Italo Calvino (1923-1985) non è stato soltanto
uno dei maggiori narratori del secondo Novecento - basterà
ricordare, lungo il suo itinerario dal realismo alla letteratura
fantastica, Il sentiero dei nidi di ragno (1947), la trilogia
"araldica" (1952-1959) o Le cosmicomiche (1965) o il libro per
ragazzi Marcovaldo (1963) - ma anche un critico attentissimo al
dibattito culturale del dopoguerra. Le pagine che seguono - sul tema
della rappresentazione del "potere" nei Promessi sposi - lette al
Convegno manzoniano di Nimega del 1974, sono state successivamente
pubblicate nella raccolta di saggi Una pietra sopra del 1980.
Il romanzo dei rapporti di forza
Attorno a Renzo e Lucia e al loro contrastato matrimonio le forze in
gioco si dispongono in una figura triangolare, che ha per vertici
tre autorità: il potere sociale, il falso potere spirituale e il
potere spirituale vero. Due di queste forze sono avverse e una
propizia: il potere sociale è sempre avverso, la Chiesa si divide in
buona e cattiva Chiesa, e l’una s’adopera a sventare gli ostacoli
frapposti dall’altra. Questa figura triangolare si presenta due
volte sostanzialmente identica: nella prima parte del romanzo con
don Rodrigo, don Abbondio e fra Cristoforo, nella seconda con
l’innominato, la monaca di Monza e il cardinal Federigo.Estrarre uno
schema geometrico da un libro tanto modulato e complesso non è una
forzatura: mai romanzo fu calcolato con tanta esattezza come I
promessi sposi; ogni effetto poetico e ideologico è regolato da
un’orologeria predeterminata ma essenziale, da diagrammi di forze
ben equilibrati. Certo la qualità manzoniana del romanzo è data non
tanto dallo scheletro quanto dalla polpa, e lo stesso scheletro
avrebbe potuto servire a un libro tutto diverso, per esempio a un
romanzo nero: gli ingredienti e i personaggi per metter su
addirittura un Sade, a base di castelli dei supplizi e conventi
perversi, ci sarebbero stati, se Manzoni non fosse stato allergico
alla rappresentazione del male. Ma appunto per dare a Manzoni l’agio
di far entrare nel romanzo tutto quel che gli sta a cuore di dire e
di lasciare in ombra tutto quel che preferisce tacere, bisogna che
l’ossatura sia assolutamente funzionale; e non esiste racconto più
funzionale della fiaba in cui c’è un obiettivo da raggiungere
malgrado gli ostacoli frapposti da personaggi oppositori e mediante
il soccorso di personaggi aiutanti, e l’eroe o l’eroina non hanno
altro da pensare che a fare le cose giuste e ad astenersi dalle cose
sbagliate: come appunto il povero Renzo e la povera Lucia. Nei due
triangoli, una somiglianza un po’ ripetitiva e generica lega don
Rodrigo e l’innommato, e lo stesso o quasi si può dire per fra
Cristoforo e Federigo. Mentre è nel terzo vertice, quello del falso
potere spirituale, che avviene uno stacco netto: don Abbondio e
Gertrude sono personaggi così diversi e autonomi da comandare al
tono generale della narrazione intorno a loro, commedia di caratteri
là dove don Abbondio è al centro del quadro, dramma di coscienze là
dove domina Gertrude. (Possiamo anche considerare I promessi sposi
come un poliromanzo in cui vari romanzi si susseguono e
s’incrociano, e il romanzo di don Abbondio e quello di Gertrude non
sono che i primi e i più compiuti). È chiaro che delle tre forze in
gioco del suo triangolo, quella che Manzoni conosce meglio, o
diciamo quella che esprime meglio il fondo settecentesco della sua
cultura e del suo gusto, è la cattiva Chiesa. La Chiesa buona,
malgrado l’ampio posto che nel romanzo occupano Cristoforo e
Federigo, resta una presenza funzionale ma esterna. Ancora attorno a
Cristoforo si muove quella complessità dei rapporti di forze che è
una delle grandi dimensioni manzoniane: la posizione dell’ordine dei
cappuccini, sospesa tra l’autonomia dal sistema e l’esserne parte
necessaria, per via dell’immunità dei conventi, preziosa agli uni e
agli altri (come già fu preziosa all’ex prepotente Cristoforo) e che
rende i frati ben visti anche tra i bravi. Invece, per Federigo,
nonostante il personaggio storico presentato in tutto il suo
contesto, è solo la predeterminazione romanzesca che muove sia lui
che il suo temuto penitente. Nel famoso episodio della conversione i
giochi sono fatti fin dall’entrata in scena dei personaggi, e non
resta margine per la diversione o per lo scacco: l’innominato già
dal primo momento mostra "se non rimorso, una cert’uggia delle sue
scelleratezze", e il cardinale è così sicuro del suo potere sulle
anime che quando gli annunciano la visita del tristo cavaliere pensa
subito alla pecorella smarrita e non a una mossa formale di
convenienza politica. Anche quello del tiranno resta un ruolo di
repertorio. Tra don Rodrigo e l’innominato prima della conversione
non c’è una differenza se non quantitativa, il secondo gode di più
autorità e impunità del primo (non sappiamo bene perché) e d’una
fama più sinistra (ma anche delle sue scelleratezze poco sappiamo),
il suo "castellaccio" ripete con coloritura più fosca la funzione
scenografica del "palazzotto" di don Rodrigo ("castellotto" in Fermo
e Lucia). Chi siano esattamente don Rodrigo e l’innominato non è
chiaro: e non solo come caratteri psicologici ma neppure come
posizione sociale. Manzoni che è sempre preciso nel delineare le
gerarchie, la distribuzione dei poteri, nella Chiesa e negli organi
politici, centrali e periferici, - castellano spagnolo, podestà,
console, - quando tocca il diritto feudale propriamente detto
diventa d’un’insolita reticenza: che don Rodrigo sia il feudatario
dei luoghi è presumibile ma non è mai detto; sappiamo solo che si fa
forte dell’autorità politica del <<conte zio", e che dopo la sua
morte il palazzo viene ereditato da un marchese; quanto
all’innominato nel Fermo e Lucia figura col titolo di conte, ma è
soprattutto come un fuorilegge, un brigante che Manzoni cerca di
farlo apparire, piuttosto che come il titolare d’una giurisdizione
feudale col diritto di riscuotere tributi ed esigere corvées!. È
come se nella coscienza del Manzoni, attentissima a tutte le
strutture istituzionali, proprio le regolari istituzioni feudali,
fondamento di tutto il meccanismo del potere del romanzo, venissero
nascoste da un meccanismo d’autocensura.In realtà stabilire delle
regole interne ai Promessi sposi è difficile: Manzoni sposta
continuamente il fuoco delle lenti del suo cannocchiale. Una volta
sicuro che nelle grandi linee il suo macchinario romanzesco e
concettuale funziona, egli compie un lavoro d’aggiustamento per
mettere a fuoco i vari personaggi e i vari aspetti, adattando a
ognuno un’illuminazione diversa, più contrastata o più sfumata. La
sua tecnica di ritrattista procede per approssimazioni successive
nelle varie stesure del romanzo, e non è detto che l’ultima sia
migliore della prima [...].Quel che veramente sta a cuore a Manzoni
non sono tanto dei personaggi quanto delle forze, in atto nella
società e nell’esistenza, e i loro condizionamenti e contrasti. I
rapporti di forza sono il vero motore della sua narrazione, e il
nodo cruciale delle sue preoccupazioni morali e storiche. Nel
rappresentare i rapporti di forza, - fra Cristoforo in mezzo al
banchetto di don Rodrigo [cap. V], o la "libera elezione" dei voti
monacali di Gertrude [capp. IX-X], o il vicario di provvigione nella
carrozza di Ferrer tra la folla inferocita [cap. X111], - Manzoni ha
sempre la mano sicura e leggera, sa trovare il punto giusto al
millimetro. Non per niente I promessi sposi è il nostro libro
politico più letto, che ha dato forma alla vita politica italiana
secondo tutti i partiti, lettura in cui più d’ogni altro può
riconoscersi chi, facendo politica, si trova a commisurare giorno
per giorno un’idea generale alle condizioni obiettive. Ma anche
libro antipolitico per eccellenza che parte dalla convinzione che la
politica non può cambiare nulla, né con le leggi che pretendono di
mettere un freno al potere di fatto, né con l’affermazione d’una
forza collettiva da parte degli esclusi. Non che Manzoni conti delle
storie, anzi: è pur vero che le "gride" contro i bravi sono gli
Azzecca-garbugli che dovrebbero applicarle, è pur vero che a
mettersi tra la folla che dà l’assalto ai forni di Milano ci
s’imbatte sempre nella provocazione di un Ambrogio Fusella
sguinzagliato dal capitano di giustizia per acchiappare il solito
capro espiatorio [capì. XIV-XV]. Classico italiano anche in questo,
certo, che non ha mai smesso di modellare la realtà nella sua forma.
C’è nei Promessi sposi un romanzo "rivoluzionario" che fa capolino
ogni tanto tra le pieghe del romanzo "moderato": con la famosa
"riflessione" sui ruoli d’oppressore e di vittima in mezzo al "serra
serra " della "notte degli imbrogli " [cap. VIII], o con lo sfogo
che Renzo trova alla sua sete di giustizia personale nella sommossa
milanese contro il caropane [cap. XIV]. E se come romanzo
"rivoluzionario" questo è solo un romanzo d’occasioni mancate, anche
le occasioni del romanzo "moderato", per quanto più vistose, sono
ripetutamente lasciate cadere: la virtù di fra Cristoforo non tocca
il cuore di don Rodrigo e la conversione risolutrice, rinviata a più
alto livello con Federigo e l’innominato, non porta la soluzione
attesa ma segna solo una nuova tappa. Il romanzo "rivoluzionario"
d’una rivoluzione impossibile e il romanzo "moderato" d’una
conciliazione menzognera sarebbero altrettanto mistificatori.
Manzoni, che appartiene a un mondo segnato dal trauma della
Rivoluzione francese e che scrive sentendosi addosso la cappa di
piombo della Restaurazione, per dare una soluzione al suo romanzo
deve cercarla su un altro piano. È solo passando dall’orizzonte
degli individui a quello universale che può risolversi la vicenda
dei due fidanzati di Lecco. E quando ci accorgiamo che la parte
della Provvidenza è sostenuta dalla peste comprendiamo che il
discorso dell’ideologia politica spicciola è saltato in aria da un
pezzo. Le vere forze in gioco del romanzo si rivelano essere
cataclismi naturali e storici di lenta incubazione e conflagrazione
improvvisa, che sconvolgono il piccolo gioco dei rapporti di potere.
Il quadro s’allarga, la connessione tra macrocosmo e microcosmo
resta stretta e insieme incerta, come nelle nostre interrogazioni
sul futuro biologico e antropologico del mondo d’oggi. A ben vedere,
già dall’inizio I promessi sposi è il romanzo della carestia, della
terra desolata: dall’apertura del capitolo quarto, quando fra
Cristoforo se ne viene da Pescarenico, con quel travelling su
immagini scheletriche: "la fanciulla scarna, tenendo per la corda al
pascolo la vaccherella magra stecchita... " (c’è un Manzoni pittore
di quadri di genere nordico e grottesco, quasi alla Brueghel, che
viene fuori ogni tanto; altro esempio di quella "scuola" è il
villaggio di don Rodrigo, al cap. V; un altro ancora, le balie nel
lazzaretto degli appestati [cap. XXXV]. È una natura abbandonata da
Dio, quella che Manzoni rappresenta; altro che provvidenzialismo! E
quando Dio vi si manifesta per mettere le cose a posto, è con la
peste. [.. ]Da parte degli uomini, non c’è che guasti: malgoverno,
mala economia, guerra calata dei lanzichenecchi. Libro di storia
involto in pagine di romanzo (e di storia come la si intende adesso,
in cui la parte événementielle delle battaglie di Wallenstein e
della successione del ducato di Mantova è confinata tra le
chiacchiere alla tavola di don Rodrigo e ciò che occupa il campo
sono le crisi dell’agricoltura, i prezzi del frumento, la domanda di
mano d’opera, la curva delle epidemie) I promessi sposi propongono
una visione della storia come continuo fronteggiamento di catastrofi.Se
vogliamo riprendere le nostre figure triangolari, - potenti
corrotti, Chiesa cattiva, Chiesa buona, - possiamo sovrapporre ad
esse un nuovo triangolo che abbia per vertici la Storia umana
(malgoverno, guerra, sommosse), la natura abbandonata da Dio
(carestia) e la giustizia divina terribile e imperscrutabile (la
peste). La peste di Manzoni, oltre che grande rappresentazione
corale, è una dimensione nuova in cui tutti i personaggi e le storie
si ritrovano diversi. Anche il viaggio picaresco di Renzo riprende e
si trasforma in un itinerario d’iniziazione misterica, che culmina
nel salto sul carro dei monatti, traversata della carnevalesca
allegria della morte. È un punto che meriterebbe d’essere più
ricordato, e non solo per la battuta del "povero untorello", ma
perché questa inaspettata danza macabra è uno dei pochi momenti in
cui Manzoni si sfrena. C’è anche l’apparizione del frenetico portato
via da un cavallo nero cavalcato a rovescio [cap. XXXIV], che nel
Fermo e Lucia era don Rodrigo in persona, trascinato all’inferno
come in una sacra rappresentazione.
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