Carlo Salinari (1919-1977), storico della
letteratura e critico militante, ha insegnato letteratura italiana
nelle università di Cagliari, Salerno, Milano e Roma; si è
occupato sia di autori dei primi secoli che di contemporanei,
applicando criteri di interpretazione marxistici nella ricostruzione
del rapporto scrittori-società (tra le sue opere dedicate alla
contemporaneità notevole soprattutto Miti e coscienza del
decadentismo italiano, 1960). Le pagine che seguono (risalenti al
1974) sono tratte dalla raccolta postuma Boccaccio. Manzoni.
Pirandello apparsa nel 1979, a cura di N. Borsellino ed E. Ghidetti.
La suggestiva interpretazione di Salinari, che vede nel Manzoni un
l’intellettuale organico" della borghesia progressiva
lombarda, è stata contestata, fra gli altri, da Sebastiano
Timpanaro in Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana
(1985), sia pure a costo di una evidente forzatura ideologica
fondata sulla contrapposizione del "moderato" Manzoni al
"progressivo" Leopardi.
La struttura ideologica dei "Promessi sposi"
Cerchiamo di documentare meglio, sul testo dei Promessi sposi, tale
adesione organica del Manzoni al progetto di società elaborato
dagli ideologi borghesi, perché, come vedremo, questo è un punto
di grande importanza per comprendere l’opera del nostro autore.
Uno dei temi di fondo del romanzo, com’è noto, è il tema della
giustizia. Si è detto che il Manzoni manifesta una profonda
sfiducia nella giustizia umana ed esalta, a contrasto, una giustizia
superiore, quella divina. Si è addirittura parlato di un suo
pessimismo giuridico. Che Manzoni abbia fiducia nella giustizia di
Dio e che la consideri quella veramente infallibile non è da
stupire: non sarebbe un credente se pensasse il contrario. La cosa
che, invece, stupisce è che tanta parte della critica non si sia
accorta con quale precisione Manzoni, nel descrivere la società
secentesca, cerchi di mettere in luce i rapporti assurdi in essa
esistenti fra potere pubblico e potere privato e ne faccia scaturire
la necessità di una legge certa (caposaldo del sistema borghese) di
fronte alla quale tutti i cittadini siano uguali. Già all’inizio
del romanzo Manzoni interrompe la narrazione per riportare
testualmente alcuni brani delle "gride" emanate in quei
tempi contro i bravi [cap. 1]. Alcuni critici (fra gli altri Goethe,
De Sanctis e Tommaseo) hanno trovato inopportuno questo intermezzo.
In realtà qui non siamo di fronte a un excursus storico
pedantescamente fondato su citazioni di decreti e di ordinanze, ma a
una dichiarazione ideologica che viene espressa nella forma
dell’ironia e del sarcasmo. Al centro di tale dichiarazione c’è
la condanna del carattere feudale, irrazionale, caotico dei
provvedimenti che i governanti minacciano: la tortura per strappare
la confessione, la semplice denunzia di due testimoni per accertare
la colpa, il processo fondato solo sulle voci che corrono e non su
prove precise. Tutti elementi, come si vede, agli antipodi della
concezione borghese dei diritti del cittadino. Si aggiunga che
Manzoni tende a sottolineare l’impotenza dei governanti, dovuta
non solo alla loro insipienza, ma alla mancanza di un potere statale
fondato su un sicuro sistema di leggi tanto forte da imporsi alla
prepotenza dei nobili e alla loro tendenza a sottrarsi, più o meno
apertamente, all’autorità dello Stato. La prosa stessa di quelle
"gride" rivela, così, le condizioni reali del paese
governato di fatto, anzi sgovernato, da cavalieri e gentiluomini che
si fanno spalleggiare da bravi e vagabondi, senz’altro mestiere
che quello di tendere insidie ad altri e dei quali non "altro
si sente che ferite appostatamente date. omicidii e ruberie et ogni
altra qualità di delitti" [cap. 1]. Un quadro agghiacciante di
una società senza legge, con strutture che consentono ai nobili e
ai ricchi di opprimere a loro piacimento la popolazione, strutture
che si fondano sul connubio fra le due classi privilegiate - la
nobiltà e il clero - che determinano un potere nello stesso tempo
dispotico e anarchico, che rendono impossibile la creazione di un
assetto sociale nel quale tutti i cittadini siano uguali di fronte
alla legge, godano gli stessi diritti e siano sottoposti agli stessi
doveri. Di qui il perpetuarsi di privilegi inconcepibili (come il
diritto di asilo’), il sostituirsi del capriccio individuale del
potente alla legge, l’unirsi di alcune categorie di cittadini in
corporazione per difendersi dai soprusi, l’assoluta mancanza di
sicurezza per tutti coloro che appartenevano alle classi subalterne,
soprattutto nelle campagne. Il motivo della certezza della legge, di
un ordinamento giuridico che ponga su nuove basi i rapporti fra
cittadino e cittadino e fra il cittadino e lo Stato, che assicuri il
rispetto della personalità umana e le giuste garanzie per ogni
individuo, il motivo, cioè, di una giustizia non perfetta, ma
fondata su istituzioni razionali e operante nella società,
scaturisce in ogni momento nel corso del romanzo ed è implicito
nella denunzia dell’ordinamento sociale preborghese. In fondo lo
stesso punto di partenza della vicenda romanzesca, la scommessa di
don Rodrigo, contiene una formidabile carica di polemica
antinobiliare e antifeudale e tende a sottolineare le conseguenze
della sostituzione del capriccio dei potenti alla legge, conseguenze
che possono giungere a ridurre un essere umano a oggetto, scopo dl
una scommessa, dimenticando la sua inalienabile personalità. Ma
l’adesione del Manzoni al progetto borghese di una nuova società
non si limita alle istituzioni giuridiche, essa si estende a un
altro settore fondamentale, quello dell’economia. Si veda
all’inizio del capitolo dodicesimo l’analisi che egli compie
delle cause della carestia, non di quelle naturali (la contrarietà
della stagione), che pure avevano il loro peso, ma di quelle che
risalgono alle responsabilità degli uomini. Vale a dire la guerra,
che distrugge i raccolti e allontana i contadini dai campi; le tasse
imposte senza criterio e con spirito di rapina che rendono
antieconomica la coltivazione dei campi, la permanenza di
guarnigioni straniere che si comportano come in territorio
conquistato; le requisizioni per l’esercito che non solo fanno un
vuoto nel raccolto, ma lo fanno un po’ per necessità e molto per
irresponsabile sciupio. In questa situazione (e in situazioni
analoghe) scatta la legge economica della domanda e dell’offerta:
se l’offerta è scarsa e la domanda è abbondante, per
ripristinare l’equilibrio (cioè per ridurre la domanda, visto che
non è possibile aumentare l’offerta) si determina il rincaro dei
prezzi. Legge dolorosa (perché colpisce i meno abbienti), ma
oggettiva, che non si può eludere - secondo l’opinione degli
economisti borghesi - così come non si possono eludere le leggi
della natura. Mai come in questa occasione Manzoni introduce nel suo
romanzo elementi "tecnicamente borghesi". E mai come in
questa occasione tali elementi mettono in ombra la tentazione di un
generico solidarismo, che poteva venirgli dal messaggio cristiano.
Egli, infatti, giudica "salutevole" quel rincaro, perché
limita i consumi e favorisce l’importazione dall’estero, senza
pensare, come avrebbe voluto la sua ispirazione cristiana, che il
pane è un genere di prima necessità e che il suo rincaro colpisce
proprio gli strati più poveri della popolazione. Allo stesso modo
la persuasione dell’oggettività e ineluttabilità di quelle leggi
economiche fa sì che egli giudichi come frutto dell’ignoranza e
della volontà d’illudersi ogni altra spiegazione della carestia.
Non si rende conto, cioè, che le leggi economiche non operano in un
ambiente astratto, ma in situazioni storiche nelle quali gli uomini
sono una componente essenziale e che, di conseguenza, nelle
situazioni di congiuntura o di crisi opera largamente la
speculazione, per cui non era del tutto inverosimile che chiunque si
trovasse in possesso di grano o di farina, aspettasse che i prezzi
salissero il più possibile per immetterli sul mercato, e chi avesse
potuto accaparrarne una certa quantità a prezzi ancora bassi
cercasse di rivenderli a prezzi maggiorati, e che tutti li
immettessero sul mercato in piccole quantità proprio per non
provocare il crollo dei prezzi. Tuttavia Manzoni non poteva
rendersene conto proprio perché aveva sposato in pieno le dottrine
economiche della borghesia nascente che considerava
"scientifiche" e "universali" quelle leggi che
favorivano il suo sviluppo. Di qui il giudizio severissimo sul
calmiere imposto da Ferrer, provvedimento che non ha la "virtù
di diminuire il bisogno del cibo, né di far venir fuori le derrate
fuor di stagione". Ferrer, scrive Manzoni, "vide, e chi
non l’avrebbe veduto? che l’essere il pane a un prezzo giusto,
è per se una cosa molto desiderabile; e pensò, e qui fu lo
sbaglio, che un suo ordine potesse bastare a produrlo. Fissò la
"meta" (...) del pane al prezzo che sarebbe stato giusto,
se il grano si fosse comunemente venduto trentatré lire il moggio:
e si vendeva fino a ottanta. Fece come una donna stata giovine, che
pensasse di ringiovanire, alterando la fede di battesimo". Di
qui la derisione degli argomenti che Ferrer contrappone alle
proteste dei fornai, argomenti che non solo contraddicono le leggi
della economia (non c’è imprenditore che produce e vende in
perdita), ma sono impastati di promesse vaghe e fumose. Allo stesso
modo - e sulla base degli stessi principi - nell’ultimo capitolo
Manzoni ironizza sulle limitazioni imposte dalla Repubblica
veneziana alle paghe degli operai proprio quando, subito dopo la
peste, c’era scarsezza di mano d’opera e plaude invece
all’abolizione delle imposte sui beni e sulle persone per i
lavoratori che venivano da altri Stati. Insomma la legge della
domanda e dell’offerta doveva agire liberamente sia nei confronti
delle merci sia nei confronti della forza-lavoro. In questo ambito -
cioè nell’ambito della struttura ideologica organicamente
borghese del nostro scrittore- bisogna considerare la sua concezione
dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa e il suo atteggiamento nei
confronti della folla. La condanna della mondanizzazione della
Chiesa serpeggia in tutto il romanzo, ma raggiunge il suo acme in
due episodi, quello della monaca di Monza [capp. IX-X] e quello del
colloquio fra il padre generale dei cappuccini e il conte zio [cap.
XIX]. Gertrude viene preparata alla monacazione con la complicità
della badessa e di buona parte delle monache, le quali sono ben
contente di poter avere alleata una famiglia così potente. In tal
modo l’educazione di Gertrude non è impostata su elementi
religiosi, che avrebbero dovuto essere fondamentali per una futura
suora, ma, come osserva giustamente il Donadoni, "nella casa
che dovrebbe essere di Dio, nessuna parola di Dio arriva a lei.
Nella casa dell’umiltà le maestre accarezzano e fomentano
nell’allieva l’orgoglio del sangue: palpano, servilmente,
l’amor proprio (...). Quella ipernutrizione dell’orgoglio dà i
suoi frutti di veleno,>. E nessuna vibrazione religiosa si può
cogliere nel colloquio fra il padre di Gertrude e la badessa [cap.
X]. Qui sono di fronte due complici, ma due complici ipocriti. Sia
la badessa che il principe sanno di aver commesso un delitto e, per
di più, sanno che questo delitto comporta la scomunica. Possono
evitare che venga conosciuto e condannato dal mondo, ma dovrebbero
credere che non possono sfuggire al giudizio di Dio. Due anime
minimamente religiose arretrerebbero sconvolte: i due farisei,
invece, per i quali la religione è pura formalità e puntello del
loro potere, scambiano solo poche parole imbarazzate ed evitano di
trattenersi sull’argomento ("come se a tutt’e due pesasse
di rimanere lì testa a testa"). In fondo lo stesso vicario,
che esamina Gertrude e che non è un complice consapevole, è
involontariamente succube dell’autorità mondana e compie il suo
ufficio senza l’impegno morale che richiederebbe [cap. X]. Nell’epi
sodio, invece, del conte zio e del padre generale sono di fronte due
potenze terrene gelose della loro potenza, ma consapevoli che essa
è fondata sul loro accordo. L’uno vanta l’appoggio del re di
Spagna, l’altro del papa. L’uno è un uomo politico, l’altro
dovrebbe essere un religioso: ma le caratteristiche sono le stesse.
In loro non v’è luce ideale, non vi sono principi da affermare o
da difendere, c’è solo una consumata esperienza dell’intrigo e
del compromesso messa al servizio della loro terrena autorità. Il
padre provinciale, in particolare, è il tipo esemplare del
burocrate messo alla testa di una grande organizzazione proprio per
la mancanza di una personalità autonoma, la pieghevolezza alle
esigenze dei rapporti di forza e dei problemi di prestigio, lo
scetticismo verso i valori ideali e l’impegno di coloro che
credono in quei valori [...]. Si dice comunemente che Manzoni non ha
alcuna stima degli uomini politici. E in realtà quelli che egli ci
rappresenta sono tutti degli incapaci: incapace il governatore tanto
preso dai pensieri di una guerra inutile e rovinosa, da non poter
prestare attenzione alla peste; incapace Ferrer che provoca, con la
sua irresponsabile demagogia, i tumulti di Milano; incapaci gli
estensori delle "gride" che non sanno farle applicare,
incapace il capitano di giustizia che se la prende con un onesto
uomo come Renzo. Tutte scatole vuote che cercano il credito solo con
la boria esteriore. E quel "politicone" del conte zio
viene messo nel sacco da uno scavezzacollo, cinico e scanzonato,
come il conte Attilio. Tuttavia dovrebbe essere chiaro che qui
Manzoni si fa beffe di una classe dirigente storicamente ben
determinata: quella nobilare della dominazione spagnola in Italia.
In questo è coerente con la sua poetica. E dovrebbe essere chiaro
che egli non ha stima degli uomini politici privi di impegno ideale,
per i quali la politica è diventata soltanto un mestiere che
assicura potenza e privilegi, e che soddisfà vanità. Egli non si
sdegna perché alle esigenze della politica venga sacrificato fra
Cristoforo (in alcuni casi tali sacrifici sono anche necessari), ma
perché quelle esigenze non hanno un contenuto universale, non sono
esigenze di giustizia, di libertà, di indipendenza nazionale, ma
sono volgari esigenze di prestigio e di autorità. Così Manzoni non
si sdegna per le guerre in quanto tali, ma per le guerre provocate
da futili motivi, da equilibri di potenza, ai quali sono
completamente estranee le popolazioni che, con la morte e con la
miseria, pagano il prezzo degli interessi di casta dei gruppi
dirigenti. Nella sua condanna non sono, certo, compresi i patrioti
che si battono per l’indipendenza e la libertà del loro paese, o
i popoli che si oppongono con le armi all’oppressione straniera.
Con questo spirito borghese Manzoni si pone anche di fronte al
problema delle masse popolari, rappresentando i tumulti provocati a
Milano dal rincaro del prezzo del pane: "La sera avanti questo
giorno in cui Renzo arrivò a Milano, le strade e le piazze
brulicavano d’uomini, che trasportati da una rabbia comune,
predominati da un pensiero comune, conoscenti o estranei, si
riunivano in crocchi, senza essersi dati l’intesa quasi senza
avvedersene, come gocciole sparse sullo stesso pendio>> [cap.
Xll]. Le masse, dunque, si muovono e si organizzano sulla base di
esigenze comuni (la rabbia per la fame a cui sono condannate), sono
dominate ("predominati") da un pensiero comune (porre fine
alla loro sofferenza) e si ritrovano così in modo spontaneo
("senza essersi dati l’intesa"), quasi seguendo una
legge di natura ("come gocciole sparse sullo stesso
pendio"). Esse non sono colpevoli, le loro esigenze sono
giuste, ma in esse predominano elementi irrazionali. Se Manzoni
avesse scritto il suo romanzo un secolo dopo, gli si sarebbe posto
il problema di dare una consapevolezza alle masse, cioè il problema
del partito politico. L’irrazionalità della massa si manifesta
nel suo esaltarsi ai discorsi che qualcuno improvvisa, qualcuno che,
a sua volta, si esalta per l’esaltazione della folla. In tal modo
è difficile valutare le soluzioni razionali che quelle giuste
esigenze richiederebbero, perché il bisbiglio è confuso, i
discorsi improvvisati, predomina la ripetizione di parole e
l’imitazione di gesti di altri e i concetti sono sempre gli stessi
("un piccolo numero di vocaboli>), senza svolgimento o
approfondimento. A questo si aggiunga che ad una folla così
eccitata si mescolano di solito i provocatori. Se la folla non è
colpevole, colpevoli sono invece coloro che vogliono approfittare, a
proprio vantaggio, di quella esaltazione [...].Ma l’aver insistito
non solo sulla presenza, ma anche sui progetti miserabili di questi
profittatori è un’ulteriore conferma dell’atteggiamento di
simpatia e di comprensione del Manzoni verso la folla. Perché è
proprio a quei provocatori che si deve attribuire il passaggio dalle
vociferazioni confuse alla violenza. Violenza che non solo è
immorale, ma è stupida. Non è saccheggiando i forni che si risolve
il problema della carestia: e ancor meno linciando il vicario di
provvisione. Ma anche nella rappresentazione dell’inizio degli
atti violenti c’è quasi una ricerca di attenuanti per la folla:
il pane portato in casa ai ricchi, mentre i poveri non possono
neppure acquistarlo al negozio, la fragranza del pane fresco che si
diffonde fra gente affamata, il richiamo alle comuni ed elementari
necessità dell’uomo indipendentemente dalla sua condizione
sociale ("Siam cristiani anche noi: dobbiamo mangiar pane anche
noi>). La massa, insomma, pur essendo spinta da esigenze giuste,
pur rappresentando la maggioranza e detenendo la forza reale, è
inconsapevole e può essere conquistata dall’uno o dall’altro
gruppo cosciente. Sono appunto le élites, che, nel bene o nel male,
avendo un progetto ben chiaro e non lasciandosi trasportare dalle
facili passioni, cercano di indirizzarla. È quanto avviene sotto la
casa del vicario di provvisione [cap. X111], dove si svolge una
coperta guerra fra i fautori della violenza e coloro che, pur
volendo giustizia (come Renzo)ripugnano dal ricorso a simili metodi.
Illuminante è il discorso di Renzo alla fine del tumulto [cap.
XIV]. Egli è stato contrario alla violenza, ha aiutato Ferrer a
liberare il vicario, ma non per questo non vuole giustizia e giudica
inutile o sbagliata la sommossa ("e giacché oggi s’è visto
chiaro che, a farsi sentire, s’ottiene quel ch’è giusto,
bisogna andare avanti così"). Certo il suo discorso è
costruito sulla base delle esperienze personali. Nello sfondo delle
sue affermazioni generali si possono facilmente intravedere i
momenti salienti della sua storia: i bricconi che stanno un po’in
campagna e un po’ a Milano (don Rodrigo), i podestà che
dovrebbero far rispettare la legge gli avvocati che dovrebbero
sostenere gli innocenti, la "grida" che egli ha visto, la
lega che unisce i bricconi (don Rodrigo, il podestà,
Azzecca-garbugli), la delegazione a Ferrer di cui Renzo stesso
dovrebbe far parte per raccontargli le sue vicende. Sbagliano, però,
i critici che pensano che la presenza di un’esperienze personale
tolga valore generale al discorso. Le rivoluzioni scoppiano proprio
quando la somma di molte esperienze personali persuade i più che la
situazione è intollerabile e che la società va cambiata. Renzo fa
una distinzione tra la lega dei bricconi e i governanti (il re,
Ferrer) e pone la necessità che il movimento popolare serva di
sostegno ai governanti per far applicare la legge. L’ingenuità di
Renzo ha fatto pensare a una posizione distaccata e paternalistica
di Manzoni, a un’ispirazione "moderata" dello stesso
Manzoni o, ancora di più, a un pessimismo mondano che reputa
impossibile la realizzazione del progetto di Renzo perché nel mondo
non resta "che far torto o patirlo". La posizione
ideologica, in sostanza, sarebbe la stessa dell’Adelchi: solo che
lì è disperazione e qui è rassegnato sorriso.In questo caso, però,
i critici non tengono presente che Manzoni non poteva venir meno al
suo assunto principale, il rispetto della storia, attribuendo a
Renzo idee e posizioni che non poteva avere all’inizio del
Seicento. Non tengono presente anche il fatto che la società
criticata da Manzoni non è un’entità metafisica, la società in
quanto tale, ma una società storicamente determinata, quella
feudale, che viene criticata sulla base di idee storicamente
determinate, quelle della borghesia progressiva dell’inizio
dell’Ottocento. E la differenza fra l’Adelchi e I promessi sposi
non consiste nel passaggio fra la disperazione e la rassegnazione.
Adelchi è ancora il personaggio-protagonista l’eroe solitario,
l’intellettuale isolato che sul piano esistenziale contesta non
solo la società, ma la vita stessa (e in questo è simile a
Leopardi). Nei Promessi sposi il personaggio-protagonista, l’eroe
è sparito e, al suo posto, compare una folla di gente semplice e
oppressa, succube dell’ingiustizia. In tal modo l’analisi della
giustizia conculcata diviene assai più precisa e argomentata, la
denunzia delle classi dominanti e dei loro privilegi diviene
spietata, ma, d’altra parte, spostando l’attenzione
dall’individuo alla massa, alla disperazione subentra l’azione e
la speranza in un mondo più giusto che alberga nel cuore degli
uomini. Adelchi può rappresentare l’intellettuale isolato che, di
fronte a un mondo ingiusto, è sopraffatto dall’angoscia e magari
si suicida; Renzo rappresenta il popolo che non può permettersi il
lusso di disperarsi e di sopprimersi e nutre fiducia che le cose
possano essere cambiate. Fiducia continuamente irrisa. Può darsi.
Ma attraverso cento e cento irrisioni il mondo è pure andato
avanti. C’è da osservare, infine, che Ferrer e il re,
rappresentano per Renzo (e non poteva essere diversamente per un
contadino del Seicento) gli autori di leggi giuste che vengono
disattese per gli intrighi di combriccole interessate. Sostituite al
re la nascente borghesia e il suo nuovo e razionale progetto di
ordinamento della società e vedrete che Renzo sosterrebbe
l’appoggio popolare alla realizzazione di quel progetto contro gli
ostacoli che potrebbero opporre gruppi interessati. In sostanza
Manzoni rifiuta la violenza (che attribuisce ai provocatori), ma non
rifiuta affatto l’intervento popolare (e in questo non è un
moderato): egli diffida, però, del movimento spontaneo (nel quale
prevalgono elementi irrazionali) e ritiene che la folla debba essere
guidata da un élite che ne interpreti le esigenze e indirizzi la
sua forza verso obiettivi giusti: la borghesia, appunto, che deve
conquistare alla sua causa il consenso delle classi popolari. Egli,
insomma, non mitizza il popolo (come faranno altri scrittori
romantici): se il popolo si desta non è vero che Dio si metta alla
sua testa, ma alla sua testa deve mettersi un’avanguardia
consapevole, ispirata da un progetto politico chiaro e razionale.
Manzoni vuole dunque che i cittadini siano uguali di fronte alla
legge, respinge la violenza privata ma anche il processo sommario
fondato su dicerie, su montature poliziesche, su confessioni
strappate con la tortura e non su prove certe. Manzoni vuole la
abolizione dei privilegi dei ceti non borghesi, quelli dei nobili e
del clero, polemizza contro la mondanizzazione della Chiesa e la
trasformazione della religione in uno strumento politico e vuole uno
Stato non confessionale. Manzoni è persuaso che esistano alcune
leggi economiche universali (come quella della domanda e della
offerta), vuole un’economia di mercato fondata sulla libera
concorrenza e sulla libera contrattazione della forza-lavoro, vuole
il trionfo della scienza su ogni pratica superstiziosa. Per una
società così ordinata gli uomini debbono agire. Certo le loro
azioni non sempre raggiungono gli scopi per cui sono compiute. Ma
questo non comporta, come ha voluto qualcuno, una sfiducia
nell’agire umano: comporta semplicemente la consapevolezza che le
azioni degli uomini s’intrecciano, si contrastano o si sostengono
a vicenda e, di conseguenza, la loro risultante non coincide con
nessuna di esse. Ma tale risultante porta sempre avanti l’umanità
verso una società migliore. Per Manzoni, credente, essa rappresenta
il piano della Provvidenza che utilizza le azioni degli uomini per
lini che solo essa conosce: per altri, non credenti, quella
risultante sarà dovuta all’astuzia della Storia, o
all’ineluttabilità del Progresso, o all’invincibilità del
Popolo, e così via. Corrisponde, cioè, a quella fiducia nel
trionfo della causa giusta che sorregge tutti i rivoluzionari, tutti
gli uomini che vogliono modificare la realtà esistente. E il piano
della Provvidenza, per Manzoni, tende all’affermazione della
società borghese: è la Provvidenza che consente a Napoleone di
estendere a tutta l’Europa i principi della Rivoluzione francese,
è essa che ha favorito la formazione della nazione tedesca,
l’affermazione dei principi che rifiutano l’intervento
straniero, la legge della spada, e rivendicano per ogni nazione
l’indipendenza e la libertà; è essa che rende ineluttabile la
formazione di una nazione italiana ("una d’arme, di lingua,
d’altare / di memorie, di sangue, di cor" ), è essa che nel
lieto finale dei Promessi sposi trasforma Renzo da operaio a
imprenditore, simbolo della nuova forza sociale destinata a
trasformare il mondo. Qui la religione si inserisce in modo organico
nell’ideologia borghese del Manzoni. Non è la religione ufficiale
così come si è realizzata in un grande organismo mondano, grande
potenza economica e politica e, addirittura, padrona di un Stato (lo
Stato pontificio). Non è la religione che ha legato la sua fortuna
mondana alla classe dominante, ai nobili, a sostegno di un assetto
sociale iniquo, caotico e irrazionale. È una religione, invece, che
dovrebbe utilizzare il suo grande prestigio morale, la forza ideale
dei grandi principi evangelici, per sostenere la formazione della
nuova società, nutrirla di un profondo senso di giustizia e di
fratellanza, ispirare la nuova classe dirigente a farsi liberatrice
non solo di se stessa ma di tutte le classi oppresse. Manzoni, cioè,
comprende che l’unico modo per collegare con la borghesia (e il
moto risorgimentale da essa guidato) le grandi masse della campagna
è quello di realizzare un’alleanza con la Chiesa, facendola
divenire sostenitrice e non avversaria di quel movimento. [. . . ]In
Manzoni la religione non solo copre questa dimensione individuale,
ma tende a riportarla in un ambito sociale. Mi spiegherò con un
esempio: quello dell’innominato. La conversione di questo
personaggio, coraggioso, altero, dominatore, intollerante delle
leggi dello Stato e della morale, così malvagio da essere messo al
bando del consorzio civile, non è un miracolo, né è determinata
da una sorta di illuminazione ricevuta dall’incontro con Lucia.
Lucia è solo la goccia che fa traboccare il vaso, il reagente che
fa precipitare gli elementi che già esistevano dentro di lui.
L’innominato è solo. La sua è una solitudine geografica,
confinato com’è nel tetro castello che domina il territorio
circostante dall’alto di una vetta quasi inaccessibile, in un
paesaggio fatto di rocce, di dirupi, di abissi. È una solitudine
sociale, circondato com’è soltanto dai suoi sgherri, che
piantonano le strade di accesso e le sale del castello, controllando
che nessuno entri armato (e lo stesso innominato guarda prima le
mani e poi il volto di don Rodrigo quando questi va a trovarlo). È
una solitudine psicologica. Ormai ha sessant’anni e l’avvenire
è vuoto. Da giovane non pensava al domani, perché aveva tutta una
vita e mille imprese da compiere davanti a se. Da giovane non
pensava alla morte, perché essa si presentava come una minaccia che
veniva dall’esterno, da un avversario, da una insidia che avrebbe
dovuto controbattere con la sua forza, il suo coraggio, la sua
abilità. Ora la morte è entrata nel suo organismo, opera nelle sue
cellule, se la sente addosso come un fatto ineluttabile, contro il
quale non si può combattere. In questa situazione l’avvenire gli
appare vuoto e il passato si popola dei fantasmi di tutte le sue
vittime: è il momento in cui l’uomo avvicinandosi alla fine
naturale dell’esistenza fa un bilancio della propria vita. E il
bilancio dell’innominato è spaventoso. Di qui la disperazione che
lo porta sull’orlo del suicidio, ma di qui anche il nascere
dell’immagine di Dio e di una vita ultraterrena nella quale egli
dovrebbe ugualmente rendere Colato del suo passato. Di qui,
soprattutto, l’intuizione che il vuoto del suo avvenire potrebbe
essere riempito in un modo solo: vivendo non per se, ma per gli
altri, che la sua disperazione individuale potrebbe essere risolta
in un ambito sociale. Per questo la frase di Lucia: "Dio
perdona tante cose per un’opera di misericordia", finisce per
avere un valore determinante. E non è un caso che delle grandi virtù
cristiane, se quelle consolatorie (la fede e la speranza) hanno
certamente un posto nella concezione manzoniana, quella che prevale
nettamente è la virtù attiva, la carità, intesa come dedizione
agli altri, al prossimo, a tutti gli uomini considerati come
fratelli (la "fratellanza" che con la libertà e
l’uguaglianza costituiva la grande triade ideale della Rivoluzione
francese). Il passaggio, quindi, dalla dimensione sociale, a quella
esistenziale non è un arretramento, come ha creduto qualcuno
(compiuto in funzione di uno scopo edificante). In primo luogo perché
sono due dimensioni realmente esistenti, alle quali l’uomo non si
può sottrarre: voglio dire che l’uomo non può eludere i rapporti
sociali che lo legano alla realtà, ma non può nemmeno sfuggire ai
problemi della felicità e del destino individuali, del dolore,
dell’amore, della morte, che nessuna società, per quanto bene
ordinata, può eliminare. In secondo luogo perché Manzoni indica
come unica possibile soluzione anche a questi problemi (nei limiti
consentiti dalla nostra natura), una soluzione sociale, la dedizione
agli altri. Infine, per concludere questa ricostruzione della
struttura ideologica che caratterizza Manzoni e determina la scelta
dell’argomento del romanzo e la sua trattazione bisognerà fare un
cenno alla situazione storica di quel periodo e alla passione civile
del nostro scrittore. L’ideazione del romanzo coincide con quel
momento della storia politica e sociale dell’Italia che vede i
gruppi di patrioti uniti nell’aspirazione all’unità e
all’indipendenza, senza che le divisioni fra cattolico-liberali,
liberali e partito di azione (divisioni inevitabili quando il
problema supererà la fase di semplice aspirazione e diventerà
concreta prospettiva politica), fossero ancora tanto nette da
caratterizzare in modo rigido i diversi gruppi e i diversi
programmi. Dire che Manzoni è un cattolicoliberale significa
proiettare sul Manzoni degli anni venti una classificazione politica
che potrà essere giusta per lui (e per molti altri patrioti) almeno
dieci anni più tardi. Significa, cioè, falsare gli atteggiamenti
politici del Manzoni nel momento in cui creava i suoi capolavori e
volersi nascondere che, allora, le sue posizioni politiche
coincidevano con quelle del "Conciliatore", con quelle dei
martiri del ‘21, con quelle cioè più attivamente rivoluzionarie
che operassero in Italia. Esse comportavano che l’unità e
l’indipendenza d’Italia non potevano essere un dono degli
stranieri, ma dovevano essere duramente conquistate, con la lotta,
dagli stessi italiani: comportavano, cioè, una maggiore fiducia nel
popolo italiano e una più chiara visione del problema nazionale.
Siffatta posizione ideale è in perfetta consonanza con le esigenze,
allora per la prima volta concretamente prospettate, dell’unità
territoriale e politica dell’Italia, esigenze particolarmente
sentite dai ceti borghesi e, in particolare, da quelli più avanzati
e moderni della Lombardia. Proprio quando Manzoni si ritirò nella
villa di Brusuglio si era conclusa con la persecuzione e con
l’arresto, l’attività del nucleo di intellettuali che aveva
dato vita qualche anno prima al "Conciliatore". Gli amici
di Alessandro erano stati gettati nelle carceri austriache da cui
usciranno solo molti anni dopo (o non usciranno più): lo stesso
Alessandro aveva temuto di essere coinvolto negli arresti. Qualche
settimana prima si era anche conclusa quell’impresa che aveva
ispirate le strofe appassionate dalla sua ode, Marzo 1821. La
meditazione su un periodo particolarmente triste della nostra storia
(quello della dominazione spagnola), la rappresentazione
dell’inerzia e dell’insipienza della classe dirigente, la
necessità della fiducia e della speranza, che egli adombrava nella
vicenda del romanzo, doveva apparirgli come la continuazione su un
altro terreno dell’impegno e della lotta dei suoi amici. Insomma,
la connotazione ideologica più profonda del Manzoni, il
denominatore comune che unifica le sue esperienze culturali e i suoi
orientamenti ideali, è quella di essere un intellettuale
"organico" della borghesia lombarda nel periodo della
Restaurazione, vale a dire della classe sociale più progressiva in
quel periodo storico, nella regione italiana nella quale essa si era
sviluppata con maggiore ampiezza e con caratteristiche autonome.
Questo è il complesso intreccio di ragioni che sorreggono
l’ispirazione ideale del romanzo.
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