, nell’idea fiduciosa del mondo che
spira dalla ricapitolazione che fa Renzo, non di questo o quel
guaio, ma di tutti i possibili avvenire alla luce dei passati, basti
a noi individuare l’idea di provvidenza da cui arretrava il Manzoni
nel luogo citato del Fermo e Lucia, e preferiva dire fortuna, una
Provvidenza che assiste i buoni figliuoli anche nel mondo, per lo
meno entro i limiti che all’uomo di abitudini temperate,
travalicarle una volta (si legge nel cap. XIV) "gli serve di scola".
È la più fine, meditativa Lucia a spingere lo sguardo oltre i limiti
dove l’esperienza di Renzo rimane pur vera: "non che trovasse la
dottrina falsa in se, ma non n’era soddisfatta; le pareva, così in
confuso, che ci mancasse qualcosa". Moglie affettuosa, e creatura
semplice anche lei, non teologa ex cathedra è, ella suggella la sua
obiezione "soavemente sorridendo"; un sorriso che dice più
dell’affetto al marito, dice la non passiva sommessione a Dio,
carattere costante del personaggio. Ma nella sua obiezione, in cui
sono rievocati i guai che vennero non provocati a cercarla, si
esprime niente più e niente meno, in persona propria e nient’affatto
per antìfrasi, il pessimismo mondano che fece dramma l’idillio
all’ombra di Santa Madre Chiesa, che poteva essere il romanzo: i
guai vengono anche agl’innocenti e pii, senza fine visibile oltre la
pena che dànno.E sì, la conclusione trovata insieme da marito e
moglie dopo lungo dibattere risolve provvidenzialmente entrambi i
casi: i guai a cui si è data cagione, mercé la teoria
dell’ammaestramento trovata da Renzo, e quelli a cui non si è data
cagione, mercé "la fiducia in Dio" la quale "li addolcisce, e li
rende utili per una vita migliore". Ma che cosa significa la seconda
parte della conclusione? Significa il rifiuto di fare condizione
della fede una Provvidenza che agisca anche nel mondo sollecita dei
poveri tribolati, e senza chiedere il perché del male che vi
trionfa, aiutarsi a sopportarlo col guardare più in là di quel
trionfo blasfemo.