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DONNA PRASSEDE, "CARICATURA
DELLA PRATICA CRISTIANA" a cura di autori vari
Il benpensante è, in potenza, il più pericoloso
dei fanatici; la strettezza dei suoi principi è in ragione inversa
della grandezza della sua sicumera ; guai se questa sicumèra s’arma
contro un nemico o milita per un protetto! Ne vien fuori la
caricatura più assurda della pratica cristiana; ne vien fuori donna
Prassede. L’accanimento minuzioso con cui negli Sposi promessi [=
Fermo e Lucia] il Manzoni descrive questo esemplare del moralismo
bigotto fa pensare che egli o avesse dinanzi un modello da ritrarre
"dal vero" o si attardasse in una sorta di polemica mentale diretta
allo smascheramento del tipo. Donna Prassede, specie nella prima
redazione del romanzo, si potrebbe dire il campione della morale
cattolica alla Sismondi; pare che il Manzoni abbia raccolto
deliberatamente nella figura di lei tutte le magagne che il suo
avversario e, con lui, la maggior parte degli avversari del
cattolicesimo, credeva di notare nella mentalità e nella morale
cattoliche; ignoranza, grettezza, cocciutaggine, intolleranza,
inframmettenza, presunzione.
"Il suo ingegno, a dir vero, non era niente straordinario, ed essa
non si era mai data una gran briga di coltivarlo, almeno nei libri.
Ma siccome la mente umana non può vivere senza idee, così donna
Prassede aveva le sue, e si governava con esse, come dicono che si
dovrebbe fare cogli amici. Ne aveva poche, ma quelle poche le amava
cordialmente, e si fidava in esse interamente, e non le avrebbe
cangiate ad istigazione di nessuno... Donna Prassede profondeva
pareri e correzioni a quelli che volevano, e ancor più a quelli che
dovevano sentirla: e per quanto dipendeva da lei non avrebbe
lasciato deviare nessuno d’un punto della via retta. Perché, a dire
il vero, questa smania di dominio non nasceva in lei da alcuna vista
interessata: era proprio il desiderio del bene; ma il bene ella lo
intendeva a modo suo, lo discerneva istantaneamente in qualunque
alternativa, in qualunque complicazione di casi le si fosse
affacciata da esaminare: e, quando una volta aveva veduto e detto
che quello era il bene, non era possibile ch’ella cangiasse di
parere; e per farlo riuscire predicava ed operava fintanto che
avesse ottenuto l’intento o la cosa fosse divenuta impossibile; nel
qual caso non lasciava di predicare per convincere tutti che avrebbe
dovuto riuscire" [III, 9].
In un certo senso donna Prassede è agli antipodi dell’esaminatore di
Gertrude; questi, nell’avventatezza della sua santimonia presuppone
l’esistenza di ciò di cui dovrebbe invece stabilire se esista o no;
quella, al contrario, ha una specie di ossessione delle cause e dei
principi; non accetta ciò che è dato - e sia pur un dato fornitole
da Federigo Borromeo! Ancora: quel "buon uomo" a furia di "pensar
bene prima di pensare" lasciava mano libera al male, che è prudente
e sa fare tutti i suoi calcoli; donna Prassede, invece, tenendo "per
regola generale che a voler far del bene, bisogna pensar male",
esercita una pseudo-carità balordamente raziocinante, sicura di
detenere il monopolio di tutte le buone azioni, mentre tutto il suo
macchinare in presunto favor del prossimo non è che una maschera
della sua voglia di dominare sugli altri. La caduta sotto le grinfie
d’una simile protettrice è una delle stazioni del calvario di Lucia.
Le persone come donna Prassede non credono mai all’innocenza, ed
hanno un’idea così meschina della giustizia di Dio, che la pensano
come una piccola contabilità commerciale dove il dare e l’avere
quadrano sempre in bilancio. Lucia, dunque, deve aver qualche pecca
anche lei se le è cascata addosso tanta ira di Dio. Donna Prassede
le affibbia un cervello balzano e subito si pone all’opera per
emendarglielo, cioè fa di tutto per strappare dall’animo di Lucia
l’affetto per il fidanzato; risalire alle cause bisogna, non
contentarsi di rimediare agli effetti, come aveva fatto il cardinale
Federigo, "il quale era a dir vero un degno prelato, un uomo del
Signore, dotto anche sui libri, ma quanto ad esperienza di mondo, a
discernimento di persone, non ne aveva molto" [III, 9]. Così donna
Prassede s’assume il glorioso compito di correggere l’opera del
cardinale Borromeo, e, sicura della santità del fine, non sta tanto
a sottilizzare sui mezzi: incarica la sua fedele Ghita alle cui
"cure" Lucia era particolarmente affidata di esercitare su di lei
una sorveglianza da poliziotto o da carceriere, non sdegnando alcun
sistema di accertamento; compreso, ad esempio, quello "di frugare
quando lo poteva senza esser scoperta, nelle tasche di Lucia per
vedere se mai ella ricevesse qualche lettera". È una piccola
inquisizione prassediana che ha i suoi bravi metodi sacramentali:
sorveglianza, repressione, ma anche persuasione. Ella cerca infatti
di indurre Lucia a dimenticare il suo promesso, a togliersi questo
vano affetto dal cuore, per consacrarsi a Dio in un chiostro. È uno
stillicidio di propaganda, in cui entra in ugual misura quella
contro Fermo e quella in pro della vita monacale, e a cui Lucia
resiste mettendo a dura prova cuore, testa e nervi, grazie alla
refrattarietà del suo spirito sano e semplice. Così sano che, con
tutta la sua sensibilità alla riconoscenza, Lucia - e qui bisogna
sorridere, tanto conversativi sono qui l’ironia, il buon umore della
trovata- "pregava caldamente che queste prove d’interessamento le
fossero risparmiate". Ma il tentativo di fare della promessa sposa
una monaca definisce meglio che mai il tipo di donna Prassede nel
senso, che ho detto prima, di esempio trovato a bella posta di
svisamento caricaturale della morale cattolica; infatti la taccia di
volontà negatrice della vita e dell’amore, di invito e adescamento
alla rinunzia non è fra le ultime che si rivolgano dai non cattolici
ai cattolici, e in verità corrisponde a una spesso malintesa
tendenza rigoristica dello spirito religioso. È, questa, la cattiva
leggenda, il mito deformatore o, se vogliamo ripetere l’espressione
del Manzoni nella sua prefazione alla Morale cattolica,
l’interpretazione "alla rovescia" di quella morale stessa.Per una
condotta di questo genere è difficile sentire e mostrare tanto
aborrimento quanto ne ha sentito e mostrato il Manzoni. "La brava
signora, per toglier Fermo dall’animo di Lucia...": la brava
signora: può essere che c’inganniamo, che esageriamo; ma noi
sentiamo in questa "brava signora" la stessa sferzata di sdegno e di
disprezzo che ognuno sente nell’Onesto Jago" shakespeariano. E non
importa se, più oltre, traducendosi troppo male, il Manzoni chiama
donna Prassede, "la grossolana signora". Poi, nei Promessi sposi, la
violenza, come avviene nella maggior parte dei casi, s’addolcisce;
dove là era condanna e sofferenza, come di chi è esacerbato dallo
svisamento e dall’avvilimento di una fede ch’egli pone tanto in
alto, qui è la temperanza dell’ironia, in cui il Manzoni diventa -
direbbe Goethe- tutto sano, superando perfino il proprio giustissimo
risentimento. Ma la condanna di donna Prassede è pronunciata anche
nei Promessi sposi, ed è, a nostro parere, condanna totale. Suona
per chi l’intenda, nello stesso epitafio: "Di donna Prassede, quando
si dice ch’era morta, è detto tutto" [cap. XXXVII]. È detto tutto:
morte. Ben morta.
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