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Francesco Cellini è nato e sempre vissuto a Roma e nella capitale si è laureato nel
1969, a venticinque anni. La generazione cui appartiene ha partecipato al tentativo di svecchiamento dell'insegnamento nella facoltà di
architettura, ha vissuto la stagione dell'occupazione e, passati gli anni del totalizzante impegno politico, si è dedicata alla
costruzione di una nuova identità culturale e disciplinare.
La
posizione di Louis Kahn è dominante nel dibattito internazionale degli anni Sessanta e la facoltà di architettura di Roma è un attivo
laboratorio di esercitazione su quelle idee. Franco Purini, oggi ordinario di composizione, Renato Nicolini, ex assessore alla cultura
della capitale, Claudio d'Amato co-autore di progetti e libri con Cellini, e altri architetti che hanno avuto un ruolo non marginale
nell'università di Roma come Paolo Martellotti, Roberto Secchi, Vanna Fraticelli, Fulvio Leoni, Mario Seccia e Andrea Silipo discutono
del progettare in una pubblicazione di quegli anni (Diritto allo studio, organo ufficiale dei G.A. di architettura n.5 A.II, 1966).
Già in quella lontana occasione la posizione dello studente-architetto Cellini è molto chiara: nella storia ci sono momenti di rottura e
innovazione e momenti di ripensamento. Il razionalismo ha rappresentato un cambiamento profondo, una rivoluzione che può accadere
soltanto a lunghe distanze temporali l'una dall'altra; all'oggi si addice il riconoscimento della conclusione di quel ciclo di esperienze.
"In
tutta la storia dell'arte ci sono stati momenti di improvvisa proposizione di idee nuove, cioè le varie avanguardie e il loro porsi come
rottura e alternativa globale insieme. Ci sono stati invece anche momenti di rielaborazione, di ripensamento, di sviluppo lento su temi
già proposti. Quella attuale a mio avviso è la situazione di 'accademia' del razionalismo". E Cellini continua "il problema
tipologico in senso lato è essenziale al risultato concreto ma il problema artistico è un problema perfettamente staccato da questo.
Tutto qua, non voglio sostenere che si debbano fare scuole che non si reggono in piedi o con le aule dentro le quali i bambini muoiono,
come forse sono le nostre scuole. Il problema di metodo è un altro, è che noi riteniamo che il discorso effettivo, sia un discorso
distinto e che debba coesistere con questo".
Cellini, in sostanza, vuole liberarsi dell'identità "forma uguale
funzione" e riscoprire il valore autonomo dell'immagine architettonica. Un'immagine che deve parlare della memoria dei luoghi, della
storia del costruire, dei valori percettivi, psicologici ed estetici degli uomini e non può trarre le sue ragioni solo dai meccanismi
funzionali degli edifici. Sotto questo aspetto è un anticipatore del più vivificante tema proposto dal post-modernismo, mentre estranei
al suo lavoro saranno i facili stilismi neoclassici degli adepti dell'ultima ora.
A queste riflessioni, l'architetto combina la
frequentazione, prima da studente e successivamente da ricercatore universitario, di Ludovico Quaroni, il più importante professore di
Composizione della facoltà di Roma. L'insoddisfazione perenne del maestro, la sua ricerca critica e autocritica, la sua lunga e difficile
maieutica gli si trasmetteranno giornalmente sino a divenire un dato costitutivo del suo operare.
Cellini progettista viaggierà
sempre lungo linee di ricerca che sostituiscono alla certezza della generazione precedente un voluto e precario equilibrio. La sua opera
prima, costruita alla metà degli anni Settanta, testimonia questo modo di essere e rivela cosa il giovane architetto intenda per
superamento dei canoni del razionalismo.
Si tratta di cinque edifici nell'hinterland romano disposti lungo un asse carrabile e
ognuno composto da due unità abitative.
Le case seguono il programma
noto come "bifamiliare" per il quale un unico volume deve contenere due appartamenti autonomi. Cellini non insegue l'autonomia
funzionale e la privatezza delle due unità, pur se distributivamente questa possibilità è comunemente adottata. Punta al contrario
tutta la sua attenzione sull'immagine architettonica e sulla raffigurazione della sua idea di "casa". Decide di ricondurre così
a unità volumetrica le due distinte entità funzionali e sviluppa uno schema di decisa simmetria bilaterale con un tetto a falda che
degrada dal centro ai lati. Le due unità sono cosi condensate in un unicum plastico e formale che ci parla dell'esistenza e del
valore di quella costruzione, del suo esistere quale dimora e riparo piuttosto che come "soluzione" agli accidenti del
programma.
Il superamento del quotidiano e del funzionale per
formulare architettonicamente un'idea, si rafforza ancora di più quando si considerano gli elementi usati nella costruzione: in
particolare l'inserimento nel prospetto di sei elementi circolari - vero e proprio "arbitrio" secondo i canoni razionalisti.
Eppure è proprio grazie al gioco concomitante dei pochi elementi usati che scaturisce la forza inquietante di queste case: ideali e
arcaiche come ogni opera prima; nate dalla fantasia di un dotato enfant prodige che assembla i pochi pezzi disponibili della sua
scatola di costruzioni.
Il lavoro di Cellini lungo gli anni Settanta
è stato quello del progettista in via di formazione, dotato per la manipolazione dell'immagine, ricercato da amici e società di
progettazione e con qualche buona idea di architettura. L'architetto incasella molte collaborazioni in progetti all'estero e sviluppa una
consuetudine di lavoro e di ricerca con la moglie Nicoletta Cosentino che ha svolto un ruolo paritario, e qualche volta trainante,
nell'elaborazione dei molti progetti redatti insieme. In questi anni sviluppa una conoscenza tecnologicamente avanzata che costituirà
un'arma in più nelle occasioni che gli si aprono negli ultimi tempi. Un frutto maturo è il progetto, per conto di Bonifica, di una torre
di telecomunicazioni a Shanghai dove immagine architettonica e modello statico si combinano in un risultato unitario.
La torre è una grande trave a sbalzo sul potente ancoraggio al suolo e viene
mantenuta in posizione tramite gli stralli - di nuovo ancorati al terreno - che rispondono alle fortissime sollecitazione laterali
esercitate dal vento. Nasce cosi uno schema originale di grattacielo che deriva dalla paziente e accanita ricerca di un team
multidisciplianre tra ipotesi statiche alternative che permettono di ipotizzare il raggiungimento di una altezza maggiore delle torri di
questo tipo esistenti nel mondo.
Alla metà degli anni Settanta inizia la collaborazione con Controspazio, la rivista
fondata da Paolo Portoghesi nel 1966, direttore al quale ben presto una redazione con a capo Renato Nicolini sfugge di mano. Controspazio
è una rivista povera, in carta ruvida, con brutte e poco foto. E' però una rivista fatta da intellettuali all'inizio della fase
produttiva della loro vita che riscoprono il Futurismo, il Bauhaus e ancor più significativamente alcuni maestri dimenticati come Mario
Ridolfi. In questo contesto Cellini sviluppa lo studio dell'architettura italiana del dopoguerra privilegiando gli stessi temi che lo
appassionano come progettista: il superamento del razionalismo canonico attraverso la ricchezza del costruire da una parte e attraverso la
riscoperta delle tradizioni locali dall'altra. Sotto questa chiave è utile leggere il suo interesse per Gabetti e Isola, condensato nella
monografia per Electa, e i ripetuti scritti e gli allestimenti che ha curato sempre con Claudio D'Amato per il lavoro di Ridolfi.
Nelle
pagine di Controspazio pubblica nel febbraio del 1978 un pezzo sul duomo di Civita che è in realtà un profilo autobiografico, un
modo per parlare di sé attraverso un oggetto amato.
"E proprio in questa frattura fra aspirazione alla classicità (carattere
che, nella cultura occidentale, ha sempre rappresentato l'esigenza di sintesi, conoscitiva, artistica, umana) e possibilità contingenti,
fra volontà di rappresentare e incertezza metodologica e tecnica, scopri il motivo profondo del fascino del duomo di Civita. A me poi
sembra che esso rappresenti la metafora di quello che l'architettura oggi può essere; o, per le mie personali ambizioni, il massimo
obbiettivo che mi senta di proporre. Un modello negativo quindi, un modello di 'crisi'.
Non mi pare: nel duomo non c'e' empirismo
programmato, irrisione deliberata dell'unita', ricerca dell'arbitrario. C'e' invece la ricchezza umana della sintesi non raggiunta ma
potenziale, della ricerca cosciente e faticosa, ma inesperta e quindi necessariamente empirica; c'e' quella libertà della creatività
soggettiva che diventa possibile solo in vista di obiettivi collettivi: la vitalità, insomma, del piacere di provare e non la morte del
gioco fine a se stesso".
Capire la collocazione e l'originalità di Cellini impone però uno sforzo che va oltre questi
tratti.
Un dato caratterizzante della generazione rifluita in Controspazio è notoriamente l'attenzione al momento del
disegno, della raffigurazione-prefigurazione dell'architettura. Questo atteggiamento si spiega solo con l'influsso concomitante di più
fattori. Da una parte è un voluto ed estremo ritorno al disciplinare: all'autonomia dell'architettura rispetto alle farneticazioni
sociologiche-rivoluzionarie del Sessantotto. Una seconda componente è dettata dalla mancanza di opportunità a raccordare il momento
"eroico" di riscoperta della disciplina con le occasioni offerte dal mercato locale. La predisposizione naturale -fortissima in
Cellini- per la creazione di immagini come momento di coagulo della propria ricerca rappresenta infine l'ultima non trascurabile
componente.
Ma l'interesse per il disegno, comune a un gruppo di coetanei, si rivela a ben guardare diversissimo negli esiti dei
singoli: per Franco Purini si tratta della pervicace ricerca degli elementi di una rigorosa e ascetica logica progettuale, per Giangiacomo
D'Ardia della riscoperta di tutte le valenze tecniche ed espressive dell'accademia, per Dario Passi della creazioni di "quadri"
di un ossessivo scenario urbano, per Franz Prati delle forme ideali di un nuovo medioevo, per Pierluigi Eroli della creazione di
illusionistici pastiche neo-classici.
Cellini si colloca in questo contesto in una posizione originale, condivisa forse soltanto da
Alessandro Anselmi. Il disegno nelle sue mani diventa arma esemplificativa e descrittiva di un viaggio, di un pensiero progettuale, più
che raffigurazione cristallizzata dei suoi esiti. Questo atteggiamento è riscontrabile in tante occasioni riuscite o meno. Due esempi
valgano per tutti: quello del concorso per una Piazza a Genzano e quello della mostra "Futurama" per tipologie residenziali.
Ripercorrere questo ultimo lavoro è di una qualche utilità perché Cellini e Cosentino usano questa occasione per dipanare una
riflessione vagamente antropologica sull'abitare urbano tenuta insieme proprio dalle tracce stratificate e sovrapposte di un
disegno-pensiero di evidente memoria ridolfiana.
Da questi progetti
scaturiscono alcune predilezioni espressive che giungeranno a maturazione negli anni più recenti. Da una parte c'e' il tema delle
stratificazioni orizzontali, delle fasce della costruzione che vengono sovrapposte a indicare volutamente la dimensione percettiva della
fabbrica. Gli anelli slittati del barocco Ridolfi trovano in questa raffigurazione un esito e una nuova declinazione. Sussidiario a questo
tema viaggia la presenza del muro come sfondo artificiale che esalta l'andamento del terreno e l'organicità degli elementi vegetali. Si
tratta di un muro simbolo e coagulo dell'architettura, usato anche all'interno dei rigidi vincoli della normativa residenziale come nel
caso di Lanuvio, e che viene di volta in volta arricchito da quelle variazioni volumetriche, da quelle oscillazioni planimetriche e da
quelle componenti costruttive, anche fortemente tecnologizzate come nel progetto per la Stazione Termini, dettate dal caso specifico.
Il progetto di concorso per l'ampliamento della facoltà di architettura di Roma
(redatto in un team coordinato da Dardi che successivamente si sfladò) è un efficace sviluppo del tema. L'edificio preesistente di Del
Debbio ha infatti come sfondo il nuovo corpo lineare dell'ampliamento che segue l'andamento della collina diventando perimetro e
contenimento del paesaggio e dell'edificato. In pianta il nuovo edificio è rettilineo a monte, mentre a valle ha un andamento discontinuo
definito dai setti che definiscono elastici spazi di distribuzione e di raccordo con l'esistente. Linearità e curvatura sono temi che si
ritrovano in tutto il progetto: non solo nella pianta e nell'alzato ma anche in sezione. La copertura dell'edificio è infatti voltata e
sorretta da eleganti strutture a mano aperta che ritmano un ampio percorso interno.
Il tema del muro si afferma anche come strumento per coagulare una vasta ristrutturazione urbana, come nel caso del
progetto per la comunità italiana di Milwaukee che intende creare la memoria del tessuto urbano urbano italiano all'interno di una vasta
area centrale della città del Wisconsin. La proposta si basa su tre elementi. Il primo è un lungo asse dall'andamento irregolare e con
la facciata in pietra - appunto "il Muro", il secondo è costituito da tre piazze sopraelevate che si aprono di fronte al muro e
grazie alla loro geometria regolare ne fanno da contrappunto. Il terzo elemento è costituito da un sistema di larghe vie pedonali e da un
corso d'acqua che - come sostengono i progettisti - sgorgando dalle rampe si espande in piccoli laghi e si innalza in spruzzi verticali.
Si tratta di una sintesi, verificata attentamente anche dal punto di vista della
viabilità e dei flussi di traffico distinti in livelli diversi, degli stessi elementi messi in atto nel bel progetto per il parco urbano
nell'area della manifattura Tabacchi di Bologna dove acqua, verde e costruito si combinano per valorizzare un'area industriale dismessa.
Cellini
ha lavorato per anni costruendo legami evidenti tra le ricerche teoriche e i progetti, la didattica di assistente e il lavoro progettuale
in un contesto che ha via via superato gli aspetti legati a un certo provincialismo romano e anzi ha sviluppato e ha fatto un punto di
forza del suo radicamento a una culturale locale.
E' indubbio che la personalità di Cellini comincia a emergere su scala nazionale
grazie alla promozione di Paolo Portoghesi, frequentato sin dai tempi di Controspazio. Portoghesi è un uomo intelligente e
valorizza il talento; dà a Cellini un necessario plauso critico e soprattutto lo coopta in diverse iniziative della sua Biennale: una
facciata nella Strada Novissima (doppiamente criticabile: per il tema mal posto e per la risoluzione finale che segue la via del revival
stilistico sulla elegante essenzialità della prima idea), un allegro e ironico padiglione effimero per la mostra del cinema e molti
allestimenti di mostre di cui in diverse occasioni cura anche la selezione scientifica.
Il nome di Cellini è infine incluso tra i
dodici progettisti invitati al prestigioso concorso per la creazione del padiglione Italia ai giardini. A confronto con le soluzioni di
una fascia significativa della produzione nazionale (Anselmi, Canella, De Feo, Gabetti/Isola, Grassi, Gregotti, Natalini, Nicolin,
Polesello, Purini, Venezia) la proposta del gruppo Cellini, Cosentino e Paolo Simonetti ottiene il primo premio e l'incarico della
realizzazione.
Scorrendo il progetto se ne scorgono le ragioni.
Cellini - cosi come aveva fatto per il concorso dell'ampliamento della Facoltà di architettura - opta per pochi elementi realmente
significativi, studiati con precisione e magistralmente evocati: un perimetro continuo che fa da sfondo naturale al verde e che viene
trattato con le sovrapposizioni tipiche del suo registro espressivo e un interno scandito da un sistema di mura parallele che alternandosi
in moduli grandi o piccoli ricrea la contrazione-dilatazione della struttura urbana veneziana. Al sistema ripetitivo delle mura
l'architetto sovrappone un'eccezione dal grande valore spaziale: una vasta cavità lenticolare ottenuta tagliando una serie di archi
ribassati nel sistema dei muri pralleli e il cui invaso si protende verso il giardino interrompendo il perimetro e segnando l'ingresso.
Norma e eccezione, lineare e curvo, involucro e sfondamento diventano così i calcolati parametri di una sintassi compositiva convincente.
Il
lavoro di Cellini ha segnato una posizione culturale stimolante nel recente dibattito: per la ricerca sulla pregnanza dell'immagine
dell'architettura lontana da "a priori" stilistici, per la riflessione quaronianamente autocritica ed estranea al cattivo gusto
e alle magniloquenze rappresentative, per l'attenzione alla coerenza del costruire che i suoi principali ispiratori da Ridolfi a Gabetti e
Isola gli hanno indicato, per la capacità selettiva -infine- di quei pochi elementi del progetto che realmente rispondono, ricordando una
espressione kahaniana, al "voler essere" del programma.
Antonino Saggio
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[28nov2000] |