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Coffee Break

Architettura in Sicilia. Percorsi dell'imprinting

Antonino Saggio

"Papà, Sicilia è una bella, antica città" mi dice Raffaele appena sbarcati a Messina in una notte -veramente- buia e tempestosa. È un'idea, per la verità, venuta anche a me. Circondati da questo mare blu profondo sentiamo il peso dei millenni.

La Sicilia, da quando ha conosciuto il posarsi delle costruzioni greche che usavano il mare come sfondo e la luce come materia, cerca l'architettura come inno al cielo. Messina, adagiata sulla stretta piana tra i Peloritani e il mare, Palermo -città tutta porto sotto il monte Pellegrino- o Catania, osservata in ogni suo angolo dal gigantesco Etna, sono città che esaltano il paesaggio.

Vista dal mare con la sua Palazzata in primo piano, (disegnata da Giuseppe Samonà negli anni Trenta) o dall'entroterra della sua maglia di isolati dopo il terremoto, la città dello stretto cattura le montagne, il mare, la luce cristallina nella sua immagine. Ce lo fa capire l'idea più suggestiva dei nuovi architetti italiani per la città: uno schizzo che con cinque gigantesche colonne sul lungomare rivela che architettura e città sono, qui, la stessa cosa: monumenti alla natura come il Teatro sul pendio della montagna o il Tempio in cima alla collina o al fondo della valle.



In Sicilia esiste un rapporto diverso tra architettura e paesaggio rispetto a altre parti d'Italia. La Padania è un contesto geografico che dai tempi del castro e decumano dell'urbanesimo militare romano non può sfuggire all'idea di città artificiale: sino a Aldo Rossi e Guido Canella, anche il più piccolo manufatto è prefigurazione di un'idea di città, come se la memoria della fondazione ex novo (o il misurarsi a un già esistente tutto artificiale) non possa che essere ogni volta riproposto.



L'architettura-città del nord tende a cancellare la natura, persino nei contesti dove essa è ricca: la cupola della Salute vince sul Canal Grande, la griglia romana proiettata sul fronte della Casa del fascio domina le vette di Brunate a Como. Al centro, invece, è continua stratificazione, accumulo, riuso sulle tracce della civilizzazione precedente e della natura. Roma non è una città romana, semmai un'esempio di archeologia permanente. Serve ricordare le incisioni di Gianbattista Piranesi o il sempre vivo problema del parco dei Fori che fa penetrare sino al cuore della città un sistema misto di ruderi e natura. Si capisce allora perché il ponte di tre chilometri con la Calabria è per molti siciliani da non fare. Meglio lasciare agli americani questi atti di potenza e di dominio. Nell'isola della "Terra Trema", non bisogna sfidare la natura.

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Anche chi arriva a Cefalù - prima tappa significativa per capire la nuova architettura siciliana - si identifica prima con il paesaggio che con l'architettura. La cittadina è aggrappata alla sua rocca e da questa guarda il mare. Dal centro antico e scosceso parte una via rettilinea che, nella parte pianeggiante, organizza la nuova espansione.

Cefalù è il centro in cui operano -associati da 1964- Pasquale Culotta e Giuseppe Leone. In questi trent'anni gli architetti si sono mossi in due direzioni cronologicamente successive: l'una nella città nuova, l'altra nel centro storico. Soprattutto negli anni Settanta, hanno operato a stretto contatto con l'imprenditoria privata (soprattutto la società Egv) in progetti localizzati lungo il nuovo asse di espansione fuori dalla città vecchia. Il progetto più importante, e noto, sorge proprio sulla via Roma in un isolato nelle adiacenze della stazione ferroviaria. Residenza e servizi sono integrati in tre corpi di fabbrica che delimitano una serie di spazi interconnessi gli uni agli altri. Dalla strada centrale una piazza-corte si apre, in maniera fluida e naturale, sul fronte opposto da cui si sale alla stazione. Ma il progetto è anche attraversato da altre percorrenze, alcune a terra e altre in quota. In questo modo il fronte strada -ipoteticamente il più commerciale- può essere lasciato cieco e tutta la vita del complesso centrarsi sulla piazza interna.



Emerge dal progetto la suggestione delle architetture di percorso delle mura delle acropoli o dei ruderi megalitici-greci-romani della non lontana Tindari: un continuo riannodare, aprire e chiudere, percorrere con sorpresa, ma anche con occhio vigile al circostante.



Un secondo edificio a corte su un isolato adiacente al mare, due fabbricati paralleli di sei piani e uno di testata più basso su via Palestra e un nuovo gruppo di case in costruzione su un lotto strategico tra la nuova espansione e il centro storico - sempre di Culotta e Leone - condividono caratteri e impostazioni di quello su via Roma orientare i corpi di fabbrica verso un interno da riscoprire architettonicamente (e commercialmente), legare i nuovi spazi (attraverso una rete di percorsi e camminamenti) alla città, fare di ogni occasione un tassello che, pur nella funzionalità del sistema carrabile, sviluppi la rete pedonale dall'uno all'altro.

Una interpretazione mediterranea delle architetture del razionalismo italiano e le forme libere di Le Corbusier si esaltano nell'idea che Culotta e Leone chiamano monomatericità: edifici ricavati in un unico blocco di materia in cui il colore assume un valore decisivo. Per esempio nel complesso di via Roma il bianco della costruzione contrasta con il verde usato nei camminamenti; nei due corpi paralleli a via Palestra il giallo segna la parte carrabile, il rosso quella pedonale, nell'edificio sulla medesima strada, una scultura abitata colorata di rosa diventa portico di entrata.

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La strategia di riammagliamento che contraddistingue questi progetti, si ritrova anche nella ricerca che, spostandosi dalle zone di espansione del Piano regolatore di Samonà al recupero, contraddistingue gli anni più recenti. Culotta e Leone, già a partire dalla fine degli anni Settanta, sono stati coinvolti nella progettazione prima e nella realizzazione poi di una serie di progetti nel centro di Cefalù all'interno del Piano particolareggiato da loro stessi redatto. Vale la pena di ricordare innanzitutto quelli sul lungomare tra capo Marchiava e via Pierre: una serie di piccoli progetti in cui le preesistenze (una torre, un bastione, un tratto di mura) vengono riconnessi alla città e al sistema delle scogliere. Gli scogli e la pietra lavorata (la lumachella) delle mura sono valorizzati dall'innesto di nuove strutture (scale, panchine, consolidamenti) in cemento bianco.

Il più importante intervento nel centro storico, ormai quasi finito, è quello che investe il monastero di San Domenico: un complesso del settecento composto da molti fabbricati e da una chiesa di fondazione medievale. Finalizzato a Centro studi di arti liturgiche del mediterraneo, il progetto vive tutti i temi della connessione alla città che abbiamo già visto nel nuovo. L'edificio si apre con una terrazza-giardino sulla rocca, di cui valorizza una porzione con un percorso-parco, mentre a valle una nuova rampa scavata in un terrapieno esistente connette il complesso alla stretta maglia viaria.

L'interno è una successione di eventi: la chiesa recuperata, la corte, le sale di studio e seminario (riconquistate nella loro integrità eliminando un muro aggiunto), le camere dei docenti nelle ex-celle dei monaci, il nuovo corpo di uffici a monte. Il percorso interno termina nella biblioteca dove - attraverso una serie di nuove aperture - lo studioso guarda alla cattedrale normanna a oriente, al mare a nord e sul lato opposto alla rocca rossa: le tre polarità in cui si muove l'architettura a Cefalù.

Ma ormai abbiamo capito. Questo centro è una città-laboratorio che, in Italia, forse può essere avvicinato solo alla Urbino di Giancarlo De Carlo. Con un punto anche più forte: quello che da Cefalù si è andato disseminando un modus operandi per l'isola.

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Sempre a Cefalù si incontrano tre interventi di Marcello Panzarella dentro il Piano particolareggiato di recupero: una serie di fontane e percorsi che si rimandano l'uno con l'altro, il sagrato della chiesa di S. Maria che si prolunga nella via, e due piazze sfalsate su quote diverse che sviluppano -con una misurata, ma originale interpretazione- il tema dei raccordi tra un interno riscoperto e le viuzze del centro.

Culotta e Leone realizzano nella vicina Santo Stefano di Camastra il restauro del palazzo Sergio, adiacente al Municipio, che crea una serie di spazi a giardino e un nuovo percorso al mare. Sul fronte cittadino l'idea è di valorizzare la piazza interna che definisce l'angolo nord-ovest dell'originaria urbanizzazione del centro pianificato alla fine del Seicento dal Duca di Camastra. All'interno l'edificio ospita le ceramiche antiche create in loco. Anche nel centro di Caltagirone, è ormai compiuto un intervento di ampliamento e restauro per il teatro cittadino che segna l'approdo dei due architetti verso un asciutto minimalismo che si afferma con evidenza anche nella nuova villa costruita a Monreale: un cubo puro si erge contro il cielo mentre i percorsi e gli attraversamenti sono introiettati nel soggiorno-piazza all'interno che si sviluppa attorno a tre livelli cavi. 



Ma gli stessi motivi si sviluppano anche in altri architetti. Basta guardare alla costruzione a Lampedusa di una villa di Tilde Marra, al centro sociale di Montedoro dove le nuove attrezzature (teatro, piscina, uffici, biblioteca) crescono uno sull'altra con una discontinuità planimetrica capace di adattarsi all'orografia e alle giaciture esistenti. Oppure il cimitero di Ciminna (Giuseppe Guerrera e Franco Grimaldi) o il piccolo giardino in un ex casello ferroviario a Sommatino (Ecopolis Associati) o la casa a Cefalù di Carmelo Lo Curto e Rosario Mazzola e diverse altre opere che sono state diffuse e commentate in questi anni da InArchitettura, portavoce ufficiale di questa tendenza.

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La formula che guida le opere -"l'universale dell'architettura e la specificità siciliana"- come tutte, è piena di margini di ambiguità, ma si è andata via via irrobustendo. Gli architetti accettano l'idea della contaminazione, la necessità di non arroccarsi in regionalismi o in retrive autonomie, ma al contempo sono attenti a sviluppare una loro specificità: una monomatericità colorata, una interpretazione mistica di costruzione come scultura abitata, il riannodarsi all'esistente senza rigidezze geometriche e planimetriche, la libertà degli edifici nel contatto con il cielo e il loro profondo radicarsi nel suolo irregolare. Mai una assialità, una facile simmetria, un gratuito formalismo. Sembra affermarsi quella semplicità violentemente moderna (anti-classica e anti-accademica) con cui Giuseppe Pagano rileggeva l'Acropoli di Atene. 

La base di questa sensibilità è stata la Facoltà di architettura di Palermo - di cui il preside Culotta sta per realizzare al parco d'Orleans la nuova sede mentre il partner e professore Leone ha l'incarico della sede di Magistero. La Facoltà ha sviluppato le linee culturali impostate già negli anni Settanta da Gino Pollini, Carlo Doglio, Alberto Samonà e soprattutto da Vittorio Gregotti a cui si deve la formula ricordata.

La Facoltà di Palermo oltre ai nomi citati è stata anche sede di molti altri docenti esterni (tra gli altri Aymonino, Benevolo, Bisogni, Giuralongo, Lenci, Melograni, Nicolin, Pollini, Quilici, Scolari, Tafuri, Tentori) che vi sono stati coinvolti con gradi diversi di intensità. Dal 1985 un professore di progettazione fuori sede di particolare prestigio è Francesco Cellini.

Gregotti a Palermo ha realizzato negli anni Settanta il quartiere Zen - progetto poco riuscito per un insieme di ragioni soprattutto di natura socio-politica - ma la sua recente opera sull'isola ricorda negli esiti il suo centro culturale a Lisbona.



Qui a Menfi si tratta della ridefinizione della piazza più importante del centro agrigentino molto danneggiato dal terremoto. Gregotti opera in quattro edifici che insistono sull'invaso. Su quello meridionale, avvolge con un portico di accesso i ruderi della torre dei tempi di Federico II e erige un blocco che crea un significativo landmark. A fianco alla torre - che ospita sale espositive - si sta per intraprendere il restauro di un palazzo patrizio mentre, sul margine settentrionale della piazza, è in fase di avanzata costruzione la chiesa. Sullo stesso margine è ormai completato il nuovo palazzo comunale che si estende anche lungo una via di accesso alla piazza. I volumi semplici e secchi, l'uso non nostalgico della pietra locale insieme ai profilati in alluminio degli infissi, l'orgogliosa resistenza di alcuni segni tipici del proprio stile fanno di questo esempio un successo.

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Se Cefalù ci ha dato una chiave di lettura per cogliere la diffusione di alcuni caratteri che arrivano a influenzare anche l'opera di un architetto di prestigio internazionale come Gregotti, l'altra tappa obbligata per gli esiti recenti degli architetti che operano in Sicilia è la Valle del Belice, mutilata dal sisma del 1968.



A Gibellina nuova -fondata nelle adiacenze dell'autostrada a venti chilometri più a valle della vecchia- arriviamo senza molte speranze. Conosciamo le vicende della sua pianificazione: dal piano regolatore di impronta macrostrutturale in voga negli anni Settanta (Ludovico Quaroni, Gregotti e Samonà) ai ripensamenti di una urbanistica di edifici di Oswald Mathias Ungers e agli studi coordinati da Pier Luigi Nicolin. L'esito ancora oggi è però povero dal punto di vista della sfida-città. Emerge soprattutto la difficoltà nel padroneggiare i rapporti tra infrastruttura viaria e fabbricati. Strada e case, piazza e monumenti che nella città crescono su secolari rapporti economici e sociali (di potere e di necessità) vengono reimpostate con un atto di imperio o peggio ancora con le norme tecniche di una urbanistica da zoning. In questo quadro a poco valgono le sculture di Pomodoro o Consagra in vari punti o alcuni edifici di qualità come il municipio di Alberto e Giuseppe Samonà o le recenti case a schiera nel piano di Ungers. L'inaccessibile sfera bianca della chiesa di Quaroni che sovrasta la deludente città nuova ne rappresenta un po' il simbolo: una ragione che illuministicamente plana su un territorio che le rimae estraneo.

Ecco perché due opere recenti a Gibellina assumono un valore doppio: quella della loro forza intrinseca ma soprattutto quello di rappresentare due modi di re-impostare il rapporto città architettura.

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La prima costruzione è di Francesco Purini e Laura Thermes. Non ingannino le foto che sono state pubblicate in molte riviste. L' opera è importante prima di tutto perché è qui a Gibellina e perché proprio qui dimostra che è possibile fare città anche dal nulla.

Il progetto si chiama "Le cinque piazze" di cui le terminali, una completata e l'altra no, sono veri e propri invasi racchiusi, mentre le tre intermedie -intervallate da due portali che permettano l'attraversamento carrabile- sono strade delimitate da portici.



Inseguire il gioco dei rimandi del progetto (l'acquedotto, le rovine, il giardino naturale e quello artificiale, le piramidi plantumate eccetera) meriterebbe una trattazione a sè, come soffermarsi sull'uso sapiente del partito architettonico del portico che nel ripiegarsi diventa cornice abitata da un percorso superiore.

Conviene soffermarsi sul perché questo progetto è soluzione urbana: unifica una serie di isolati frammentati e poveri di senso con nuova forma, qualità e ritmo; crea uno spazio credibile per la comunità -usato per proiezioni all'aperto e per il mercato- oltre che come strada di attraversamento; riesce a sviluppare senza cadute di gusto un tema ludico nella piazza terminale; coglie, infine, che attraverso il ricorso prevalente alla pavimentazione si conserva la qualità dello spazio senza costose manutenzioni.

Certo, a onor del vero, Raffaele ha giocato meglio nelle piazzette dei centri storici che in questa Agora. Risolvere lo stare -e non solo l'attraversare- sarebbe anche stato socialmente auspicabile, ma questa opera è l'unica a Gibellina, e una delle poche in Italia, che riesce a fondare ex novo -senza poter sfruttare le tracce e la ricchezza del già esistente- le componenti pubbliche, monumentali ed evocative della città. Nella risolutezza dell'acquedotto di Purini si sente tutto il peso dell'urbanizzazione romana: anche forte, anche imponente, anche per certi versi poco sensibile, ma assolutamente autentica.

Sempre a Gibellina Purini ha costruito anche la famosa Casa del farmacista - la prima opera realizzata, di un architetto noto sino allora per i suoi disegni. La casa risolve il tema delle variazioni del programma interno (entrata alla farmacia, accesso alla abitazione, zona del parcheggio e del giardino) come eventi da usare per caratterizzare il disadorno angolo cittadino in cui si colloca. Di fronte a questa casa, l'architetto romano ha in costruzione un edificio per appartamenti che sviluppa, come nelle piazze, il tema della cornice che si ripiega. Nella non lontana Poggioreale, Purini-Thermes stanno ultimando una chiesa in cui la loro cifra più rigorista contrasta con le colonne, gli archi, i busti scultorei del centro civico di Paolo Portoghesi.

Tornando a Gibellina, la seconda opera che segna un cambiamento di rotta, è la ricostruzione delle case Di Stefano. Si tratta di una masseria adagiata sulle colline che circondano la nuova localizzazione di Gibellina che, se pur allo stato di rudere dopo il terremoto del '68 e a un incendio successivo, era l'unica memoria storica superstite. Marcella Aprile, Roberto Collovà e Teresa La Rocca hanno valorizzato per contenere spazi culturali il sistema di recinti del modello insediativo (concepito nel medioevo per resistere agli attacchi esterni, ma successivamente usato come centro di organizzazione del latifondo). 



Centro del progetto è il grande invaso lastricato in ciottoli che, da corte del Baglio (il nome siciliano della fattoria fortificata), diventa una piazza. Una serie di percorsi perimetrano lo spazio o vi confluiscono dagli altri recinti del complesso. Il primo è delimitato da un edificio che contiene i servizi del teatro all'aperto e da un corpo lineare, tutto nuovo, che contiene uffici, biblioteca, una sala di esposizioni temporanee e termina con il ripiegarsi del muro che nasconde un giardino. Con andamento parallelo alla grande piazza interna, sulla valle si apre una terrazza delimitata dal fronte esterno della ex casa padronale -uffici, foresteria e altri appartamenti- e da un corpo a quota più bassa che ospiterà i laboratori artigiani. È un'opera di re-invenzione (suffragata da studi tipologici sulla casa rurale siciliana e sui ricordi del vecchio proprietario) sulla base di pochi elementi pre-esistenti. L'esito è un microcosmo caratterizzato sia dallo spontaneo sovrapporsi delle costruzioni dei centri minori che dal sistema delle corti regolari del potere latifondista.

I muri sono intonacati in bianco oppure in ocra chiaro e all'esterno corre un basamento in pietra levigata che diventa un elemento di continuità figurativa tra le parti lasciate libere di stabilire un libero dialogo con il paesaggio.

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Lasciare la valle del Belice con queste due inversioni di tendenza -la capacità di creare città dal nulla, l'interpretazione di un già esistente da trasformare- sarebbe sufficiente a superare le amarezze di un'occasione altrimenti perduta per l'architettura italiana. In realtà la partenza dalla terra di Sicilia è felice e carica di promesse quando scopriamo le tre opere dell'architetto napoletano Francesco Venezia.

La presenza ineliminabile del passato arcaico e il senso mistico della costruzione si trovano liricamente mescolate nella capacità di edificare il nuovo sul frammento, nel gioco attento di chiusura-apertura, interno-esterno, luce-ombra, materiale artificiale e materiale naturale.

La prima opera è il teatrino di Salemi (con Aprile e Collovà) una costruzione composta di poche cose, ma di straordinaria intensità. Si colloca nella parte abbandonata dopo il terremoto del paese a pochi chilometri da Gibellina nuova e si inserisce in una serie di recuperi che vorrebbero creare, a partire dalla chiesa oggi distrutta (ma che il portoghese Alvaro Siza e Collovà stanno recuperando) un parco urbano. Le rovine, vogliono essere rivalutate, usate come fonte di suggestioni, di giaciture, di echi. Sembrano assunti vaghi e velleitari, ma di cui si coglie perfettamente il senso quando si incontra questo teatrino che si apre sul paesaggio. Scopriamo il tema delle linee forza delle nuove mura che si proiettano sulla valle, l'uso del ciottolo di fiume incorniciato dalla stessa pietra che forma i muri, quel riammagliarsi libero e organico del nuovo povero oggetto alle stradine circostanti. Persino i pezzi di colonna incastrati nel pendio -di per sé una sin troppo facile citazione- appaiono qui necessari.

Anche a Gibellina nuova, al termine di uno dei tanti isolati di case a schiera che certo non hanno l'evocazione tragica di queste rovine sulla valle, scopriamo un altro piccolo tesoro. È il "Giardino segreto" che sviluppa il tema tutto alla Giuseppe Terragni della chiusura all'esterno, degli stretti camminamenti di entrata, del sistema delle corti interconnesse. Ma Venezia è architetto troppo ispirato per appiattirsi sul Danteum (il progetto che doveva sorgere a Roma di fronte alle rovine dei Fori). La suggestione è quella di un rudere eroso, di una casa scoperchiata come nella sua, evidentemente cara, Pompei. Acqua, pavimenti in pietra lavica che mai toccano le pareti, mura ora in tufo d'Alcamo, ora in cemento armato (che viene gettato in bande sovrapposte di diversa ruvidezza) creano il giardino. Se Purini con le sue cinque piazze dà una soluzione forte e decisa di urbana romanità, qui Venezia né dà un'altra altrettanto pregnante, ma giocata sul canto di un poeta greco.

Il teatrino a Salemi e il Giardino segreto sono due piccolissime occasioni che quasi non si possono considerare a tutti gli effetti delle vere architetture -sono di funzionalità così evanescente e vaga- eppure è architettura allo strato più profondo: architettura fatta in concerto con un passato rammemorato (aggettivo di Manfredo Tafuri che indica la differenza tra una radicata assimilazione e una facile memoria).

Ma anche quando la dimensione si dilata e viene a ospitare vere e proprie funzioni -un museo in questo caso- Venezia è capace di conservare lo stesso diapason espressivo. Anzi, se possibile, toccare nuove corde.

Vogliamo terminare questa ricognizione in Sicilia con il suo palazzo Di Lorenzo a Gibellina nuova, una delle più decisive architetture italiane di questi anni.



Sulla scorta di un frammento di facciata del vecchio paese rimasto in piedi dopo il terremoto e trasportato nel nuovo sito, l'architetto rimette in circolo tutti i motivi che abbiamo visto. Le citazioni del Danteum si ritrovano di nuovo negli stretti camminamenti di entrata, nelle entrate tangenziali di un segreto custodito che riscopre i due ordini della vecchia facciata incassati nella parete che ospita al primo piano la sala espositiva, e poi nel percorso a spirale che dalla corte conduce al piano superiore, nel camminamento che incornicia e dà profondità al paesaggio per condurre di nuovo trasversalmente alla vista della corte nella sala del "riposo" per terminare alla vista del paese mediata dai terrazzamenti coltivati.

In questa opera si rivela anche la lezione di Carlo Scarpa cha nel rifacimento del palazzo Abatellis a Palermo aveva dato una prova anche nell'isola. Le sculture disseminate, ma spesso avulse, sparse per Gibellina qui hanno la capacità di interagire con l'architettura e il paesaggio: il serpente di Pierjulio Montano che si snoda tra una feritoia della sala del riposo e il cavallo caduto di Mimmo Paladino contro il muro esterno alla quota superiore. Un simbolo -questo stupendo cavallo che guarda alla ragione continentale della sfera di Quaroni- che sembra voler rimanere sdraiato tra i ruderi del passato. Fa pensare se, nell'animo di questa terra, la bellezza tragica della caduta e della sconfitta sia una condizione che si voglia davvero superare.

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Lasciamo l'isola con la consapevolezza di aver visto e parlato solo di un avanguardia. Basta un rapido sguardo alle crescita di città e cittadine per vedere il vero meccanismo in opera: l'accettazione acritica della modernità come strumento per razionalizzare industrialmente un abuso che trasforma le consuetudine interpersonali e solidaristiche di una cultura contadina in strumenti clientelari e di corruzione. Il territorio è Cosa Nostra, non nel senso di un bene comune da valorizzare, ma come appropriazione indebita e malavitosa che dalle speculazioni in grande scala agli abusi dei piccoli attraversa per intero l'isola.

Ma queste opere, questi architetti dimostrano che è anche possibile essere contro. Oggi forse da posizioni marginali, d'avanguardia illuminata, ma con la consapevolezza che bisogna sollevarsi.

Chiedo a Raffaele, ormai sulla strada del ritorno, cosa gli è piaciuto di più delle architetture che abbiamo visto insieme. La risposta -"il mare"- sulle prime mi delude. Speravo almeno nelle rovine, nelle colonne rotte di Selinunte che mi avevano dato la lente per guardare queste nuove opere siciliane. Ma forse abbiamo ragione entrambi. Tra il mare di quest'isola e la memoria dei suoi templi e dei sui camminamenti, tra natura e passato, tra cielo e architettura vi è per intero tutta la sfida del presente.



Certo una consapevolezza dei caratteri specifici (storici, geografici, culturali), ma anche lo scambio, il matrimonio, la contaminazione. Stefano d'Arrigo, Tommasi di Lampedusa, Leonardo Sciascia, Elio Vittorini, il Nobel Salvatore Quasimodo sono sicilianissimi e universali. È una strada che non solo gli isolani, ma anche i grandi archietti italiani che qui abbiamo visto al lavoro hanno già intrapreso.

Antonino Saggio

[27nov2000]

> PAOLO FERRARA: SICILIA NON FINITA
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