Renzo è accomunato dal De Sanctis ad Agnese, nel
segno di una "bontà nativa", di una schietta e semplice umanità
paesana, cosicché, insieme, temperano e correggono quel "non so che
di troppo elevato" che caratterizza Lucia. Appartiene dunque al
gruppo dei personaggi intermedi (ad. p. 193) nel tratteggiare i
quali il Manzoni ha rivelato tutta la sua arte: "Ce lo rende amabile
quella sua forza ed inesperienza giovanile, accompagnata con un
ingegno ineducato, ma pronto, vivo perspicace, pieno di spontaneità
e di originalità ne’ suoi giudizi e nelle sue mosse improvvise,
spesso spiritoso senza cercar lo spirito, col suo latinorum, e con
la sua "lega de’ birboni": sempre vero".La psicologia del
personaggio è tuttavia più complessa di quanto apparisse al De
Sanctis; così, per esempio, il Galletti avvertiva in lui "gli
istinti di rivolta e di vendetta che sobbalzano a tratti e
minacciano di rompere if reni dell’educazione religiosa, la prudenza
calcolatrice del montanaro e l’arte, a volte, di fingere il
sentimento o di esagerarlo, per toccare più fortemente l’animo
altrui’’.
Di seguito, sulla scia del giudizio di De Sanctis, un ritratto
critico dell’uomo del popolo, con una decisa accentuazione della sua
fisionomia di classe, desunto dal saggio già citato di Carlo
Salinari (per cui ad. p. 135) e l’interpretazione del personaggio di
Ezio Raimondi (da Il romanzo senza idillio. Saggio sui "Promessi
sposi" del 1974), il quale nei promessi sposi identifica
rispettivamente la fanciulla perseguitata e l’eroe viaggiatore
dell’antica tradizione narrativa occidentale; quest’ultimo destinato
a compiere un viaggio iniziatico attraverso l’inferno della società
contemporanea, finora a lui sconosciuta, alla ricerca della
giustizia.
Renzo, "operaio e buon figliolo"
Nella prima parte, quella ambientata nel villaggio [capp. I-VIII],
troviamo tutti i personaggi principali della vicenda privata già
perfettamente delineati. Renzo, come del resto gli altri personaggi
principali, ci viene presentato sullo sfondo di una situazione
storico-sociale, vale a dire sullo sfondo della carestia incombente,
dell’emigrazione negli Stati vicini, della crisi dell’industria
serica. Ma Renzo non è un succube della situazione, né un ingenuo,
come pensava don Abbondio: è un operaio abile, un giovane
equilibrato che sa essere economo quanto occorre, schietto e
semplice, ma risoluto. E soprattutto è innamorato, con quel tanto in
più di risolutezza che hanno gli uomini in quella condizione. Nel
colloquio con don Abbondio [cap. II] egli lo domina non solo
dall’alto di una coscienza morale limpida e di una sana ricchezza di
sentimenti, ma anche sul piano del temperamento e dell’accortezza.
Il suo è un temperamento risentito, non disposto a subire soprusi,
capace, a sua volta, di contrattaccare e di minacciare, e non privo
di accortezza. Egli subodora subito che lo si vuole ingannare anche
se sembra cadere nell’insidia tesagli da don Abbondio. Nella
schermaglia fra i due è proprio il dotto che esce sconfitto, e vince
la schiettezza e il buon senso del popolano. Un capolavoro
d’accortezza è il suo colloquio con Perpetua. L’attacco è
naturalissimo: "Buon giorno, Perpetua: io speravo che oggi si
sarebbe stati allegri insieme". Il tono è di persona addolorata ma
rassegnata, tale da cattivarsi le simpatie di Perpetua. Chiede poi
spiegazioni, lusingando la vanità della pettegola che gode sempre di
saperne più degli altri ("spiegatemi voi, ecc."), si richiama ai
suoi istinti protettivi ("aiutate un povero figliolo") e, infine,
finge di accusare don Abbondio per suscitarne la difesa e sapere chi
sono i veri responsabili ("tocca ai preti a trattar male co’
poveri?"). Ma intanto non si lascia sfuggire nessuna delle allusioni
di Perpetua ("L’ho detto io, che c’era un mistero sotto";
"prepotenti! birboni!... questi non sono i superiori"). E poi il
passaggio rapido dalla diplomazia alla risolutezza dell’azione.
Abbiamo così una delle scene più movimentate del romanzo. Renzo è un
impulsivo, ma non si lascia accecare dall’ira. Sotto la collera
mantiene una certa freddezza di calcolo. Non solo fa in modo che
Perpetua non si accorga del suo ritorno verso la casa del curato, ma
va dritto allo scopo ("chi è quel prepotente"), mostrando di sapere
per certo ciò che solo supponeva, non si lascia sorprendere dal
balzo di don Abbondio e usa una tecnica della minaccia (dalla mano
posata sul manico del coltello al terribile "dunque parli") che
ottiene un effetto maggiore persino di quella usata dai bravi. Di
fronte alla controffensiva di don Abbondio egli si raddolcisce, ma
non tanto da chiedere scusa e da piegarsi a un giuramento che non
vuoi mantenere. Qui viene fuori un’altra componente della complessa
personalità di Renzo: diplomatico e risentito egli, però, è pur
sempre un operaio e un buon figliolo. Sbollita l’ira riemerge,
almeno in parte, il rispetto che egli ritiene di dover avere verso
don Abbondio: come buon figliolo perché è il suo curato, come
operaio perché appartiene a un ceto più elevato (e si ricordi che si
tratta di un operaio del ‘600). Questo impasto di accortezza e di
semplicità, di Impulsività e di calcolo, di senso profondo della
giustizia e di tenace volontà di resistenza ai soprusi, di affetti
profondi e di buon senso, caratterizza il personaggio di Renzo in
tutto il romanzo, da queste prime battute al colloquio con
l’avvocato Azzecca-garbugli al suo comportamento nei moti di Milano,
alla fuga e al ritorno, durante la peste, per la testarda ricerca di
Lucia. a cui non intende rinunziare.
Renzo, "eroe cercatore"
Il personaggio di Renzo, nei Promessi sposi, fa del romanzo una
specie di Odissea, non solo in quanto egli è il "primo uomo"
dell’azione con le sue avventure di "pellegrino", di "fuggitivo" e
di "viaggiatore", ma anche perché le notizie che lo riguardano, come
si leggerà nel capitolo XXXVII, sono fatte risalire ai suoi
colloqui, alle sue confessioni con l’Anonimo: quasi che all’origine
del preteso racconto secentesco stia almeno per una grossa parte, il
suo piacere di popolano che rievoca, di reduce che racconta la
propria storia dopo averla persino immaginata in anticipo, mentre è
ancora in corso. È proprio Renzo, oramai in salvo di là dall’Adda, a
mormorare fra se, in uno dei suoi monologhi di fantasia: "Che
piacere, andar passeggiando su questa stessa strada tutti insieme!
andar fino all’Adda in baroccio, e far merenda sulla riva, proprio
sulla riva, e far vedere alle donne il luogo dove mi sono imbarcato,
il prunaio da cui sono sceso, quel posto dove sono stato a guardare
se c’era un battello" [cap. XVII].Naturalmente, l’odissea di Renzo
rientra negli schemi del romanzo storico e si inquadra benissimo,
integrata da quella di Lucia, nell’archetipo romanzesco di uno Scott,
quale lo descrive ogge un Fiedler non senza un’acre ironia:
"Perplesso dapprincipio sulle proprie ambizioni o sulla vera
identità e sul carattere di chi lo circonda spesso calunniato e
incompreso egli stesso, l’eroe deve fuggire, generalmente in mezzo a
qualche famoso conflitto storico che raggiunge giusto allora,
appropriatamente, il suo culmine. Nel frattempo l’eroina è stata
rapita o se n’è andata di propria iniziativa, per motivi rivelati
solo nelle ultime pagine. I due rimangono separati più a lungo
possibile; ma finalmente vengono riuniti grazie all’intervento di
qualche insigne personaggio o di qualche famigerato fuorilegge
uscito dalla foresta (o possibilmente da entrambi). Per opera dei
medesimi i loro problemi vengono risolti, i loro nemici sconfitti, e
ogni imbroglio è infine chiarito. Il bene rifulge come bene, e
trionfa; il male appare come tale, ed è sconfitto". Ma un romanzo
composito come i Promessi sposi, proprio mentre riprende intrecci e
combinazioni della tradizione narrativa, li trasferisce sempre in un
contesto di tutt’altra natura, che li deforma, li modifica
radicalmente sotto il lume malizioso di una sottile polemica
antisentimentale e antiromanzesca, che si rida alla consapevolezza
acutissima del male, del peccato, dei sofismi delle passioni e dei
pregiudizi nell’"abisso del cuore umano". Ma "abisso del cuore
umano" è una formula pascaliana delle Osservazioni sulla morale
cattolica: nei Promessi sposi si parlerà soltanto del "guazzabuglio
del cuore umano" [...].Legate fra loro da un destino comune e da un
interno contrappunto di ricordi, di risonanze affettive, le due
vicende di Renzo e di Lucia, dal momento in cui si disgiungono
procedono a linee alterne e determinano il doppio asse lungo il
quale il racconto si dilata per divenire, dirà poi il Burckhardt, un
capitolo di storia universale. La loro funzione di raccordo, però,
si attua in due direzioni differenti, poiché sull’asse semico di
Lucia si incontrano Gertrude, l’innominato, il cardinale Federigo, e
magari donna Prassede o don Ferrante; mentre su quello di Renzo,
fatta eccezione per il "vecchio" Ferrer, si dispongono gli uomini
della strada e della piazza: osti, avvocati, vagabondi, mercanti,
poliziotti, compagnoni, artigiani, monatti, contadini in miseria.
Come si vede, tanto l’uno quanto l’altro portano a un’immagine
stratificata ed esemplare della società lombarda. Ma solo Renzo si
trova a compiere un’autentica esperienza pubblica viene a contatto
coi meccanismi di un sistema sociale, ne sperimenta gli assurdi al
livello più basso e si sforza, come può, di capirne qualcosa. Egli è
l’antieroe della tradizione picaresca, un "pover’uomo" gettato in un
mondo imprevisto di insidie e costretto, nel suo viaggio fra il
contado e Milano, a una sorta di paradossale Bildungsroman dove,
sovente a sua insaputa, sembra quasi rivelarsi il mistero
dell’esistenza. E tocca a lui in fondo [...] la parte di
protagonista vittima e cercatore nei confronti di quella realtà
complessa, ma insieme così terribilmente semplice, che è la
giustizia [...].Perché anche Renzo prenda a riflettere a sua volta
su quanto gli è successo, occorre aspettare che egli entri a Milano
e che i nuovi eventi di cui è spettatore o compartecipe lo portino
ripetutamente a un confronto, a un dialogo con i propri ricordi, che
poi è forse anche, sul piano dell’arte, una delle grandi scoperte
manzoniane. Comincia ora la sua avventura pubblica, il suo viaggio
di contadino déraciné tra i mostri di una città in disordine, nel
labirinto di una folla che lo prende come in un "vortice". Insieme
con la curiosità che gli viene dalla certezza di trovarsi in un
"giorno di conquista", ciò che lo spinge avanti, senza sapere bene
di che cosa vada in cerca, è uno sdegno segreto, quasi una protesta,
si direbbe, contro la morale di don Abbondio: e a poco a poco si
trasforma in speranza di giustizia per se, per gli altri. In mezzo
al tumulto i discorsi più generosi, in fondo, sono i suoi; tanto
allorché espone nel "crocchio" il suo "debole parere" ("oggi s’è
visto chiaro che a farsi sentire, s’ottiene quel che è giusto,
bisogna andar avanti così, finché non si sia messo rimedio a tutte
quelle altre scelleratezze, e che il mondo vada un po’ più da
cristiani... ci saremo anche noi a dare uria mano ...")quanto
allorché si confida col falso spadaio, all’osteria della luna piena
[...].Eppure il buon senso, la saggezza contadina di Renzo, mentre
serve al narratore per ottenere straordinari effetti di straniamento
dietro le sue spalle, non salva il personaggio dalle insidie del
sistema, che lo afferra subito nelle sue maglie, gli impone ancora
le proprie regole e le proprie parti, secondo la logica
machiavellica dell’ordine pubblico. Renzo sperimenta così su se
stesso il destino che tocca sempre alla giustizia quando ciascuno
vuole appropriarsene: e nasce in tal modo, intorno alla sua fuga non
meno che al termine di giustizia, una sorta di prospettivismo
linguistico e di triste mascherata, nello stesso stile della scena
di Azzecca-garbugli, ma con complicazioni più strane e beffarde sino
all’avventura con lo "sconosciuto", l’agente provocatore della
polizia come l’avrebbe chiamato il Fauriel, che discorre del giusto
per ingannare un poveretto ancora inesperto degli strumenti del
potere [...].Se a Ulisse accade di ascoltare la propria storia
cantata da un aedo, il viaggiatore dei Promessi sposi invece trova
solo un mercante, in mezzo a un gruppo di curiosi, che racconta la
sua avventura milanese deformandola da cima a fondo con l’enfasi di
una prudenza che è ancora quella, più che mai trionfante ed
economica, di don Abbondio.[...] A questo punto, concluso il primo
ciclo della sua odissea urbana, Renzo esce dallo spazio narrativo,
sebbene poi, di fatto, la sua immagine non scompaia del tutto,
chiamata in causa più volte dai dialoghi degli altri personaggi e
deformata come sembra volere il suo destino di esule, in compagnia,
fra l’altro, di padre Cristoforo ("un villano" e "un frate" "un
plebeo"...) nel colloquio diplomatico fra il padre provinciale e il
conte zio [cap. XIX]. Tuttavia si tratta sempre di un filo
indiretto, quasi di un corso sotterraneo, donde il personaggio
riemerge soltanto, raccogliendo intorno a se la trama primaria del
racconto, allorquando la peste gli offre finalmente l’occasione di
rimettersi in cammino, immunizzato com’è dal contagio, alla ricerca
di Agnese o della propria casa. Il ruolo di Renzo coincide allora
con quello di un "eroe cercatore" in un universo dominato dalla
morte, insidiato dalla corruzione, dalla grande paura del disordine
metafisico: e il suo viaggio assume nel contempo il carattere di una
prova, di una iniziazione al livello di un’umanità spoglia, quasi
elementare. Lo si comincia a comprendere non appena Renzo fa ritorno
nel suo paese sconvolto e incontra prima Tonio, oramai uguale a quel
"povero mezzo scemo di Gervaso", poi don Abbondio con la sua
"filastrocca di persone e di famiglie" sotterrate, e infine l’amico,
l’amico di cui non sapremo mai il nome, solo "sull’uscio, a sedere
su un panchetto di legno, con le braccia incrociate, con gli occhi
fissi al cielo, come un uomo sbalordito dalle disgrazie, e
inselvatichito dalla solitudine" [cap. XXXIII]. Di pari passo con
l’orrore, il suo animo di contadino si apre alla tenerezza straziata
delle memorie, alla solidarietà degli affetti che sopravvivono, alla
gioia di consolare con la propria presenza un altro uomo fra un po’
di polenta e un secchio di latte: solo la "benevolenza", sembra di
intuire, può sottrarre l’uomo alla disperazione.Ma è chiaro che la
visita al paese serve solo come un preambolo, come una preparazione.
L’esperienza decisiva va fatta ancora a Milano, nel cuore della
miseria e dell’assurdità. Qui lo "sconosciuto" che impugna un
"bastone noderoso" per respingerlo (cap. XXXIV), e che più tardi
racconterà d’essersi imbattuto in un "untore" dall’Aria umile,
mansueta", dà subito la sensazione a Renzo d’essere precipitato di
nuovo nella città della follia, dell’errore, dell’eccesso mostruoso.
E il suo "itinerario", come lo chiama più volte il racconto con
qualche implicazione simbolica, non tarda a rivelargli altri
contrasti nel colore livido e feroce della morte che è dappertutto:
dalla donna sul "terrazzo,> con una "nidiata di bambini nudi", alla
"macchina della tortura"; dai carri dei morti, colmi di "cadaveri
ignudi" "intrecciati insieme, come un gruppo di serpi", al "prete"
che risponde cortese, dal "silenzio" interrotto soltanto da "lamenti
di poveri" o "urli di frenetici", alla madre di Cecilia, che impone
rispetto persino a un "turpe monatto", o alla "strega bugiarda" che
grida all’untore mentre Renzo disperatamente le chiede notizie di
Lucia. Nel rovesciamento delle parti che si mette ora in moto, il
"viaggiatore" è costretto a difendersi con la maschera dell’untore,
a stare al giuoco atroce dei monatti, i quali lo traggono in salvo
sul loro carro e intonano una "cantilena infernale", quasi che anche
per lui, come chiede l’archetipo mitico del viaggio, sia necessaria
una discesa agli inferi prima di acquisire il diritto di ritrovare
la parte più vera di se stesso. Anche la ricerca di Lucia del resto,
e c’è chi l’ha già notato, rinnova il vecchio mito della quete: non
per nulla nel capitolo XXXIII si parlava dell’"unico filo"
disponibile "per andar in cerca di Lucia", e tutto l’episodio del
lazzaretto è intessuto di gesti rituali e di cadenze liturgiche. Ma
il colloquio fra Renzo e padre Cristoforo, perché è a lui che
bisognava finalmente arrivare, ha qualcosa di più di un rito o di
una purificazione necessaria, una volta che lo si interpreti alla
luce delle corrispondenze che corrono attraverso il romanzo. È qui
infatti che ritorna in scena il concetto di giustizia. Ci aveva
seguito per tutto il racconto, nascosta fra i cenci della peste,
come un’ombra, un’assenza disperata. Né sorprende, dopo quanto si è
osservato nei primi capitoli, che sia ancora Renzo a metterla in
discussione: un Renzo stravolto dall’idea che Lucia possa essere
morta, e di nuovo attaccato ai suoi vecchi propositi di vendetta,
come se non fosse accaduto nulla, come se la peste non avesse altro
senso che quello di un risarcimento dovuto all’oppresso, di un
diritto di uccidere eguale per tutti. Ascoltiamolo bene: "... e se
la peste non ha già fatto giustizia... Non è più il tempo che un
poltrone, co’ suoi bravi d’intorno, possa metter la gente alla
disperazione, e ridersene; è venuto un tempo che gli uomini
s’incontrino a viso a viso: e... la farò io la giustizia!" [cap.
XXXV].A padre Cristoforo queste parole suscitano uno sdegno misto di
tristezza e di sgomento. Per un istante è la sua sconfitta di fronte
a una giustizia falsa e orgogliosa, costruita sul disprezzo
dell’uomo: ed egli invece ha bisogno che Renzo ritrovi la strada del
perdono, perché non si ripeta, neppure come desiderio del cuore, un
destino di violenza che ossessiona la sua anima di vecchio frate.
[...]Si direbbe in fondo che in quella di Renzo padre Cristoforo
voglia come rispecchiare, affrancata dall’ossessione del sangue, la
sua storia di uomo che ha dovuto compiere il male per apprendere la
giustizia di Dio, che è giustizia del cuore libero e paziente.
Certo, egli è il drammatico della coscienza cristiana di Renzo, e
come tale l’accompagna nel suo itinerario misterioso sino al
giaciglio di don Rodrigo per un incontro "a viso a viso", dove non
resta più posto per la violenza o per l’odio. Oramai si può trovare
anche Lucia, in una natura di nuovo amica dell’uomo, purificata
dalla grande pioggia liberatrice. [...].
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