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RIASSUNTO
CAPITOLO 10
Il principe padre dà per certo che la richiesta di perdono significhi accettare la monacazione; a questa condizione Gertrude viene riaccolta in famiglia e trattata con benevolenza. L'indomani la ragazza (ancora in preda a dubbi, incertezze e turbamenti, tenuti a freno dal principe che velatamente la ricatta, ricordandole l'errore commesso con il paggio) è accompagnata al monastero per far domanda di esservi ammessa come novizia. Seguono la scelta della madrina e, di lì a poco, il colloquio con il vicario che, ingannato dalla giovane, attesta l'autenticità della vocazione. Dopo gli ultimi giorni di libertà, passati tra spettacoli e divertimenti, ma con l'animo in continua «fluttuazione», Gertrude è accettata in convento e, al termine dei dodici mesi di noviziato, è «monaca per sempre».
Il suo animo tuttavia non si placa: il suo comportamento nei confronti delle consorelle e delle educande è mutevole e capriccioso. Accanto al convento abita un giovane, «scellerato di professione», che osa rivolgerle la parola: la «sventurata rispose». Inizia così una relazione che porterà la monaca fino al delitto: con Egidio uccide infatti una conversa che ha minacciato di rivelare la tresca. Dal misfatto, rimasto per ora sconosciuto, è passato circa un anno, quando Lucia viene accolta nel monastero.
Il capitolo nono costituisce, con il decimo, la più ampia digressione del romanzo, dedicata a tratteggiare la figura e la vicenda della monaca di Monza. Ampia, eppur drasticamente ridotta rispetto alla narrazione del Fermo e Lucia per motivi di ordine strutturale (evitare un romanzo nel romanzo); ideologico (per l'eccessivo spazio concesso ad un personaggio di alto lignaggio in un romanzo che ambiva ad essere storia di «gente meccaniche») e moralistico (lo scrupolo di aver narrato una fosca storia di amore e morte ambientata in un convento).
Dopo una parte introduttiva, dedicata a rappresentare in toni dimessi la separazione dei promessi che si incontreranno nuovamente solo alla fine del romanzo (cap. XXXVI), viene delineata la suggestiva figura di Gertrude, tutta giocata su toni di bianco e nero. Gertrude è un personaggio storico: i «fatti» di Virginia de Leyva sono minuziosamente documentati negli archivi dell'Arcivescovado milanese. Il Manzoni vi aggiunge ciò che una fanciulla monacata a forza può aver «sentito e pensato» e racconta così la storia di un'educazione sbagliata che trova fertile terreno in un'indole arrogante e imperiosa, contraddistinta da «vanità naturale», ed impedisce la formazione di una volontà.
Il peccato di Gertrude, da cui deriveranno tutti gli altri, sarà di pronunciare dei « sì», quando vorrebbe e dovrebbe rifiutare, e vivere in maniera non conseguente a questi « sì»: un peccato dunque della volontà.
E tuttavia il cristiano Manzoni non nega la sua pietà: l'«infelice», la «sventurata» è ancora alla ricerca di «un po' d'amore», capace di provare «un certo sollievo nel far del bene a una creatura innocente», «nel soccorrere e consolare oppressi». « A questa fo del bene», penserà nel capitolo XVIII e sarà un «soave» pensiero. Del resto, anche il principe-padre - e certo nei confronti dei padri il Manzoni è particolarmente severo (si pensi al mercante del capitolo IV) - è capace di «una tenerezza in gran parte sincera», perché «così fatto è questo guazzabuglio del cuore umano».
Echeggia in queste pagine una vasta gamma di temi della polemica illuminista: contro l'istituto del maggiorasco, la nobiltà parassitaria, le monacazioni forzate, a favore di una educazione non
autoritaria.
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