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Alfredo Lambertucci in più di quaranta anni di attività ha firmato molte opere di
rilievo, ma conviene partire da quella più celebre: i 524 alloggi e servizi realizzati a partire dal 1972 per conto dell'Istituto
autonomo case popolari di Roma nel piano di zona Vigne Nuove. Si tratta di un'opera storicamente significativa perché viene a
rappresentare un punto di coagulo tra la cultura degli architetti di quegli anni e la generale volontà di intervento sui problemi della
città Da una parte vi è la spinta sociale e politica (è il momento delle battaglie sulla casa) che si condensa in una serie di leggi
(dalla 167 alla 865) che danno la possibilità alla mano pubblica di intervenire in grandi aree periferiche con Piani appositamente
redatti. Dall'altra i progettisti più consapevoli hanno ormai elaborato tematiche quali "la grande dimensione", l'integrazione
di abitazioni e servizi, la crescita della città "per parti", il "town-design" volte a progettazioni innovative e
adeguate all'impellenza dei bisogni. Sono temi teorici, quelli sopra ricordati, che derivano dalla riflessione innestata circa un decennio
primo da Giuseppe Samonà (L'urbanistica e l'avvenire della città, 1959) e da Ludovico Quaroni che, in un famoso progetto per
Mestre (le Barene di San Giuliano), aveva anticipato le idee che si erano andate poi sviluppando tra Roma, Milano e Venezia.
Quando Lambertucci progetta con Lucio e Vincenzo Passarelli Vigne Nuove, ha alle
spalle quattro lustri di attività che, con misura e sensibilità, ha attraversato le diverse fasi dell'architettura italiana del
dopoguerra.
La sua prima opera, la Chiesa di Consalvi nelle Marche, è datata 1953. Il progettista concepisce il piccolo edificio
come una fattoria, con le stesse dissonanze, le differenti altezze delle parti, i profondi coni d'ombra che scavano i volumi: sarebbe di
certo piaciuta molto a Giuseppe Pagano, autore nel 1936 di una ricognizione antropologica (Architettura rurale italiana) che gli
servì come arma per combattere monumentalismi e sprechi e per fare emergere il suo manifesto di "architettura corrente". Cioè
funzionale, misurata, ben costruita, aderente ai bisogni veri e non all'ego del progettista.
Dopo questa prova "neo-realista" e le case INA di Rimini, Lambertucci si sintonizza ancora con
il dibattito italiano soprattutto nell'edificio Laterza di Bari che rivela una sensibilità verso la tessitura ritmica della facciata (che
poco ha da invidiare alle opere coeve di Franco Albini e Ignazio Gardella), ma che al progettista deriva anche dalla sua diretta
frequentazione con la pittura: una sperimentazione "privata" ma evidentemente importante come lo è stata per l'amico Francesco
Berarducci. Questa attenzione alla modulazione degli elementi, ma anche alla ricerca di rapporto con l'ambiente circostante, si ha anche
nel suo Istituto di Farmacologia alla Città Universitaria di Roma (con Claudio Dall'Olio). Un'opera del 1958 che può passare inosservata
solo a chi è disattento alla sapienza della composizione delle diverse parti, alle proporzioni, al buon gusto che emana dall'intera
costruzione.
Lambertucci sperimenta in prima persona i temi della grande dimensione negli anni Sessanta in un progetto per
Secondigliano con Sergio Lenci. "Una vera e propria unità di abitazione per una città aperta e illimitata -scrive su "Il
Laboratorio" della primavera '95- che contiene al proprio interno tutti i servizi e individua una zona densamente urbana come nucleo
centrale da cui si dipartono a croce edifici lineari che vanno ad occupare per settori il parco circostante".
Sono idee che
torneranno e allo stesso tempo si modificheranno proprio a Vigne Nuove. Assieme al Corviale di Mario Fiorentino e a Tor Sapienza di
Alberto Gatti, Vigne Nuove è un'opera "simbolo". Mentre il Corviale riprende l'idea del parallelepipedo compatto dell'Unité
d'habitation ad argine tra città e campagna, Tor Sapienza quella della grande corte residenziale dell'Immeuble villa, Vigne
Nuove combinando i due modelli di matrice lecorbusieriana segna una terza originale via. Da una parte propone un'idea di contenimento
fortificato (simboleggiata dall'andamento zigzagante delle sue mura intervallate dai cilindri-bastioni dei corpi scala), dall'altra questo
circuito protegge una cittadella di tremila abitanti composta non solo di residenze, ma anche di attrezzature pubbliche alle diverse
scale, di servizi comunitari, di spazi verdi. L'insieme si articola su differenti altimetrie e collega il suo cuore di servizi con
l'intorno attraverso un ponte pedonale.
Moltissime speranze si
concentrano nel progetto: oltre al già ricordato clima dal centrosinistra, ricordiamo la convinzione, allora fermissima, che la città si
dovesse ancora estendere, magari "per parti" configurate autonomamente, la convinzione che i nuovi interventi potessero
riqualificare la periferia speculativa attraverso la dotazione di nuovi servizi, la fiducia che il seme di un abitare più moderno ed
efficiente potesse innestare dei processi a più largo raggio. E poi l'affermazione degli standard, finalmente sanciti con la Legge Ponte
del 1967, la prefabbricazione, almeno dei panelli esterni per modernizzare il cantiere, lo studio razionale dei sistemi di distribuzione e
dell'alloggio entro le grandi densità (425 ab/ha) necessarie all'intervento.
Se, inoltre, guardiamo all'edificio come oggetto
d'arte non può che farci riflettere: ci fa osservare alla città consolidata con occhi diversi, ci fa pensare alle sfide del vivere
urbano, alla volontà di rappresentare coraggiosamente un'alternativa che però si rammemora dei nostri antichi insediamenti collinari.
L'intreccio
tra il momento ideologico-politico e la forza della soluzione architettonica fa sì che Vigne Nuove assuma il rilievo di una testimonianza
cui accostarsi con il rispetto dovuto ad uno sforzo autentico. Ciò non vuol dire, naturalmente, non elaborare una riflessione critica.
Lambertucci lo fa in prima persona in un suo bell'intervento a Camerino ricordando che "L'esperienza di Vigne Nuove ha costituito,
per quanto mi riguarda, un banco di prova assai ricco portandomi alla convinzione di quanto fosse arretrata la ricerca di base sulla
qualità dell'alloggio e delle sue aggregazioni ed integrazioni in rapporto alle mutate condizioni sociali, culturali ed economiche. In
definitiva si procedeva ancora da una manualistica che aveva le sue radici negli studi degli anni '30 e da un apparato normativo con il
quale si cercava di soddisfare settorialmente nuove emergenti esigenze".
La difficoltà che Vigne Nuove, come altri progetti
di grandi architettura di case popolari del periodo, ha vissuto è stata anche quella di sperare di risolvere legittime ricerche
architettoniche (la grande scala, un'immagine innovativa e moderna dell'abitare urbano) contemporaneamente alla serie numerosissima
di vincoli ed esigenze (gestionali, culturali, economiche, psicologiche, produttive, normative) che ricadono nel contesto, certo immaturo
in Italia, dell'edilizia pubblica. Lo scontro tra la tensione al rinnovamento e la gracilità complessiva della nostra "cultura
dell'abitare" (per esempio Lambertucci, ricorda che difficoltà non trascurabile fu che gli assegnatari non avevano alcuna esperienza
del vivere in città o che in Italia manchi ancora un settore che scientificamente compia una post-evaluation degli interventi
realizzati) ha portato a difficoltà di varia natura. Ma è altrettanto vero che soprattutto da noi, bisogna lasciare del tempo
all'architettura di sedimentarsi e, a Vigne Nuove, questo processo sta dando buoni frutti.
L'architetto negli anni successivi porta
avanti tante altre sperimentazioni sia sul tema universitario che sulla casa: dalle cooperative a Ferrara, alle case a schiera a Genzano,
dal suo progetto vincitore sulle Nuove tipologie residenziali per l'Emilia Romagna alle ricerche in chiave più analitica sulle Ville nei
colli romani, o all'intervento per il Testaccio a Roma. Ci auguriamo di vedere di nuovo un suo pezzo di città che, venti anni dopo,
faccia tesoro di queste nuove ricerche e non dimentichi, allo stesso tempo, il coraggio e la sfida del vivere urbano che Vigne Nuove ha
mostrato.
Il numero 235 di "Edilizia Popolare" ci aiuta a
riflettere sull'intero arco del suo lavoro attraverso due lunghi articoli. Dobbiamo essere grati agli autori Michele Costanzo e Vincenzo
Giorgi, e alla testata che ne ha commissionato e ben pubblicato la ricerca, perché si tratta di un contributo originale e necessario per
chi voglia capire meglio l'attività degli architetti romani nei suoi progettisti di punta. Nei due articoli vengono puntualmente
ricordate, e descritte con cura, le architetture di Lambertucci e sicuramente il lettore troverà molti altri materiali utili alla propria
riflessione.
Il contributo si chiude con uno schizzo dell'architetto per l'ampliamento del palazzo di giustizia Macerata. Secondo
noi è una scelta felice perché, crediamo, si tratta di un progetto particolarmente pregnante. Contro le torri della sua città d'origine
e accanto al profilo scalettato del corpo alto da lui stesso realizzato nel 1967 si alza un cilindro puro, appena inciso con una lama
verticale, che ha accanto un tessuto basso con le nuove aule illuminate dall'alto.
Questo disegno e quest'opera basterebbe per farci capire la sensibilità e la cultura del progettista. Ma crediamo
che questo progetto, presto in cantiere, dirà molto anche su questi tempi d'oggi: lontani dalle certezza ideologiche degli anni Settanta,
ma anche più aperti al molteplice, ai frammenti, alle tensioni; capaci, ce lo si augura, di lasciare anche in Italia tracce costruite che
oltre a funzionare, ad essere ben costruite e attentamente dettagliate, facciano pensare. Ci insegnino ancora a guardare e a scoprire
relazioni nuove tra l'architettura contemporanea e il nostro passato.
Antonino Saggio
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[05dec2000] |