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The Un-Private House è il libro-catalogo della omonima esposizione al Museum of
Modern Art di New York. La mostra è ancora visitabile in un sito
Internet veramente completo, interessante e godibile. Abbiamo visitato al vero la mostra e apprezzatone l'allestimento, ma
possiamo assicurare che un'attenta perlustrazione del sito virtuale consente una esperienza sostitutiva di tutto rispetto. Nel sito sono
presenti tutte le ventisei case esposte ed attraverso i legami interattivi tra pianta e foto è possibile farsi un'ottima idea di
ciascuna. Inoltre si può leggere l'opinione del cliente, quella dell'architetto e soprattutto avere il parere Terence Riley che ha
organizzato il volume e la mostra attorno a tre scelte fondamentali.
La prima, evidentemente, è riprendere il tema della casa.
Estranea al curatore è ogni impostazione tipologica, distributiva o classificatoria. Il fatto è che "tutta l'architettura è
illuminata dal problema della casa" (è l'epigrafe di Jean Helion usata all'inizio della sua introduzione al volume) e quindi, oggi,
studiare e analizzare la casa è un osservatorio per capire l'architettura tutta.
Seconda decisione è abbandonare linee
organizzative basate sul "linguaggio" architettonico perché il problema sostanziale è di contenuto. Capire cioè come i
progettisti cerchino risposte alla complessità, all'interrelazione, alla connettività insomma verso al grande tema e problema della
Rivoluzione Informatica. E questo ovviamente almeno nelle sue tre linee fondamentali: l'emergere di nuove modalità d'uso e di vita, la
presenza di nuovi apparati tecnologici e informativi e infine l'eco "estetico" dei primi due aspetti nelle scelte spaziali,
concettuali, costruttive, espressive.
Terza decisione, assolutamente cruciale per ogni operazione critica, è "chi sta
fuori e chi sta dentro". Non entriamo nei retroscena che l'invito in un così prestigioso museo (basterebbe ricordare la mostra del
1932 The International Style e quella del 1988 Deconstructivist Architecture) ha sicuramente generato. Qui non ci sono né Gehry di cui la
marsupiale e meandrica Lewis House merita un ricordo, né Peter Eisenman con la sua Virtual House, né Philip Johnson con i suoi levigati
e brancusiani ultimi padiglioni a New Canaan. Fuori sono anche Meier, Botta, Ando per citare tre architetti che su questo specifico tema
hanno per molti anni dominato la scena internazionale.
Invece che puntare sulla grandezza della sintesi architettonica con una
mostra "all stars" la decisione di Riley è stata di centrare l'attenzione sui contenuti, sugli orizzonti, sui nessi nuovi che
si stanno aprendo. Insomma, per domandarsi "Quali aspetti della vita contemporanea sono meglio presentati nei nuovi progetti" e
"Quale è il problema della casa alla fine del 20esimo secolo", attorno a pochi nomi affermati, Riley ha invitato parecchi nuovi
progettisti perché ciascuno è in grado di presentare uno spunto, di dare un'idea, di aprire una direzione e una possibilità. Quali esse
siano è il compito del suo saggio the The Un-Private House spiegare.
La direzione principale dello scritto introduttivo è
tracciare un filo che va dall'idea "privata" di casa (che richiama gli interni di Vermeer e segna l'affermarsi di una cultura
mercantile e borghese che a partire dal XVII secolo celebra nella casa l'intimità, la privatezza, la separatezza dal mondo del lavoro -
tanto da far considerare i senza casa dei potenziali criminali, come scrisse Kant) da questa idea privata di casa, dicevamo, all'idea di
una casa "non" privata. Un luogo aperto e ricettivo, attivo e connesso in cui il ruolo stesso delle tecnologie digitali apra
verso l'esterno e faccia rientrare il mondo pubblico in casa. Tanto è vero che la sfera lavorativa permea fortemente molti ambienti
domestici qui presentati.
Se il filo private-unprivate dà la spiegazione del titolo, lega le varie parti del saggio, fa
superare senza eccessiva pesantezza il gioco della citazione erudita, struttura le riflessioni sul perché delle opere presentate, Riley
affronta anche altri nodi concettuali: il ritorno di Mies; la tendenza alla eliminazione delle separazioni tra pubblico e privato, tra
maschile e femminile, tra azione e riposo; infine la necessità di un ampio ricorso alla geometria topologica. Vorremmo anzi aggiungere
che se la geometria euclidea è assertiva, assoluta, consequenziale e lineare, quella topologica è femminile. Cioè circolare,
contestuale, relazionale, avvolgente e antiscatolare. L'autore scoperchia dei veri nodi ma si ferma sempre un attimo prima di affondare il
nesso, la conseguenza. È una tecnica per proteggere la sua intuizione critica e usarla in altre occasioni, per esercitare una implicita
maieutica con il proprio lettore o per mandare messaggi subliminali ai suoi colleghi critici o architetti?
In
ogni caso l'operazione culturale The Un-Private House dimostra che se a un intellettuale di valore si danno degli strumenti e delle
risorse l'interesse è garantito. Dietro alla mostra, come al libro, non vi è un comitato generico e de-responsabilizzante (come troppo
spesso avviene in Italia) ma una mente e una volontà critica. Si può dissentire, ma la tesi è esposta con chiarezza.
Dal nostro
punto di vista, dalla mostra e dal libro emergono nettamente tre opere, e non perché non siano brillanti i lavori di gran parte degli
espositori. Ma ometto i nomi del Mies, del Le Corbusier e del Kahn di domani. Più utile è farsi una opinione personale, leggendo il
libro o visitando l'esposizione virtuale con i lavori di tutti gli espositori: Dubbeldam, Lupo-Rowen, Herzog&de Meuron,
Diller+Scofidio, Hariri&Hariri, MVRDV, Bell, Tschumi, Ban, Maltzan, de Menil, Scogin Elam &Bray, Farjadi-Farjadi, Koolhaas, de
Geyter, Sanders, Preston Scott Cohen, Simon Ungers con Kinslow, Hanrahan & Meyers, Kolatan & Mac Donald, Testa, SANAA, Van Berkel
& Bos, Guthrie+Buresh, Denari, Holl.
Antonino Saggio
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[28dec2000] |