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L'architettura italiana non appare particolarmente reattiva. E uso un eufemismo. Forse
è vero: la capacità di rispondere ai cambiamenti, non è del nostro paese componente peculiare perché la modernità è costantemente
frenata dalle presenze stratificate del tempo, perché ancora bruciante è il ricordo delle contraddizioni dei cosiddetti anni del boom e
perché i sempre farraginosi apparati di servizio e di supporto alle decisioni impediscono quasi l'emergere delle volontà. Singolarmente,
o associati insieme, i veti vincono quasi sempre. L'altissimo indice di disoccupazione e lo stesso tasso di natalità ormai vicino allo
zero descrive un paese che, tra le nazioni occidentali, ha la progettualità più bassa.
Negli ultimi anni in Italia si è
affermata una concezione di mantenimento dello status quo che se per alcuni può essere un beneficio, per ampi settori della
società è fonte di enorme e crescente frustrazione. Nel mondo dell'architettura (professione, università, sfere dell'editoria e
dell'impresa) vi è poca apertura verso problemi nuovi, poca curiosità verso una maniera diversa di fare e vedere le cose, forte
arroccamento in posizioni e idee consolidate. Il riconoscimento della sconfitta dell'architettura in Italia comunque è unanime. Lo
confermano anche le riviste estere di settore da cui è quasi assente.
La
nostra situazione è tanto più sorprendente perché corrisponde ad una fase di grande produttività del panorama internazionale. Abbiamo
assistito tutti al decollo della Spagna, all'onda lunga della Francia, al coraggio verso le nuove sfide della Germania, all'attivismo
anche di nazioni piccole come la Finlandia o l'Austria, al costante sviluppo della ricerca architettonica in Olanda e Danimarca. E
tralasciamo gli Stati Uniti, dove gli architetti vivono un momento di euforia, o quello che febbrilmente accade oltre il Pacifico.
Gli
architetti italiani oggi guardano sgomenti il mondo: i giovani, e ce ne sono tanti di validissimi, cercano con fatica e una dedizione che
è forse pari alla difficoltà dell'impresa, un aggiornamento. Spulciano Internet, vanno magari a pane e acqua a fare un Erasmus
all'estero, si iscrivono ai seminari, lavorano negli studi d'oltralpe, fondano riviste anche on line. Gli architetti con più di qualche
lustro di lavoro alle spalle, e che hanno conosciuto fasi più produttive, guardano perplessi l'architettura che si fa nel resto mondo. E
magari fanno spallucce, tacciando quelle esperienze di irrealizzabilità qui da noi, oppure di inseguimento preconcetto di mode e di
strampalati linguaggi, oppure di aderenza a messaggi pubblicitari e superficiali o a vacui segni forti, oppure di mancanza di coerenza tra
forma e funzione, di scissione tra costruzione e immagine. Hanno difensori famosi che, a capo del sistema architettura in Italia da almeno
un trentennio, e corresponsabili della situazione, guidano ora la "resistenza" all'ondata internazionale dell'architettura.
Ma il meccanismo è vecchio. Sempre il rinnovamento dell'architettura qui è
passato attraverso forche caudine. Chi come Pagano, o Perisco o Giolli rivendicava l'imprescindibilità di una apertura europea, veniva
tacciato di traditore delle tradizioni o di internazionalismo bolscevico. In realtà quelle personalità hanno aperto una strada
praticabile, tra istanze di rinnovamento internazionale e interpretazioni nostre. E questa strada, non è stata solo delle élite ma è
stata percorsa da avventure collettive non disprezzabili. O vogliamo scordare i molti edifici razionalisti degli anni Trenta, la vitale
fase neo-realista e organica degli anni Cinquanta, la stessa tormentata ma coraggiosa idea della casa popolare del Sessanta e Settanta, i
sensibili inserimenti nei contesti preesistenti di parecchia buona architettura sino almeno alla metà degli anni Ottanta?
Ritornando
allo sconcerto di cui si diceva, spesso le critiche rispetto a quanto si fa altrove è dovuto al fatto di vedere come episodi (quindi
slegati, accidentali ed effimeri) quelli che invece sono segnali secondo noi evidenti di una trasformazione complessiva della società di
cui l'architettura sta registrando e rilanciando alcuni caratteri.
Stiamo vivendo anni di cambiamento profondo: da una società
basata sui meccanismi della produzione industriale, a quelli di una società basata sulla produzione, formalizzazione e distribuzione
dell'informazione. Il tema è già stato sondato da almeno due decenni. Il fatto nuovo è che questo cambiamento ha ora un impatto nella
aree "nostre" dell'architettura e del farsi concreto della città.
Come artificio espositivo dividiamo il tema in due
aspetti: uno che riguarda le opportunità, l'altro le conseguenze per il nostro fare.
Iniziamo dal problema delle brown areas
o aree dismesse. La società dell'informazione ha sempre meno bisogno di grandi porzioni di terreno, in particolare se dislocate nelle
città, per produrre beni manifatturieri. Il vegetale che compriamo al supermercato è al 90% informazioni (ricerca, commercializzazione,
distribuzione), lo stesso e anche di più sono gli elettrodomestici o le automobili e sempre più persone producono beni che sono
"pura" informazione. La produzione si sposta negli uffici, nelle università, nei centri di ricerca ma anche in posti una volta
impensabili come le case, i luoghi di commercio o di divertimento. Sempre meno il luogo specifico diventa in sé fattore determinante.
In questo processo che investe tutto il mondo occidentale, le aree si liberano
dalle fabbriche (che possono divenire sempre più piccole, meno inquinanti e deprivanti) e grandi risorse sono rimesse in gioco, prima di
tutto appunto quelle abbandonate dalla produzione industriale. Conosciamo la magnitudo del fenomeno e quante occasioni all'architettura di
tutto il mondo si sono aperte.
La seconda opportunità è legata ad un nuovo rapporto tra uomo e natura. Infatti se il meccanismo
di produzione industriale non poteva che sfruttare, dominare, usare anche violentemente le risorse naturali, quella della società
dell'informazione le può valorizzare. Si apre così il grande tema dell'uso consapevole delle risorse, delle fonti energetiche
alternative, di materiali più sani, di edifici più intelligenti che sappiano usare l'energia naturale invece di sprecarla inquinando.
La terza opportunità è legata al mezzo principe della società
dell'informazione e cioè l'elettronica e quindi alle nuove macchine che processano le informazioni. Ora le opportunità legate a questi
strumenti -parlare di computer o di programmi appare ormai riduttivo perché sempre più l'elettronica investe tutto, sino ai nostri
stessi corpi- sono evidenti innanzitutto negli aspetti immediatamente pratici (trasformabilità costante delle informazioni, trasmissione
a distanza, accesso a database, potenza di calcolo, supporto alla globalizzazione di cui si diceva) sia in quelli più profondi e radicali
(simulazioni, interconnessioni, integrazioni, interattività tra architettura e ambiente).
Ora veniamo al rapporto tra queste tre grandi opportunità e le conseguenze. E rimettiamoci in una posizione rigida
di chiusura, di mantenimento anche concettuale del nostro staus quo, delle nostre certezze. Possiamo per ciascuna di queste grandi
occasioni operare a un livello per così dire minimale. Usare il grande tema delle aree dismesse per immettere le griglie di una città
monofunzionale, regolare e modulata come le grandi città borghesi o quelle sognate dai funzionalisti, aumentare il quoziente di verde
attorno agli edifici, o la cura al landscaping, usare il computer per disegnare con più efficienza e rapidità.
E possiamo
ignorare chi invece pensa che quelle opportunità richiedano un cambiamento profondo nel fare e sentire l'architettura e la città.
Infatti non è affatto vero come abbiamo dovuto fare per semplificare che da una parte esistano "opportunità" e dall'altra
"conseguenze", magari indolori, passeggere, ricollocabili nel quadro cui siamo abituati. Si poteva, certo, usare il cemento
armato per rivestire gli edifici coi vecchi stucchi, o fare le fabbriche con gli archi e le colonne; prima che le novità e le crisi di
trasformazione trovino espressione ci vuole sforzo, coraggio, tensioni e scontri. Moltissimi segnali dell'architettura internazionale
dimostrano già oggi che le opportunità in vario modo collegate alla società dell'informazione determinano conseguenze "forti"
e in fondo a ben guardare necessarie. Può stupire forse che avendo come grande tema quello delle aree dismesse, emerga un sentire che si
distacchi dalle certezze tipo-morfologiche che erano state elaborate (in particolare proprio dagli architetti italiani) per operare nelle
maglie della città consolidata? Può stupire che operare in situazioni residuali, intricate, piene di intrecci tra usi, abbandoni,
oggetti si cerchi nelle pieghe di questi paesaggi poveri nuove vitalità?
A noi, invece, appare del tutto naturale che molti
guardino alle ricerche degli artisti più vicini a fenomeni di stratificazione, di residualità, di ibridazione: ai sacchi o ai cretti di
Burri, ai manifesti scorticati di Rotella, al neo-espressionismo americano di Pollock o di Rauschenberg al fronte più duro della Pop-art
o dell'Arte povera. L'architettura si insinua nelle maglie dell'esistente, usa e rilancia gli oggetti preesistenti come dei ready-made,
crea con le sue articolazioni dinamiche spazi interstiziali "tra" nuovo e preesistente. Ora di questa tensione è piena
l'architettura internazionale. Relegarla nella facile categorie "della moda" o "del linguaggio" è riduttivo e,
crediamo, improduttivo.
Tornando ai rapporti natura-architettura, è chiaro che all'interno di questo interesse sempre più
l'architettura tenda a porsi come paesaggio. La natura cui questa concezione di architettura guarda non è però più quella floreale o
liberty o neanche quella dei maestri dell'organicismo, controcanto umano alle verità macchiniste dei funzionalisti. È diventata una
natura molto più complessa, molto più nascosta ed è sondata con occhio anti romantico attraverso i formalismi della scienza
contemporanea (i frattali, il dna, i quanti, i salti di un universo che si espande il rapporto tra vita e materia). Nascono in questo
contesto le figure dei flussi, dell'onda, dei gorghi, dei crepacci, dei cristalli liquidi e la fluidità diventa parole chiave.
Le
opportunità di confronto con la natura e le grandi aree dismesse nelle città innescano il tema del "risarcimento". In zone
spesso costruite a densità altissime si può iniettare verde, natura, attrezzature per il tempo libero. Ma si tratta forse di
circoscrivere e recintare aree verdi, da contrapporre a quelle residenziali, terziarie, direzionali come era nella logica dell'organizzare
dividendo della città industriale? La tendenza che si sta affermando è al contrario nel cercare sempre più di creare nuovi pezzi di
città integrate dove, accanto a una forte presenza di natura, siano attive l'insieme interagente di attività della società
dell'informazione. Oppure di Eurolille o di Postdamer platz o di Battery Park ci interessano solo le forme?
Ed ora veniamo al terzo
legame quello ancora più stretto tra informazione (o società dell'informazione) e architettura.
L'architettura è, come è ben
noto, disciplina polisemica. Sin dall'antichità essa è stata vista come sintesi tra diversi che, almeno in un primo momento, erano
corrispondenti alle tre grandi aree della costruzione, dell'uso e della forma. L'architettura affermatasi negli anni Venti ha cambiato
completamente i contenuti delle tre grandi aree (una costruzione non più continua per mura ma discontinua per punti, una funzione non
più rivolta esclusivamente ai temi aulici ma a quelli della società di massa, e un estetica che sostituiva i vecchi cardini figurativi
degli ordini e della prospettiva con quelli astratti dei movimenti del nuovo mondo meccanico). La necessità verso la sintesi però, non
solo persisteva, ma era ancora più forte perché l'architettura voleva aderire alle spinte verso la serializzazione, la tipizzazione, la
razionalizzazione della produzione industriale. Ne conseguiva che, come per l'oggetto d'uso, essa aveva tanto più valore quanto più
funzionava come sistema di coerenze: la forma doveva seguire la funzione, gli spazi interni dovevano essere manifesti all'esterno, la
costruzione doveva essere solidale con gli altri aspetti e resa per quanto possibile manifesta. Questo processo verso l'intima coerenza
del progetto ha trovato il suo apice nell'opera di Louis Kahn che, a seconda dei casi, alcuni vedono come l'ultimo dei grandi maestri
della prima generazione del secolo e altri, invece come il più forte perturbatore.
Ora, se vogliamo usare una formula di comodo,
l'architettura di oggi è violentemente, assolutamente, anti-kahniana. Vuol dire che alla ricerca di intima coerenza e di assoluta e quasi
tautologica sovrapposizione (per il maestro americano forma è funzione, forma è costruzione) corrisponde un processo opposto di
liberazione, di sganciamento da ogni sistema preordinato gerarchicamente. L'architetto invece di essere in cima a una piramide di scelte
da governare e gerarchizzare cerca un percorso all'interno di una rete di scelte che sono interrelate, complesse, anche in parte
indeterminate e casuali rispetto alla sua volontà. E questo avviene a tutte le scale: Small, Medium Large e soprattutto Extra large,
cioè nei sistemi urbani e territoriali come Rem Koolhaas ha teorizzato con evidenza.
Il problema ovviamente non è quindi di moda
o di linguaggio. Viviamo una produttività che non è più legata alla duplicazione di un oggetto di serie ma nel processo contrario di
personalizzazione, di individualizzazione, di apertura alle informazioni al costante mutamento, all'istantaneità delle risposte, al
riconoscimento delle creatività individuali, allo spargere in rete le informazioni. E nel pensiero filosofico, artistico, scientifico non
aderiamo più né alle regole tassative del Rinascimento, né alla ricerca di sistemi equilibrati, coerenti e chiusi di buona parte di
questo secolo, ma ad una accettazione della complessità. La strada dell'architettura, come in un ipertesto, è ogni volta da tracciare.
Tutto questo è anche pauroso, angoscioso, drammatico come sempre accade quando
ci si aprono nuove possibilità, nuove libertà. Per esempio la forma invece di trovare le sue ragioni come espressione della funzione
cerca sempre più messaggi metaforici, traslati, concettuali. Un edificio oggi non è più buono solo se funziona, come un automobile non
è più valida solo se e quanto cammina, entrambi devono dire e dare molto di più. Apparentemente è il contenitore che stravince sul
contenuto, nella realtà sono le "informazioni" che entrambi veicolano il nuovo valore.
La vecchia eticità della
corrispondenza forma-costruzione è spezzata e anche la costruzione cerca la sua strada di ottimizzazione. Un progetto ormai si può
costruire in molti modi diversi. La funzione si estende a una serie ancora più estesa di connessioni, prima di tutto con il contesto
circostante. Un risultato evidente di questa opera di slegamento, di parzializzazione, di liberazione, se si vuole di settorializzazione,
è quella di avere, spesso, edifici estremamente più efficienti dal punto di vista squisitamente "funzionale" rispetto al
passato, a volte molto più intriganti, e in fondo per quanto assurdo possa all'inizio apparire viste la loro apparente complessità,
anche più realizzabili. Anche perché il computer e l'elettronica che abbiamo visto giocare un ruolo di causa poi diventano strumento
potentissimo nella prefigurazione geometrica, nel calcolo, sin'anco nel taglio ad hoc dei pezzi. D'altronde se questo non fosse vero, non
si capirebbe come mai tanta architettura basata su questi principi si realizzi all'estero. Hanno tutti torto?
Tornando allo status
quo e al suo superamento. Guardare con il naso all'insù queste realizzazioni e duplicarne acriticamente le ondulazioni zigzaganti o
avvolgenti appartiene a una fase primitiva e iniziale. Intendiamoci, non negativa a mio avviso, più di quanto lo sia quella di copiare
acriticamente qualunque modello. Si tratta di capire il quadro in cui queste sperimentazioni si svolgono, verificarne il grado di coerenza
con le situazioni in cui si opera senza eccessive forzature, ma neanche troppo subitanee rese. Soprattutto, in particolare per chi ha poco
o nulla da mantenere, è necessario aprirsi con curiosità e interesse ai nuovi fermenti. Il mondo sta cambiando, si aprono nuove crisi e
insieme nuove opportunità.
Antonino Saggio
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[10dec2000] |