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Coffee Break

Due Romani: Gra e De Renzi

Antonino Saggio

Lo stereotipo vuole una contrapposizione tra Roma e Milano. La prima è retriva, addentellata al potere e provinciale; la seconda -"cinghia di trasmissione con l'Europa"- è necessariamente d'industriosa avanguardia. Intendiamoci: c'è molto di vero. Marcello Piacentini, che ha governato l'architettura italiana tra le due guerre, non poteva che essere romano mentre Giuseppe Pagano, direttore di "Casabella", operava a Milano. Eppure quando guardiamo all'insieme delle architetture che di quel periodo ci rimangono, scopriamo che queste differenze interessano più le eccezioni che la norma, più le figure guida e gli opinion makers che il panorama costruito. La storia delle città diventa allora più complessa e difficile, ma anche più affascinante.

Navigando su due ruote per strade e piazze a volte scopriamo architettura anonime, di minori fuori dalla ribalta, ma che di una città raccontano storia e carattere. A Roma, Quadrio Pirani nelle casette a schiera di inizio secolo a San Saba, Innocenzo Sabbatini dei tanti interventi popolari dai misteriosi giardini interni oppure la fortezza navigante di Giulio Gra sul lungotevere Flaminio.



È questo un edificio rimasto a lungo senza autore tanto poco studiato ne era il progettista, ma che colpisce chiunque gli si accosti: dai cittadini comuni a un regista come Nanni Moretti che gli ha dedicato una bella sequenza nel suo "Caro Diario". Di questo edificio tutto colpisce: la mole, i colori, la modellatura del profilo, i materiali, i dettagli, il suo ergersi forte e solo sulle sponde del Tevere, ma soprattutto una sua misteriosa romanità che deve essere scoperta perché non banale citazione.



Il "Condominio Gra" sorge in un quartiere intensivo di fabbricati alti dieci e più piani, non lontano dallo stadio olimpico. Il rapporto tra architettura e città, che tante ossessioni ha creato agli architetti italiani, vi trova una sintesi. Le ragioni economiche che impongono il massimo sfruttamento del lotto non sono accettate con un'amorfa consuetudine edilizia. Pur rispondendo alla logica della ottimizzazione fondiaria, e ricorrendo al tipo edilizio consueto del palazzo ad appartamenti, l'edificio riesce a caratterizzare la morfologia dei lungotevere nel momento in cui l'edificazione si ferma per lasciare posto all'invaso in asse con il ponte che conduce al foro italico. Il fabbricato ha un impianto a "U" che apre le due braccia secondarie sulle strade laterali. Il fronte compatto sul lungotevere è espressivo anche da grande distanza. Il trattamento è asimmetrico: con un angolo regolare a novanta gradi su una piccola strada limitrofa, ma con una sagoma arrotondata e differenziata ai vari livelli sull'invaso oggi occupato dal parco adiacente creato per i mondiali del 90. Se l'architettura in città non può fare a meno della densità economica e fondiaria, qui si dimostra che massa e cubatura possono avere valenze plastiche che alla città ritornano come plus valore di immagine. In fondo è una delle ragioni dell'architettura, che non varrebbe neanche la pena ricordare.



Ma l'interesse, e l'autentica venerazione di alcuni verso questo episodio edilizio, va oltre. Il condominio Gra appare infatti uno dei pochi esempi di questo secolo che sa trarre profitto -senza ricorrere a elementi linguistici e decorativi di diretta derivazione classica- dalla lezione del tardo Rinascimento romano. La composizione viene ripartita nelle tre parti della struttura del palazzo codificata nel Cinquecento: un basamento che raggruppa i primi due piani, una elevazione che unifica i successivi tre, una fascia di coronamento all'ultimo livello. Ancorato al suolo attraverso la potente rastrematura dei piedritti inclinati, l'edificio tocca il cielo con la disarticolazione dei volumi che, nei due piani dell'attico sopra il coronamento, lascia liberi piani abitati e terrazze di creare un fluido contatto con l'aria. La metafora nautica e macchinista si intreccia a quella del tempio classicheggiante.

La vista ravvicinata permette di scoprire altre qualità. Innanzitutto di ritrovare il chiaroscuro delle architetture cinquecentesche, con i profondi coni d'ombra dell'ordine gigante che crea il sistema di accesso e scava la parte centrale dell'elevazione. Successivamente l'accuratezza dei dettagli e dell'intera costruzione. Infine il ricco cromatismo giocato sul rapporto tra quattro materiali: il travertino usato nel basamento e nel coronamento, il mattone nei tre livelli dell'elevazione, nelle torri sull'attico e nel fronte posteriore, il marmo verde all'interno dello scavo della facciata che caratterizza il doppio sistema degli ingressi.

Ma attraverso quale percorso biografico e professionale Giulio Gra è giunto a costruire questa opera così bella e singolare?

Gra nasce nel 1900 a Roma e qui studia ingegneria laureandosi a ventidue anni. Suoi maestri sono Gustavo Giovannoni e soprattutto Pietro Aschieri che realizza negli anni Venti e Trenta opere solide e oneste di architettura industriale che, senza formalismi, si richiamano a Peter Behrens e alle prime costruzioni moderniste. Subito dopo la laurea si unisce al fratello Enrico e diventa co-titolare di una solida e reputata industria di costruzioni: gran parte delle sue opere diventa il risultato di un percorso che dalla progettazione all'esecuzione copre tutte le fasi del ciclo edilizio. La solidità della ditta di costruzione, la qualificazione delle manovalanze e l'accuratezza della progettazione fanno si che anche condomini di abitazione basati su un programma economico contenuto e parzialmente finanziati dallo Stato (i clienti sono spesso cooperative di impiegati della pubblica amministrazione) presentano un'immagine e un decoro ben superiori all'effettivo bilancio. Gra rivela molta attenzione nello studiare i rapporti volumetrici e i sistemi distributivi in rapporto alle situazioni in cui gli edifici si collocano. Slarghi, incroci, assialità, viste di scorcio o frontali diventano occasioni per articolare la costruzione e caratterizzare l'ambiente circostante.

Per i primi dieci anni di attività, la sua ricerca espressiva è senza dubbio di retroguardia. Persegue un linguaggio classico cercando di permeare le sue fabbriche della plasticità tardo rinascimentale. I villini a via Sacchetti (1926-1928) e quelli a via Mangili (1928) nel signorile quartiere Parioli, le palazzine a corso Trieste (1928-1930), l'edificio a viale delle Belle Arti (1929-1930) e il palazzo in piazza della Marina (1930-1931) espongono elementi decorativi derivati direttamente da Michelangelo, Carlo Rainaldi, Giacomo della Porta: i bugnati nei basamenti, i timpani e le riquadrature a edicola per le finestre, i grandi loggiati di più piani negli elementi eccezionali del fabbricato. Spesso l'immagine si sviluppa attraverso un tipico artificio del manierismo: quello del "l'edificio nell'edificio" che vuole la presenza di parti formalmente compiute dialogare con il tutto. A oltre mezzo secolo dalla costruzione, queste architetture si arricchiscono della patina e del sapore del tempo: immerse nel verde che le circonda da ogni parte, le forme classicheggianti si trasformano in ruderi romantici che ne stempera l'originaria retorica.

Il superamento di questa fase è segnata dal Convento in via Cairoli del 1933. Qui Gra scarnifica il linguaggio, elimina gli elementi decorativi di più diretta derivazione rinascimentale pur conservando i temi progettuali e il senso classico della costruzione. Succedono al convento dei progetti non realizzati a Catania e a Novara in cui inizia a studiare gli elementi che applicherà nel suo capolavoro completato nel 1939. Il Condominio Gra è il manifesto di una strada per l'architettura romana che rimarrà in gran parte inesplorata, persino dal suo artefice. L'ingegnere infatti dopo la guerra si ritrae in se stesso e non progetterà più sino alla prematura scomparsa nel 1958.

Se esistono autori di un solo libro, scrittori che in una sola occasione nella loro vita sono stati capaci di lanciare un messaggio autentico, con Giulio Gra siamo, forse, di fronte ad un progettista "di una sola architettura". Eppure quanto ha fatto nel suo condominio sul lungotevere Flaminio, ci sembra sufficiente a dare testimonianza di una ricerca autentica e a indicare ancora una strada.

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"L'esercizio della disciplina è una condotta etica in cui il proprio mestiere è vissuto essenzialmente come lavoro collettivo all'interno di una tradizione urbana ed edilizia effettivamente operante ed è, dunque, espressione concreta di una cultura architettonica che, anche se può essere definita moderata, risulta ineccepibile sul piano della coerenza professionale". E' questa la chiave interpretativa con cui viene ripercorsa la carriera e la copiosa produzione dell'architetto romano Mario De Renzi. Il libro Mario De Renzi. L'architettura come mestiere di Maria Luisa Neri, risulta diviso in tre parti. Le prime due prendono in esame "L'opera tra le due guerre" e "L'esperienza del dopoguerra" con testi ricchi di informazioni e di riferimenti e un interessante materiale iconografico. La terza parte è un regesto di 138 progetti con i dati fondamentali di ognuno, le fonti archivistiche, la bibliografia di riferimento e alcune immagini. Si tratta di un contributo storico prezioso perché alcuni progetti non apparivano nella prima monografia curata nel 1981 da Carunchio.

Ripercorrere il lavoro di Mario De Renzi grazie a questa monografia permette di scoprire una figura di rilievo e insieme un dato contraddittorio che ne caratterizza l'opera. Se è certo condivisibile il parere di Maria Luisa Neri (che ascrive l'insieme della produzione entro una coerenza professionale moderata) in alcune opere di eccezione De Renzi dimostra una cultura aggiornata, un'intelligenza aperta e un talento di prima grandezza. La distinzione, oggi peraltro in scarsissima fortuna, tra prosa e poesia -tra produzione corrente e sintesi significativa- diventa necessaria per cogliere l'originalità del suo contributo: quattro-cinque edifici che innalzano uno smaliziato mestiere a vera espressione, superano le secche del contesto romano e dovrebbero apparire in ogni approfondita ricognizione della nostra architettura moderna. La contraddizione risiede nel fatto che la rilevanza di queste opere è risultata sin qui appannata (e sottovalutata criticamente) proprio dalla abbondanza della produzione di De Renzi. D'altronde è un dato insito nella sua stessa personalità. Una forte predisposizione naturale per l'architettura, si associa ad un "saper vivere" accomodante e romanesco che Bruno Zevi -se pur con affetto e riconoscendone tra i pochissimi il valore- non poteva non ricordare quando dopo la morte ne scrisse su L'Espresso.

A confronto con il tema dell'isolato urbano, l'architetto opera una potente sterzata stilistica: l'esaltazione della verticale, i balconi che avvolgono gli angoli, e soprattutto le grandi torri vetrate delle scale sono motivi che assorbono e rilanciano le tematiche del futurismo. Antonio Sant'Elia e in parte l'espressionismo di Erich Mendelsohn sono evidentemente noti a De Renzi. Non si tratta di una superficiale ed epidermica adesione, ma di una fonte di ispirazione che si combina alla sapiente risoluzione urbana, distributiva, costruttiva ed economica di una architettura allo stesso tempo originale e poco seguita (se non nei pochi lavori di Gino Capponi e Angiolo Mazzoni). Il valore espressivo della costruzione si condensa nella corte: simbolo di una città nella città, di una aspirazione al nuovo radicata in un tipo edilizio consueto, di una aggiornata adozione del vetro e dell'acciaio insieme alla permanenza lapidea dei laterizi nel basamento e dell'intonaco nell'elevazione. E' uno spazio carico di rimandi e di significati che non sfugge alla sensibilità di Ettore Scola che lo assume a unico scenario del suo film "Una giornata particolare".

La miscela di futurismo e verticalità si ritrova nella prima opera che realizza con Adalberto Libera, in particolare negli stilizzati fasci littori che pone all'entrata della mostra della rivoluzione fascista del 1932. Ma è nelle poste all'Aventino dell'anno successivo che un nuovo coagulo si compie. E' uno degli esempi paradigmatici di quell'incrocio tipicamente romano che ha da una parte un aggiornamento delle tecniche e dei materiali e un'adesione alla composizione per entità distinte di derivazione funzionali sta e dall'altra la persistenza di un forte valore figurale dell'oggetto. I primi si rivelano nel salone del pubblico (con le sue ampie vetrate e il trattamento del volume in vetro cemento) e nella ferrea logica dell'impianto diviso in elementi distinti (il portico, il volume della sala, i blocchi degli uffici); i secondi nel ricorso alla simmetria, al volume puro rivestito in marmo, al modo con cui le scale sono raccontate in facciata. Libera e De Renzi abbandonano la trasparenza dei dettami funzionalisti per adottare una grande cornice che solo ambiguamente rivela le scale all'esterno: attraverso il ricorso ad una geometria di travetti inclinati con angolo opposto all'andamento delle rampe. E' lo stesso procedimento usato nel retro, dove la parete è trattata con piccoli incisioni quadrate tanto da farne un evento formale a sé. La forma in questo clima assume un valore autonomo, racconta e rimanda a tutta la vicenda dell'architettura e, pur entro le coordinate del linguaggio contemporaneo, echeggia il mondo degli edifici classici che per storia e contesto è sempre presente nell'immaginario degli architetti romani.



La prima opera su cui vale la pena concentrare l'attenzione è il palazzo Federici (Cfr. Itinerario "De Renzi e Roma", Domus 730) progettato nel 1931. De Renzi è un giovane architetto di successo. Incasella un'impressionante serie di affermazioni in concorsi, collabora con uomini potenti e influenti come Alberto Calza Bini, capo del Sindacato architetti e fondatore della Facoltà di Architettura di Napoli dove De Renzi è professore incaricato di disegno. L'architetto è anche membro attivo del sodalizio dei "Cultori di Architettura", un gruppo legato a Gustavo Giovannoni e attento a riscoprire i valori radicati del patrimonio edilizio della regione. La produzione negli anni Venti si rifà ai temi consolidati del linguaggio classico. La fonte principale è -come per il suo coetaneo Giulio Gra di cui di recente ci siamo occupati- il Cinquecento Romano, che però nelle occasioni meno auliche si arricchisce di un amore sincero verso i temi dell'architettura minore e del barocco spontaneo e ingenuo degli interventi disseminati nel Lazio.



Quanto De Renzi abbia praticato e compreso le teorie legate al razionalismo nel corso degli anni Trenta emerge in un'altra delle sue opere significative: la Palazzina sul lungotevere Flaminio del '33 con Calza Bini. Qui forma e programma tendono a sovrapporsi con la chiarezza di un manifesto. Alla necessità legate all'affaccio privilegiato si lega una netta sovrapposizione dei balconi in aggetto che scandiscono il fronte in precise bande orizzontali. Ritmo e semplicità, aderenza ferrea al programma in pianta e in alzato, eleganza formale in chiave astratta si ritrovano anche nel suo disegno -di nuovo con Libera- per la mostra delle colonie del 1937, autentico manifesto di un modus operandi tutto dentro al razionalismo.

Dopo la guerra abbiamo una nuova prova della sensibilità ricettiva nell'incorporare i fermenti del dibattito architettonico contemporaneo. Nel 1949 lo troviamo con Saverio Muratori nella progettazione urbana e nel disegno di alcuni edifici del quartiere Ina casa a Valco San Paolo. Le suggestioni nordiche, forti nel clima del nostro primo dopoguerra, si innestano nel suo antico amore per l'edilizia spontanea. Il risultato è stimolante soprattutto nel modo di rapportare gli edifici alla nuova maglia urbana. Il sistema delle strade non ricalca l'asettica griglia lecorbuseriana né il pittoresco andamento del borgo del coevo Tiburtino di Ludovico Quaroni e Mario Ridolfi. Qui disegno urbano e tipo edilizio vivono di un sistema coordinato, che avrà un'altra valida sperimentazione nel quartiere Tuscolano del 1956. I tipi edilizi in linea o a torre entrano in rapporto diretto con la strada e aiutano a definire la città attraverso la continuità dei fronti o l'orientamento delle braccia della torre triangolare sugli assi prevalenti.

Ma è nel clima della nuova Associazione per una architettura organica (Apao) attiva a Roma nel primi anni del dopoguerra che De Renzi crea il suo ultimo capolavoro. Nel progetto della propria casa a Sperlonga del 1952, l'architetto si misura con le sue aspirazioni, i suoi desideri, il suo stesso talento. Il bonario e accomodante professionista rivela un io sicuro e aggressivo che appoggia sulla roccia una costruzione che dalla materia circostante trae ispirazione per profondi scavi e aggetti di una composizione che costantemente ruota su stessa. Un manifesto di grande bellezza, sapienza e vigore lasciato in eredità prima che la lunga malattia gli tolga le energie creative e lo conduca alla morte.

Antonino Saggio

[25nov2000]

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