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Socialista e femminista, critica d'arte e giornalista, ispiratrice del primo duce,
appassionata amante e sua biografa ufficiale, grande promotrice delle arti dal Futurismo ai primi anni Trenta, Margherita Sarfatti è
ricordata come una delle donne più potenti d'Italia.
Nasce nel 1880 a
Venezia da una facoltosa famiglia ebrea. L'educazione rigorosamente privata seguita da tre precettori di qualità (Pietro Orsi, Pompeo
Molmenti e soprattutto Antonio Fradeletto), unita al clima d'èlite intellettuale che si respira nel palazzo di famiglia sul Canal grande,
determina una precoce apertura verso le arti, le lettere, la storia e le lingue. Ma è il terreno che si rivela straordinariamente fertile.
Margherita Grassini ha una personalità vivacissima, forte, anticonvenzionale. Per i canoni del tempo è anche molto bella. La giovane via
l'illuminismo si apre al romanticismo socialisteggiante di John Ruskin e per questa strada ideale, etica, filosofica e sentimentale approda
al socialismo come a una sorta di "religioso umanitarismo". Il matrimonio nel 1898 con il penalista Cesare Sarfatti è fortunato
La coppia si sposta a Milano dove il marito si iscrive al partito socialista sino a diventarne l'avvocato di punta. I coniugi sono vicini a
Filippo Turati e Margherita rivaleggia con Anna Kuliscioff e Angelica Balabanoff, le due donne chiave del socialismo italiano. Ha un
salotto letterario che diverrà sempre più animato e intrattiene rapporti di amicizia con la poetessa Ada Negri.
Comincia la sua
attività di critica d'arte dalle colonne dell'Avanti e in questa professione, assolutamente inusuale per una donna, ha presto
importanti riconoscimenti. Milano è fervida d'idee e di iniziative e Filippo Tommaso Marinetti un ruolo di dirompente novità. Margherita
stringe amicizia con i pittori futuristi primo fra tutti il geniale Umberto Boccioni, il torvo ma dotatissimo Mario Sironi e Achille Funi a
cui più avanti dedicherà una monografia. La vita scorre intensa e anticonformista, allietata da tre figli. È la Belle époque anteguerra
e i coniugi comprano a pochi chilometri da Como una casa di campagna in cui pittori e artisti, poeti e amici saranno ripetutamente e a
lungo ospitati.
È in questo contesto che irrompe nella scena un giovane focoso, grande oratore, violento
e visionario. Un uomo del tutto o niente. Attraverso le colonne del giornale del partito socialista di cui prende la direzione comincia a
dare energiche spallate all'impalcatura del socialismo riformista. Fa muovere un'ala del partito verso l'interventismo con uno spostamento
determinate per le vicende del paese. I Sarfatti sono attratti da Mussolini e vi si avvicinano, anche perché Margherita ortodossa
socialista non è mai stata, anzi, La Voce di Giuseppe Prezzolini non era inascoltata.
È proprio l'adesione interventista
che realizza il primo ibrido della storia della Sarfatti (e del successivo ventennio): il socialismo, per sua natura internazionale e di
classe, sposa una causa nazionalista che ne è l'opposto. La guerra è però anche lutto e dolore perché, appena diciassettenne, vi perde
la vita il primogenito Roberto.
La relazione con Mussolini si sviluppa dopo
la guerra e questa straziante perdita. Sono gli anni decisivi in cui si dispiega il massimo dell'influenza politica di Margherita Sarfatti
sul fondatore del partito fascista. Il ruolo pubblicitario della biografia Dux (tradotta praticamente in tutte le lingue) è noto
già dal monumentale studio su Mussolini di Renzo De Felice e da quello più agile di Dennis Mack Smith, quello che svelano gli autori è
la funzione giornaliera di mentore, di collaboratrice, di ispiratrice della Sarfatti nell'aiutare Mussolini a raggiungere i pieni poteri e
poi a modellarne "la figura di dittatore quale novello Cesare". Ma quello che dal nostro osservatorio è particolarmente
rimarchevole è come a questa azione politica corrisponda, di nuovo attraverso la Sarfatti, l'ambizioso progetto culturale che ha preso il
nome di "Novecento".
La grande carneficina della guerra spinge anche i più dichiarati artisti d'avanguardia all'autoriflessione.
Lo stesso Boccioni riscopre massa e volume in uno dei suoi ultimi lavori prima dell'improvvisa scomparsa. Nell'Italia del dopoguerra assume
importanza crescente una rivista (Valori Plastici) che del volume e del chiaroscuro (contro il piano a-prospettico di Cubismo e
Futurismo) fa la sua bandiera. È in questo clima che fa breccia la Sarfatti teorizzando e esaltando una nuova idea, un nuovo ibrido: lo
sposalizio tra modernità e tradizione, tra valori classici e gusto contemporaneo. Non è un'operazione così banale come parole ed
etichette possono nascondere. È un progetto culturale che vede nella seconda metà degli anni Venti -negli anni che in tutta Europa
segnano il Ritorno all'ordine- coinvolti praticamente tutti i pittori italiani (a parte, su fronti opposti, i neo-impressionisti di Torino
e alcune frange di Strapaesani toscani).
La "Regina senza corona del fascismo" lavora alla creazione di un movimento
artistico che, come il fascismo, sintetizzi idee antitetiche. È un parallelismo di metodo che porta a un analogo ibrido perché
"Novecento" -incrocio di arte moderna (o internazionale) e arte classica (per definizione, italiana)- diventa un contenitore
molto capiente così come un contenitore è stato, per esempio, il corporativismo, miscela fumosa di capitalismo e socialismo.
La
Sarfatti evita accuratamente che il suo movimento assuma i toni di una esaltazione propagandistica del regime (come sarà il realismo
socialista di Stalin). I soggetti, anzi, sono spesso dolenti e ben poco eroici (basti pensare ai quadri di Sironi o a quelli di Carlo
Carrà in questa fase). Il Novecento sarà duramente criticato dall'ala più gretta e conservatrice del regime perché l'esperienza rimane
sostanzialmente autonoma dai contenuti della politica ed è in questa rivendicazione di autonomia artistica -di buon gusto e di cultura-
che risiede il più grande merito storico della Sarfatti.
Il Novecento è rimasto intrappolato nelle feroci censure del secondo
dopoguerra, di recente è stato esaltato forse al di là della sua effettiva portata. Comunque è ha avuto una forte influenza e la
Sarfatti vi ha giocato un ruolo decisivo diventando per alcuni anni -aiutata dall'avallo e l'autorità di Mussolini- la principale
referente in materia d'arte in Italia: presente in tutte le manifestazioni, promotrice delle mostre del movimento, infaticabile produttrice
di articoli, saggi, libri. La stagione è però breve e si esaurisce già nei primissimi anni Trenta.
Anche nelle vicende
dell'architettura il ruolo della Sarfatti non è affatto secondario pur se fin'ora ampiamente disconosciuto. È il 1925 l'anno decisivo,
quando alla Mostra di Parigi la critica d'arte coglie tutta la distanza che intercorre tra l'accozzaglia stilistica del padiglione italiano
di Armando Brasini (che pur aveva sostenuto) e la nettezza geometrica della costruzione dell'Esprit Nouveau. La necessità di un
drastico rinnovamento nell'architettura propugnata dalla Sarfatti dà, a poca distanza di tempo, i suoi primi frutti. Già alla terza
esposizione di Monza nel 1927, quello che sprezzantemente aveva definito una "retrospettiva etnografica", diventa grazie alla sua
presenza nel comitato direttivo e a quella di Sironi (con Carrà e Ponti) una manifestazione meno provinciale. Si realizza "la strada
dei negozi" dei torinesi ma soprattutto una sala è destinata a giovanissimi laureati del politecnico di Milano. Il Gruppo 7 incarna
il clima "deliberatamente sovversivo" voluto dal comitato direttivo e offre le prime proposte di svecchiamento della nostra
architettura con le coordinate macchiniste e funzionali, poetiche e geometriche dello "spirito nuovo" di Le Corbusier.
Ancora molti sono gli episodi che potrebbero essere ricordati (il sostegno alla Prima
esposizione romana di architettura razionale del 28, a quella per il Decennale della rivoluzione del '32, l'appoggio alla Stazione di
Firenze del gruppo toscano di Giovanni Michelucci) tanto da far scrivere agli autori che la Sarfatti "con la sua riuscita campagna a
favore dell'architettura razionalista, aveva contribuito a cambiare il volto dell'Italia Fascista".
Il giudizio è forse troppo
deciso, ma quanti studiosi avevano intuito la possibilità di questa affermazione? Agli specialisti dell'architettura del Ventennio
circostanziare, dosare o ribaltare quest'affermazione. Da questo volume essa appare plausibile anche perché la successiva adozione di uno
scheletrico e neoclassico stile littorio coincide con la progressiva emarginazione della Sarfatti. Alla metà degli anni Trenta è ancora
attiva come ghost writer di Mussolini (scriveva in bozza gli articoli pubblicati a nome del duce sulla stampa estera) ma, mano a
mano che l'accordo con Hitler procede, l'ex amante viene emarginata e poi costretta a un, seppur dorato, esilio.
Il dopoguerra è
quello di una sopravvissuta. Emerge una donna anziana troppo carica e truccata, a volte avida e interessata. Il suo tempo è passato. Muore
a Roma nel 1961.
Eppure, se per avere un'intuizione sulla forza di una personalità anche un particolare può servire, basti pensare
che la Sarfatti capisce senza indugio dov'è il vero genio, la vera arte dell'architettura in Italia. Dà infatti a un giovanissimo
architetto di Como, lei che tutti conosce ed è circuita e adulata dall'abile accademico Marcello Piacentini, la costruzione per lei più
importante. La tomba monumento per il figlio, ucciso mentre combatteva sul Sasso Rosso una battaglia decisiva del nostro esercito nella
prima guerra mondiale. Non è un caso. La Sarfatti andava sovente nello studio di Como, negli anni Trenta parlava con Giuseppe Terragni,
criticava i suoi progetti anche per iscritto. Avevano idee diverse, ma Margherita Sarfatti possedeva la sensibilità per capire, cercare,
proteggere il talento e l'arte.
Il libro di Cannistraro e Sullivan, Margherita Sarfatti,
L'altra donna del Duce rappresenta una lettura che ci sentiamo caldamente di consigliare. Per quella che ci appare un'inappuntabile
ricerca storica (sintomatica, crediamo, la dedica a De Felice), per l'aver colmato un vuoto, per le nuove informazioni sull'architettura
italiana che fornisce, ma anche per quella capacità rarissima di superare il dato storico e biografico e far sentire, tra le righe, il
dolore e la gioia della vita vera.
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Filippo Tommaso Marinetti fu senza dubbio un genio: abbracciò letteratura, cultura,
politica e influenzò tutte le arti. Aveva chiarissimo il nemico da combattere: l'accademia statica e nostalgica, e altrettanto chiara una
nuova grande proposta. Arte e vita devono essere d'oggi, celebrare la rivoluzione industriale con tutti i mezzi: il movimento, la macchina,
le parole in libertà, il superamento di ogni rappresentazione unitaria nel teatro, nel cinema, nella fotografia, la rottura delle forme
chiuse in pittura, scultura, architettura. Uomo post-risorgimentale e nazionalista, non poteva che esaltare la Quarta guerra di
indipendenza, ma pagò di persona: nella partecipazione a quella del 15-18, e in una sofferta coerenza sino all'ultimo con il fascismo, cui
fu onorato da titoli, corresponsabile per la nascita, ma culturalmente tradito.
Il volume Marinetti,
Arte e vita Futurtista approfondisce le varie fasi. L'infanzia africana che segnerà la poetica di Marinetti perché il mito
industriale, modernista e macchinista sarà sempre "controbilanciato" dai richiami primitivi, a metà tra il magico e il mitico,
di quell'infanzia. La giovinezza tra Parigi e Milano in cui lo spregiudicato e ricco intellettuale-poeta cerca una strada echeggiando
motivi del simbolismo nel costante incontro-scontro con Gabriele D'Annunzio. La prodigiosa nascita il 20 febbraio 1909, del Futurismo, il
primo "ismo" che crea il concetto stesso di Avanguardia.
Naturalmente questi capitoli (Sfida alle stelle, Caffeina
d'Europa, La guerra) sono particolarmente densi e di volta in volta le azioni promozionali, il proselitismo, la carboneria dei sempre più
numerosi aderenti, il progressivo coinvolgimento delle altre arti, l'azione politica (in una ambigua miscela tra innovazione, esaltazione
della guerra e temi sociali) sono trattati con una solida impalcatura storica. Nel dopoguerra l'attenzione di Claudia Salaris si concentra
sulla precoce marginalizzazione politica del movimento di Marinetti a opera del realista Mussolini, e all'apertura di altri fronti di
ricerca (il Tattilismo, l'Aeropittura). Qualche cenno, forse troppo rapido dal nostro punto di vista specializzato, è dedicato ai rapporti
di scontro con il Novecento e alla nascita del Razionalismo architettonico.
Il fatto è che il fascismo divenuto Stato, dà una
feluca di Accademico a Marinetti, ma non può che progressivamente mettere tra parentesi il suo squadrismo culturale e la sua continua
tensione innovatrice. Pur avendone usato temi e motivi nella sua fase di formazione, il fascismo adotterà prima il Novecento di Margherita
Sarfatti, che con il suo programma di incontro tra tradizione e modernità traslava nell'arte quello che Mussolini si riprometteva in
politica, poi, per una breve e ambigua stagione il Razionalismo, ma a partire dal 1937 sarà il celebrativo, iconico, simmetrico e
simbolico Stile littorio di Piacentini il più adatto ad accogliere le parate del nuovo Patto d'acciaio tra l'Italia e la Germania
hitleriana.
Nell'architettura il futurismo in realtà non si è mai affermato con chiarezza. I
disegni di Antonio Sant'Elia, scomparso giovanissimo nella I guerra, sono un manifesto tematico (centrali elettriche, ascensori, slanci
dinamici, nuove città) più che lo sviluppo di una solida base di ricerca espressiva e tecnologica e i disegni di Mario Chiattone solo
deboli repliche. Alberto Sartoris costruisce qualche piccolo padiglione, Fillia cerca di lanciare l'architettura futurista anche
pubblicisticamente ma senza successo. Alla Mostra del decennale del Fascismo nel '32 Terragni realizza la sala "O" cogliendo
nella sintassi plastica e pittorica futurista la chiave più adatta per celebrare l'ascesa del fascismo.
Luciano Baldessarri e soprattutto Mario de Renzi nell'edificio a viale XXI aprile a Roma,
sviluppano per poi abbandonarli alcuni motivi futuristi. E in Enrico Prampolini, che ha qualche occasione di disegnare monumenti o
scenografie, pesa troppo la formazione di pittore.
Alcuni dei temi di Sant'Elia si
affermano in opere di Angiolo Mazzoni che realizza molti edifici pubblici tra cui la nuova Stazione Termini a Roma. Il grande edificio
parte dalla Porta Maggiore con espliciti richiami alle tematiche futuriste, (rampe, scala elicoidali, composizione dinamiche delle parti),
per irrigidirsi progressivamente nel suo avvicinamento alla piazza dei Cinquecento prima con elementi di derivazione metafisica e infine
decisamente accademici. È il simbolo della progressiva emarginazione del futurismo nell'arte italiana tra le due guerre.
Il volume della Salaris darà al lettore interessato decine di spunti, informazioni e
riflessioni consentendo di seguire anche le vicende personali di Marinetti ("cuore afoso e mente fredda", ha scritto Luciano De
Maria). Alla fine della sua vicenda riemerge con forza il centro, la forza storica della sua azione.
"In realtà il poeta,
lungi dall'essere un 'disorganizzatore' è piuttosto un organizzatore di tipo nuovo, l'inventore dell'idea stessa di avanguardia artistica,
la cui esistenza si alimenta della dialettica di due elementi opposti: distruzione e organizzazione. Nella prassi e nella teoria futuriste
-continua la Salaris- gli aspetti nichilistici si uniscono appunto a quelli costruttivi, in una progettualità globale e
caratterizzante".
Per i Futuristi, per la prima volta il problema della bellezza diviene esplicitamente estraneo a quello
dell'arte. L'arte diventa negativa, critica, distrugge il noto, il codificato per lanciare attraverso questa rottura il domani. È una
nuova tensione conoscitiva alle crisi del mondo che legittima la nuova estetica. Non solo; tanti e tanto forti sono i germi gettati in
quegli anni da Marinetti e dai suoi straordinari compagni di viaggio (Carrà, Palazzeschi, Lucini, Russolo) che alcuni di essi sono stati
ripresi e capiti solo oggi; ma del perché un architetto come Peter Eisenman non possa fare a meno di Giacomo Balla e uno come Gehry di
Umberto Boccioni, abbiamo già parlato.
Antonino Saggio
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[22dec2000] |